CAPITOLO I

Lo spettro di uno squillo di tromba chiamava di là della porta. Le sette note erano deboli e lontane: il prodotto ectoplasmico di un fantasma d’argento, se è il suono la sostanza di cui sono fatte le ombre.

Robert Wolff sapeva che, al di là della porta, non potevano esserci né trombe né suonatori. Un minuto prima, aveva guardato nel ripostiglio. Aveva visto solo il pavimento di cemento, le pareti bianche, le crociere, uno scaffale e una lampadina.

Eppure aveva udito le note di tromba, deboli come se il suono fosse giunto dall’altra parte del mondo. Era solo, così nessuno poteva confermargli la realtà di qualcosa che, lui sapeva, era impossibile. La stanza nella quale si trovava, immobile, incantato, era il posto più assurdo per un’esperienza del genere. Ma lui, come soggetto, era abbastanza adatto. Negli ultimi tempi, sogni spettrali avevano turbato il suo sonno. Durante il giorno, strani pensieri e frammenti d’immagini passavano nella sua mente, fugaci ma vividi e stupefacenti. Erano indesiderati, inattesi e irresistibili.

Era preoccupato. Essere sulle soglie della pensione e soffrire di un esaurimento nervoso era inconcepibile. Comunque, poteva accadere a luì quello che era accaduto ad altri, e così l’unica soluzione restava quella di una buona visita medica. Ma lui non riusciva ad agire secondo ragione. Continuava ad attendere, e non diceva niente a nessuno, meno che mai alla moglie.

In quel momento, si trovava nel soggiorno di una casa, nuova, che faceva parte della Residenza Hohokam, e fissava la porta del ripostiglio. Se il corno avesse suonato ancora, avrebbe aperto la porta e avrebbe controllato se all’interno non si trovava nulla. Allora, sapendo che era stata la sua mente malata a creare le note, avrebbe abbandonato l’idea di comprare quella casa. Avrebbe ignorato le isteriche proteste della moglie, e sarebbe andato prima da un medico generico, quindi dallo psichiatra.

Sua moglie lo chiamò:

«Robert! Non è ora di venire su? Avanti, sei rimasto laggiù abbastanza. Voglio parlare a te e al signor Bresson!»

«Un attimo, cara» disse lui.

Lei chiamò di nuovo, questa volta così da vicino che egli fu costretto a voltarsi. Brenda Wolff era in cima alle scale che portavano nel soggiorno. La donna aveva la sua stessa età, sessantasei anni. La bellezza che aveva posseduto in passato, ormai era sepolta dal grasso, dalle vene grosse, dalle rughe, dai cosmetici, da un paio di occhiali spessi, e dai capelli grigio-acciaio. Wolff batté le palpebre quando la vide, come gli accadeva ogni volta che vedeva la sua immagine riflessa dallo specchio: il cranio calvo, le pieghe amare agli angoli della bocca, gli occhi arrossati e grinzosi. Era questo il suo dramma? Era incapace di adattarsi a ciò che accadeva a tutti gli uomini, piacesse o no? Oppure, quello che odiava in Brenda e in se stesso non era la decadenza fisica, ma la consapevolezza di non avere realizzato, nessuno dei due, i sogni di gioventù? Non c’era modo di evitare l’accanirsi del tempo sulla sua carne, ma il tempo era stato clemente con lui, permettendogli di vivere tanto a lungo. Non poteva accampare come scusa il fatto di non avere avuto tempo, di fronte al suo mancato raggiungimento di una specie di bellezza morale. Il mondo non aveva colpa del suo stato. Lui e lui solo era il responsabile; almeno, aveva la forza di affrontare questo dato di fatto. Non rimproverava l’universo, o quella parte di universo che era sua moglie. Lui non gridava, non piagnucolava, non imprecava come faceva Brenda.

C’erano stati momenti nei quali sarebbe stato facile lamentarsi o piangere. Quanti altri uomini non potevano ricordare nulla, prima dei vent’anni? Lui pensava che fossero stati vent’anni, perché i Wolff, che lo avevano adottato, lo avevano giudicato di quell’età. Era stato scoperto a vagare tra le colline del Kentucky, presso il confine con l’Indiana, dal vecchio Wolff. Lui non sapeva chi era, né come fosse giunto là. Kentucky, e perfino Stati Uniti d’America, erano state per lui parole prive di ogni significato: come, d’altronde, l’intera lingua inglese.

I Wolff l’avevano preso con loro, e avevano notificato il ritrovamento allo sceriffo. Le autorità avevano indagato, senza riuscire a identificarlo. In un altro momento, la sua storia avrebbe polarizzato per settimane l’interesse nazionale; ma in quel periodo, la nazione si era trovata in guerra con la Germania, e aveva avuto cose più importanti cui pensare. Robert, battezzato così in ricordo del figlio morto dei Wolff, aveva lavorato nella fattoria. Era anche andato a scuola, perché aveva perduto completamente il ricordo della sua istruzione.

Ancora peggio della sua mancanza di regolari cognizioni, era stato il fatto che lui non sapeva assolutamente come comportarsi. Ripetutamente aveva messo in imbarazzo o offeso gli altri. Aveva subìto il disprezzo, e, a volte, le selvagge reazioni dei contadini, ma aveva appreso rapidamente… e lavorando sodo, con volontà, e anche per la grande forza fisica che mostrava nel difendersi, aveva guadagnato il loro rispetto.

In un tempo incredibilmente breve, come se per lui si fosse trattato semplicemente di ripassare cose già risapute, aveva studiato e aveva superato l’esame di licenza media e quello di diploma. Sebbene il suo periodo di frequenza fosse inferiore di molti anni a quello richiesto dalla legge, aveva affrontato e superato gli esami di ammissione all’università agevolmente. E così era cominciato il suo grande amore per le lingue classiche, un amore che era durato tutta la vita. Più di tutte, egli amava il greco, perché destava sensazioni profonde in lui: col greco, si sentiva perfettamente a suo agio.

Dopo avere ottenuto la laurea all’Università di Chicago, aveva insegnato in numerose università dell’Est e del Midwest. Aveva sposato Brenda, una stupenda ragazza dall’animo affascinante. Almeno, così aveva pensato all’inizio. In seguito, aveva perduto le sue illusioni, ma si sentiva ancora abbastanza felice.

Sempre, comunque, il mistero della sua amnesia e della sua origine lo aveva perseguitato. Per un lungo periodo non gli aveva cagionato alcun fastidio, ma ora, sulla soglia della pensione…

«Robert» disse forte Brenda. «Vieni subito su! Il signor Bresson ha da fare.»

«Sono sicuro che il signor Bresson ha avuto molti clienti desiderosi di rendersi conto personalmente della casa, e a loro comodo» replicò, in tono blando. «O forse hai deciso di non volere la casa?»

Brenda lo fulminò con un’occhiata, poi scomparve, furiosa. Lui sospirò, pensando che, sicuramente, in seguito lei lo avrebbe accusato di averle fatto fare la figura della stupida, di proposito, davanti all’agente immobiliare.

Si voltò nuovamente verso la porta del ripostiglio. Avrebbe avuto il coraggio di aprirla? Era assurdo restare lì, immobile, come un individuo sotto shock o in uno stato psicotico di indecisione. Ma lui non poteva muoversi, tranne che per un sobbalzo che egli fece nell’udire nuovamente il corno modulare le sette note, lamentosamente, più forte di prima.

Il suo cuore batteva con violenza, come se dall’interno qualcuno tempestasse di colpi il suo petto. Si costrinse a sollevare la mano verso la maniglia della porta del ripostiglio, e a tirare. La porta cominciò a scorrere sui cardini. Il rumore provocato dallo spostamento soffocò il suono del corno.

Le bianche pareti di formica erano scomparse. Erano divenute l’ingresso di una scena che lui mai avrebbe potuto immaginare, sebbene la sua origine dovesse trovarsi nella sua mente.

La luce del sole si riversava dall’apertura, sufficientemente grande da permettergli di passare, piegato, dall’altra parte. Piante che sembravano alberi (ma non alberi della Terra) nascondevano parzialmente il paesaggio. Attraverso i rami e le fronde, poteva distinguere un cielo color verde vivo. Abbassò gli occhi per osservare il terreno sotto gli alberi. Sei o sette creature d’incubo erano radunate intorno a un enorme macigno. Era di roccia rossa, ricca di quarzo, e aveva una forma vagamente somigliante a quella di un fungo. I corpi pelosi e deformi di molte di quelle cose erano girati dall’altra parte, ma una era di profilo, stagliata contro il cielo verde. Il suo volto era brutale, primitivo, e l’espressione malevola. C’erano delle protuberanze sul corpo, sul volto e sulla testa, grumi di carne che davano l’impressione dell’incompiutezza, come se il Creatore avesse dimenticato di levigare le orride creature. Le due gambe tozze e corte somigliavano alle zampe posteriori di un cane. Stava tendendo le sue lunghe braccia verso il giovane uomo che era in piedi sulla cima piatta del macigno.

Quest’uomo indossava soltanto un paio di calzoni corti, di pelle di antilope, e un paio di mocassini. Era alto, muscoloso, dalle spalle larghe; la sua pelle era abbronzata; portava lunghi e folti capelli ramati; il suo viso era forte e virile. Aveva tra le mani lo strumento che doveva avere emesso le note che Wolff aveva udito.

L’uomo, dalla sua posizione dominante, colpì con un calcio una delle cose deformi, che cercava di raggiungerlo. Sollevò alle labbra il corno d’argento, per suonare di nuovo, poi vide Wolff in piedi, oltre l’apertura. Sorrise immediatamente, scoprendo i denti bianchissimi. Chiamò: «Sei venuto, finalmente!»

Wolff non si mosse, né rispose. Riuscì soltanto a pensare: Adesso sono impazzito del tutto! Allucinazioni visive, non solo uditive! E poi? Mi metterò a correre urlando, o uscirò tranquillamente a dire a Brenda che ho bisogno di un medico, subito? Subito! Niente indugi, niente spiegazioni. Zitta, Brenda, devo andare!

Fece un passo indietro. L’apertura cominciava a chiudersi, le pareti bianche stavano riacquistando la loro consueta solidità. O meglio, lui cominciava a rendersi conto della realtà.

«Ecco!» gridò il giovane che si trovava sul macigno. «Prendi!»

Lanciò il corno. Girando vorticosamente su se stesso, riflettendo la luce del sole che colpiva la sua superficie d’argento, il corno volò dritto verso di lui. Nell’attimo prima della chiusura definitiva delle pareti, il corno attraversò l’apertura e colpì Wolff alle gambe.

Emise un grido di dolore, perché non c’era nulla di ectoplasmico nel colpo violento. Attraverso la piccola apertura, vide il giovane dai capelli color rame sollevare una mano, e unire il pollice e l’indice. Il giovane sorrise e gridò: «Buona fortuna! Spero di vederti presto! Io sono Kickaha!»

Come un occhio umano che si chiuda lentamente, scivolando nel sonno, così l’apertura nella parete si restrinse. La luce si affievolì, e gli oggetti cominciarono a confondersi. Ma riuscì a vedere un’ultima scena, e fu allora che la fanciulla fece capolino, dietro il tronco di un albero.

Aveva degli occhi troppo grandi per essere una creatura umana, grandi per il suo volto come, in proporzione, quelli di un gatto. Le sue labbra erano rosse e piene, la sua pelle clorata. I capelli lunghissimi, folti e ondulati, che le scendevano liberi sul volto, erano a strisce, come la pelliccia di una tigre; giungevano quasi a terra mentre era piegata dietro l’albero.

Poi la parete ritornò bianca come l’occhio di un morto. Tutto era come prima, tranne il dolore al ginocchio e il contatto del corno, che giaceva a terra, vicino alla sua caviglia.

Lo sollevò per esaminarlo, nella penombra. Anche se era intontito, non credeva più, comunque, di essere pazzo. Aveva dato uno sguardo a un altro universo, e gli era stato consegnato qualcosa che all’altro universo apparteneva… come e perché, non sapeva.

Il corno era lungo quasi settanta centimetri, e pesava poco più di un etto. Aveva la forma di un corno africano, con la sola differenza costituita dal padiglione, che si allargava notevolmente. C’era un bocchino d’oro o di un materiale dorato; il corno era invece fatto d’argento, o di materiale placcato d’argento. Non c’erano fori, ma rigirandolo vide una fila di sette minuscoli bottoni. All’interno del padiglione, a un centimetro dall’orlo, c’era una rete di fili d’argento. Girando il corno in modo che il padiglione fosse colpito dalla luce, gli parve che i fili si spingessero profondamente all’interno del corno.

Fu allora, quando la luce colpì il corno in pieno, che egli vide una cosa che era sfuggita alla sua prima indagine: a metà del corno era inciso un geroglifico. Non somigliava a nulla che Wolff avesse visto prima, e lui era un esperto di tutti i tipi di alfabeti, ideogrammi e scritture.

«Robert!» disse sua moglie.

«Vengo subito, cara!» Nascose il corno in un angolo del ripostiglio, in alto, e chiuse la porta. Non poteva fare altro, salvo che fuggire dalla casa col corno. Se appariva con il corno in mano, sarebbe stato tempestato di domande da sua moglie e da Bresson. Dato che non era entrato nella casa col corno, non avrebbe potuto affermare di esserne il proprietario. Bresson avrebbe sequestrato lo strumento, dato che era stato scoperto in una proprietà della sua agenzia.

Wolff era terribilmente incerto. Come avrebbe potuto portare via dalla casa il corno? Cosa avrebbe impedito a Bresson di portare laggiù degli altri clienti, anche in giornata, clienti che avrebbero visto il corno non appena aperta la porta del ripostiglio, e che l’avrebbero segnalato a Bresson?

Salì le scale ed entrò nell’ampio soggiorno. Brenda era ancora furiosa. Bresson, un individuo grassoccio, che portava gli occhiali, dell’età di circa trentacinque anni, sembrava a disagio, anche se sorrideva.

«Be’, che gliene pare?» domandò.

«Magnifica!» disse Wolff. «Mi ricorda le case delle nostre parti.»

«Piace anche a me» disse Bresson. «Anch’io sono del Midwest. Capisco benissimo come lei possa desiderare qualcosa di diverso da un ranch. Non che io sia contrario a quel tipo di casa. Vivo in una di esse.»

Wolff si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il sole di un pomeriggio inoltrato di maggio splendeva vivido nel cielo azzurro dell’Arizona. Il prato era coperto di erba, piantata tre settimane prima, nuova come.le case che occupavano il recentissimo quartiere della Residenza Hohokam.

«Quasi tutte le case sono a livello del terreno» diceva Bresson. «Livellare questo terreno calcareo è molto costoso, ma queste case non sono affatto care. Rispetto a quello che valgono.»

Wolff pensò: Se il terreno non fosse stato scavato per fare posto al soggiorno, cosa avrebbe visto l’uomo dell’altro universo, quando l’apertura si è spalancata? Avrebbe visto soltanto terra, e così avrebbe perduto l’occasione di liberarsi di quel corno? Senza dubbio.

«Penso che abbiate letto delle difficoltà che ci hanno fatto ritardare i lavori» disse Bresson. «Mentre stavamo scavando, abbiamo trovato un’antica città degli Hohokam.»

«Gli Hohokam?» domandò la signora Wolff. «E chi erano?»

«Molte persone che giungono nell’Arizona non ne hanno mai sentito parlare» rispose Bresson. «Ma non si vive a lungo nella zona del Phoenix senza imbattersi in qualcosa che può essere collegato con la loro esistenza. Erano gli indiani che vivevano molto tempo fa nella Valle del Sole; si pensa che siano giunti quaggiù circa 1.200 anni or sono. Scavarono canali d’irrigazione, costruirono città in questo territorio, la loro civiltà continuò a progredire. Ma qualcosa accadde loro, nessuno sa che cosa. Semplicemente, scomparvero diverse centinaia di anni fa. Alcuni archeologi affermano che i loro discendenti sono gli indiani Papago e Pima.»

La signora Wolff sbuffò e disse:

«Li ho visti. E mi sembra che non siano capaci di costruire nulla, all’infuori di quei festoni nelle riserve.»

Wolff si voltò e disse, furioso:

«I moderni Maya non sembrano capaci di avere costruito, un tempo, i loro templi, né di avere inventato il concetto di zero. Ma è stato proprio così.»

Brenda annaspò. Il signor Bresson esibì un sorriso ancora più meccanico.

«Comunque, abbiamo dovuto sospendere gli scavi, fino a che gli archeologi non avessero terminato il loro lavoro. Circa tre mesi di blocco, ma non abbiamo potuto muovere un dito, perché lo stato ci impediva di muoverci.

«Però, questa potrebbe essere stata la vostra fortuna. Se non ci avessero fermati, a quest’ora tutte le case sarebbero già state vendute. Così, tutto è bene quel che finisce bene, no?»

Sorrise cordialmente e guardò marito e moglie.

Wolff fece una pausa, inspirò profondamente, sapendo come avrebbe reagito Brenda, e disse:

«La prendiamo. Firmeremo subito i contratti.»

«Robert!» gridò la signora Wolff. «Non mi hai neppure chiesto un parere!»

«Mi dispiace, cara, ma ho deciso.»

«Be’, io no.»

«Andiamo, andiamo, amici, non c’è bisogno di precipitare le cose» disse Bresson. Il suo sorriso era disperato. «Prendete tempo, discutetene insieme. Anche se qualcuno verrà a comprare questa casa, questa in particolare… e potrebbe accadere, prima del tramonto; le vendiamo come il pane… be’, anche se succede questo, ce ne sono abbastanza, perfettamente uguali.»

«Io voglio questa casa.»

«Robert, sei diventato pazzo?» pigolò Brenda. «Non ti ho mai visto agire in questo modo.»

«Ho ceduto a te su quasi tutto» disse lui. «Volevo farti felice. Così, ora, cedi a me su questo. Non ti chiedo molto. Inoltre, stamattina tu stessa mi hai detto che volevi una casa come questa, e la Residenza Hohokam offre i prezzi migliori, i soli a noi accessibili.

«Firmiamo adesso le opzioni. Come acconto, posso dare un assegno.»

«Io non firmo, Robert.»

«Perché non andate a casa a discuterne?» suggerì Bresson. «Mi chiamerete, non appena raggiunta una decisione.»

«Non basta la mia firma?» domandò Wolff.

Conservando il suo sorriso forzato, Bresson disse:

«Mi dispiace. Deve firmare anche la signora Wolff.»

Brenda sorrise, trionfante.

«Mi prometta di non mostrarla a nessun altro» disse Wolff. «Comunque, fino a domani. Se ha paura di perdere un affare, le darò un anticipo.»

«Oh, questo non sarà necessario» Bresson si diresse verso la porta con una fretta che tradiva il suo desiderio di uscire da una situazione imbarazzante. «Non la mostrerò a nessuno fino a che non avrò vostre notizie, domattina.»

Durante il percorso verso le loro stanze al Sands Motel, a Tempe, nessuno dei due pronunciò una sola parola. Brenda rimase rigidamente seduta, e continuò a fissare un punto imprecisato, oltre il parabrezza. Wolff le lanciò qualche occhiata furtiva, notando che il suo naso sembrava più aguzzo e le sue labbra più sottili; se andava avanti così, tra poco avrebbe avuto l’aspetto di un grosso pappagallo.

E quando finalmente sarebbe esplosa in un fiume di parole, avrebbe parlato come un grosso pappagallo. Il solito torrente di rimproveri e di minacce, vecchi e stanchi eppure energici. Lo avrebbe rimproverato di non avere avuto cura di lei, per tutti quegli anni, gli avrebbe rimproverato per l’ennesima volta di avere sempre tenuto il naso tra i libri, o di essersi dedicato al tiro con l’arco, alle esplorazioni, alle scalate di montagne, tutte attività sportive nelle quali lei non lo aveva mai potuto seguire, a causa della sua artrite. Avrebbe dipanato la lunga sequenza di anni di infelicità, o di proclamata infelicità, e avrebbe finito col piangere amaramente e violentemente.

Perché era rimasto con lei? Lui sapeva soltanto di averla amata moltissimo, da giovane, e sapeva anche che le sue accuse non erano del tutto immotivate. Soprattutto, trovava penosa l’idea della separazione, più penosa perfino dell’idea di restare con lei.

Eppure, lui aveva il diritto di raccogliere il frutto delle sue fatiche, come professore d’inglese e di lingue classiche. Ora che possedeva abbastanza denaro e abbastanza tempo libero, avrebbe potuto proseguire quegli studi che il suo dovere professionale gli aveva impedito di approfondire. Con quella casa in Arizona come base, avrebbe potuto anche viaggiare. Ma lo poteva davvero? Brenda non avrebbe rifiutato di accompagnarlo… anzi, avrebbe insistito su questo punto. Ma si sarebbe tanto annoiata, da rendere un inferno la sua vita. E non poteva biasimarla, perché lei non possedeva i suoi stessi interessi. Ma lui doveva rinunciare alle cose che rendevano, secondo lui, la vita degna di essere vissuta, per farla contenta? Soprattutto sapendo che non sarebbe mai stata contenta ugualmente?

Come si era aspettato, la sua lingua silenziosa entrò in attività subito dopo cena. Lui ascoltò, cercò di protestare con calma, cercò di mettere in evidenza la sua mancanza di logica e l’ingiustizia e l’aleatorietà delle sue recriminazioni. Fu del tutto inutile. Lei terminò come al solito, piangendo e minacciando di lasciarlo o di uccidersi.

Questa volta, lui non si arrese.

«Voglio quella casa, e voglio godere la vita secondo i miei progetti» disse con fermezza. «Ecco tutto.»

Indossò il soprabito, e si diresse verso la porta.

«Ritornerò più tardi. Forse.»

Lei strillò, e gli tirò dietro un portacenere. Lui lo schivò; il portacenere colpì lo stipite della porta, ammaccando il legno. Fortunatamente, lei non lo seguì e non fece una scenata fuori, come era accaduto in precedenti occasioni.

Era ormai notte, la luna non era ancora sorta, e le sole luci erano quelle delle finestre del motel, delle lampade stradali, e dei numerosi fari delle macchine che percorrevano l’Apache Boulevard. Guidò la sua auto lungo il viale, poi si diresse a est, poi voltò verso sud. Dopo pochi minuti, era sulla strada che portava alla Residenza Hohokam. Il pensiero di quello che intendeva fare gli faceva battere forte il cuore e accapponare la pelle. Questa era la prima volta in vita sua in cui aveva considerato seriamente la possibilità di commettere un atto criminale.

Le case della Hohokam erano illuminate, rumorose (un sistema di altoparlanti diffondeva un programma di musiche) e si udivano le voci dei bambini che giocavano nella strada mentre i loro genitori guardavano le case.

Lui proseguì, attraversò Mesa, fece un giro vizioso e si diresse di nuovo verso Tempe, passò da Van Buren ed entrò nel cuore di Phoenix. Prese una scorciatoia, verso nord, poi si diresse a est, e finalmente si trovò nella città di Scottsdale. Là si fermò per un’ora e mezzo in una piccola taverna. Dopo essersi concesso il lusso di quattro bicchieri di Vat 69, rinunciò. Non ne voleva più… o meglio, non aveva il coraggio di prenderne di più, perché sarebbe stato spiacevole essere del tutto sbronzo durante l’esecuzione del suo progetto.

Quando ritornò alla Residenza Hohokam, le luci erano spente e il silenzio era tornato. Parcheggiò la sua auto dietro la casa che aveva visitato quel pomeriggio. Infilò il guanto alla mano destra, strinse il pugno e fracassò il vetro della finestra del soggiorno.

Quando entrò nella stanza, ansava e il cuore gli batteva come se avesse corso lungo dieci isolati. Era spaventato, ma riuscì ugualmente a sorridere di se stesso. Vivendo spesso in un mondo immaginario, si era spesso visto nei panni di uno scassinatore… non certo di un volgare delinquente, ma di un raffinato Arsenio Lupin. Adesso sapeva che il suo rispetto della legge era troppo, perché lui potesse mai diventare un criminale, piccolo o grande che fosse. La sua coscienza lo perseguiva per quel piccolo atto criminale, per il quale aveva trovato mille giustificazioni perfettamente valide. Inoltre, l’idea di essere catturato, sorpreso, svergognato lo fece quasi rinunciare al corno. Dopo avere vissuto una vita tranquilla e rispettabile, se lo avessero scoperto, sarebbe stato rovinato. Valeva la pena?

Decise per il sì. Se avesse rinunciato in quel momento, si sarebbe chiesto per tutto il resto della vita che cosa avesse perduto. La più grande delle avventure lo aspettava, un’avventura che mai uomo aveva intrapreso. Se ora agiva da vigliacco, avrebbe anche potuto spararsi, perché non avrebbe sopportato la perdita del corno e le recriminazioni sulla sua mancanza di coraggio.

Era così buio nel soggiorno, che dovette trovare a tentoni la strada per il ripostiglio. Trovata la porta scorrevole, cominciò a spingere lentamente la maniglia. Lentamente, per evitare ogni rumore, e si arrestò per sentire se qualche suono proveniva dall’esterno.

Quando la porta fu completamente aperta, fece qualche passo indietro. Infilò l’imboccatura del corno tra le labbra, e soffiò, piano.

Il rumore che uscì dallo strumento fu così forte che egli lo lasciò cadere. A tentoni, riuscì finalmente a ritrovarlo sul pavimento, in un angolo della stanza.

La seconda volta, soffiò con forza. Ci fu un’altra nota, non più forte della prima. Qualche meccanismo, nell’interno del corno, forse il reticolato di fili d’argento, regolava il volume. Per diversi minuti attese, col conio vicino alle labbra. Stava cercando di ricostruire mentalmente l’esatta sequenza delle sette note che aveva udito. Evidentemente, i sette minuscoli bottoni determinavano i diversi accordi. Ma non avrebbe potuto scoprire l’esatto suono di ognuno, senza suonare e attirare così l’attenzione.

Si strinse nelle spalle, e mormorò: «Al diavolo!»

Soffiò di nuovo, ma questa volta schiacciò i bottoni: per primo, quello più vicino a lui. Uscirono sette note, e il rumore fu notevole. Erano quelle che ricordava, ma non nella sequenza che aveva udito.

Quando l’ultima nota fu emessa, si udì un grido, a una certa distanza. Wolff fu preso quasi dal panico. Imprecò, sollevò il corno alle labbra, e schiacciò i bottoni in un ordine che, sperava, avrebbe riprodotto l’apriti sesamo, la chiave musicale, che apriva la porta dell’altro mondo.

Nello stesso istante, il raggio di una torcia elettrica colpì la finestra dal vetro rotto, e passò oltre. Wolff soffiò di nuovo. La luce della torcia colpì di nuovo la finestra. Si udirono altre grida. Disperato, Wolff tentò diverse combinazioni, schiacciando i bottoni. Il terzo tentativo sembrò la riproduzione esatta del motivo emesso dal corno, quando era stato adoperato dal giovane in piedi sul macigno a forma di fungo.

Il raggio di una lampada penetrò dalla finestra. Una voce profonda grugnì:

«Vieni fuori, tu laggiù! Vieni fuori, se non vuoi che cominci a sparare.»

Nello stesso istante, una luce verdastra apparve sulla parete, si espanse, e aprì un foro. Da esso si sprigionò una luce lunare. Gli alberi e il macigno erano semplici profili oscuri, sullo sfondo di un cielo verde-argenteo, la cui luce era sprigionata da un enorme globo di cui soltanto il bordo era visibile.

Non indugiò. Forse avrebbe esitato, se non lo avessero scoperto, ma adesso doveva scappare. L’altro mondo offriva incertezza e pericolo, ma questo offriva la certezza dell’infamia, dell’ignominia e della vergogna. Mentre il guardiano ripeteva la sua intimazione, Wolff si lasciò alle spalle lui e il suo mondo. Fu costretto a chinarsi per attraversare l’apertura, che già si restringeva. Quando, una volta giunto dall’altra parte, si voltò a dare un’ultima occhiata al suo vecchio mondo, vide un’apertura non più grande dell’oblò di una nave. Dopo qualche istante, essa scomparve.

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