CAPITOLO XV

Un mese dopo, finalmente arrivarono ai piedi del monolito, la Doozvillnavava. Sapevano di essere sulla pista giusta, perché avevano sentito voci che parlavano dei gworl, e avevano interrogato persone che li avevano visti da una certa distanza.

«Non so perché si sono tanto allontanati dal corno» disse lui. «Forse pensano di nascondersi in una caverna sulla montagna, e di tornare dopo che le acque si siano quietate.»

«Potrebbe darsi disse Chryseis, che il Signore abbia loro ordinato di portargli per primo Kickaha. È stato per tanto tempo una pulce nell’orecchio del Signore, che il Signore potrebbe essere esasperato solo a pensarci. Forse vuole essere sicuro dell’eliminazione di Kickaha, prima di mandare di nuovo i gworl alla ricerca del corno.»

Wolff ammise che la donna poteva avere ragione. Era possibile perfino che il Signore fosse deciso a calarsi dal suo palazzo con le stesse corde che erano servite ai gworl. Però questo non pareva probabile, perché il Signore doveva essere cauto. Poteva fidarsi dei gworl? Avrebbero potuto lasciarlo giù per sempre.

Wolff guardò la contorta montagna, grande come un continente. Secondo Kickaha era alta almeno due volte il monolito dell’Abharhploonta, sul quale poggiava il piano di Drachelandia. Era alta più di ventimila metri, e le creature che dimoravano sulle sue pendici erano crudeli, avide e feroci quanto quelle che si nascondevano nelle caverne degli altri monoliti. La Doozvillnavava era terrificante; la sua faccia contorta aveva un’enorme depressione, che le dava l’aspetto di una bocca spalancata; il gigante sembrava pronto a inghiottire tutti coloro che osavano disturbarlo.

Chryseis, esaminando l’agghiacciante monolito, rabbrividì. Ma non disse nulla; già da qualche tempo aveva cessato di dare voce alle sue paure.

Forse non si preoccupava più di se stessa, ma della vita che era dentro di lei. Infatti, la donna era sicura di essere incinta.

L’abbracciò e la baciò e le disse:

Vorrei partire subito, ma dobbiamo fare diversi preparativi. Non possiamo attaccare quel mostro senza riposo e senza cibo sufficiente.

Tre giorni dopo, indossando abiti adatti e portando corde, armi, attrezzi da scalata, e borse di cibo e acqua, essi cominciarono l’ascesa. Wolff portava ii corno in una borsa di pelle legata alla cintola.

Novantun giorni dopo, erano a circa metà del percorso. E ogni passo era stato una battaglia contro le pareti levigate, i punti insidiosi, i crepacci e i dirupi e i massi scivolosi, e i predatori. Questi comprendevano il serpente dai molti piedi che già aveva incontrato sulla Thayaphayawoed, lupi dai lunghi artigli capaci di fare presa sulla roccia, la scimmia gigante, enormi divoratori, e altri esseri più piccoli ma ferocissimi.

Quando i due giunsero in cima alla Doozvillnavava, erano passati 186 giorni dalla loro partenza. Né l’uno né l’altra erano uguali, fisicamente e mentalmente, a come erano stati prima del viaggio. Wolff era dimagrito, ma era più forte e resistente. Sul volto e sul corpo portava cicatrici che testimoniavano terribili lotte contro gli animali rapaci. Il suo odio per il Signore era ancor più feroce, perché Chryseis aveva perduto il feto quando erano arrivati a 3000 metri di altezza. Era una cosa prevista, ma lui sapeva che questo non sarebbe accaduto, se non fosse stato per il Signore.

Chryseis era stata rafforzata nel corpo e nello spirito dalle esperienze sopportate prima di affrontare la Doozvillnavava. Ma le esperienze e le situazioni che aveva dovuto sfidare durante la scalata erano state ben peggiori di ogni precedente avversità, e avrebbe potuto cedere. Questo non accadde, confermando così l’idea originaria di Wolff, a proposito della sua forza morale costituzionale. Gli effetti dei millenni di torpore nel Giardino erano stati spazzati via. La Chryseis che aveva soggiogato il monolito era molto più simile a quella che aveva affrontato le avversità della vita sull’Egeo. Solo che adesso era molto più saggia.

Wolff attese diversi giorni, che passò riposando e cacciando e riparando gli archi e fabbricando nuove frecce. Rimase inoltre a scrutare il cielo, sperando nell’arrivo di un’aquila. Da quando aveva parlato a Phthie nella città in rovina sul fiume Guzirit, non ne aveva più vista una. Non apparve nessuna creatura dal corpo verde, così egli decise, seppure riluttante, di addentrarsi nella giungla. Come su Drachelandia. un anello dello spessore di 1500 chilometri circondava completamente il margine del piano. All’interno della cintura si trovava la terra di Atlantide. Questa, escluso il monolito che sorgeva al centro, copriva un’area uguale a quelle sommate di Francia e Germania.

Wolff aveva cercato di vedere la colonna sulla quale sorgeva il palazzo del Signore, dato che Kickaha gli aveva detto che poteva essere visto dal ciglio del precipizio, anche se era molto più sottile degli altri monoliti. Riuscì a vedere soltanto un grande e oscuro continente di nubi, contorto e interrotto dai lampi. Idaquizzoorhruz era nascosto. E non riuscì a vederlo neppure scalando una collina o salendo sulla cima di un albero. Una settimana dopo, le nuvole tempestose continuavano a cingere la colonna di pietra. Questo lo preoccupava, perché, trovandosi su quel pianeta da tre anni e mezzo, non aveva mai visto una tempesta del genere.

Passarono quindici giorni. Il sedicesimo, trovarono sullo stretto sentiero bordato di verde un cadavere decapitato. Tra gli arbusti, a un metro di distanza, c’era il capo sormontato dal turbante di un Khamshem.

«Anche Abiru sta inseguendo i gworl» disse Wolff. «Forse i gworl gli hanno rubato i gioielli abbandonando il castello di Von Elgers. O, e questo è più probabile, lui pensa che siano loro adesso i padroni del corno.»

Dopo due chilometri si imbatterono in un altro Khamshem, con lo stomaco squarciato e le budella riversate all’esterno. Wolff cercò di strappargli delle informazioni, prima di convincersi che ormai era troppo tardi. Allora Wolff pose fine alle sue sofferenze, notando che Chryseis non distoglieva neppure lo sguardo dalla scena. Poi si infilò il pugnale alla cintura, e impugnò con la destra la scimitarra del saraceno. Sentiva che presto ne avrebbe avuto bisogno.

Mezz’ora dopo, udì delle grida e degli schianti in fondo al sentiero. Lui e Chryseis si nascosero nel fogliame, ai margini del sentiero. Abiru e due Khamshem vennero correndo con la morte alle loro spalle, rappresentata da tre negroidi dai volti pitturati e le lunghe barbe tinte di rosso. Uno lanciò la sua lancia: questa filò nell’aria e andò a colpire la schiena di un Khamshem. Questi cadde sul terreno soffice senza rumore, e rimase immobile come un vascello fantasma, il cui albero maestro era la lancia. Gli altri due Khamshem si voltarono per affrontare l’assalto.

Wolff fu costretto ad ammirare Abiru, che combatteva con grande perizia e coraggio. Sebbene il suo compagno fosse caduto con una lancia nello stomaco, Abiru continuò a vibrare colpi con la sua scimitarra. Infine due dei selvaggi morirono, e il terzo preferì darsela a gambe. Dopo la scomparsa del negroide, Wolff si avvicinò silenziosamente ad Abiru. Colpì col taglio della mano per paralizzare il braccio del saraceno e far cadere la scimitarra.

Abiru fu tanto impaurito e sorpreso che non riuscì a parlare. Vedendo Chryseis uscire dai cespugli, i suoi occhi si spalancarono ancora di più. Wolff gli chiese quale fosse la situazione. Dopo una breve lotta, Abiru ritrovò la parola, e cominciò a parlare. Come aveva immaginato Wolff, Abiru si era messo all’inseguimento dei gworl con i suoi uomini e un certo numero di Sholkin, A poche miglia da quel punto, aveva trovato i gworl. O meglio, erano stati loro a trovare lui. L’imboscata aveva ottenuto un parziale successo, perché un buon terzo dei Khamshem era stato ucciso o gravemente ferito. Tutto questo era avvenuto senza perdite da parte dei gworl, che avevano lanciato i coltelli dagli alberi o dai cespugli.

I Khamshem erano fuggiti, disperdendosi, nella speranza di potersi concentrare in un posto migliore, sul sentiero… se fossero riusciti a trovarne uno. Poi cacciati e cacciatori si erano imbattuti in un’orda di selvaggi negri.

«E presto ce ne saranno molti altri sulle tue tracce» disse Wolff. «Cosa è accaduto a Kickaha e al funem Laksfalk?»

«Non so niente di Kickaha. Non era con i gworl. Ma c’era il cavaliere giudeo.»

Per un istante, Wolff prese in considerazione l’opportunità di uccidere Abiru. Però non gli piaceva farlo a sangue freddo, e inoltre voleva fargli delle altre domande. Pensava che l’uomo nascondesse molte cose, e non fosse quello che fingeva di essere. Spingendo avanti Abiru, con la scimitarra alle costole, ripresero a discendere il sentiero. Abiru protestò, dicendo che sarebbero stati uccisi; Wolff gli disse di tacere. Dopo pochi minuti udirono le grida e le urla di uomini che combattevano. Attraversarono un torrentello e si trovarono ai piedi di un’impervia collina.

Questa era tanto rocciosa da sembrare quasi brulla. Sulle pendici della collina si sviluppava la lotta… c’erano gworl morti e feriti, Khamshem, Sholkin, e selvaggi. Verso la cima della collina, con le spalle contro una parete di roccia e sotto una specie di tettoia formata da due enormi macigni, tre combattenti respingevano i negri. Questi erano un gworl, un Khamshem, e il barone giudeo. Quando Wolff e Chryseis cominciarono a salire, il Khamshem cadde, crivellato di lance. Wolff disse a Chryseis di tornare indietro. Come risposta, lei infilò una freccia nell’arco e vibrò il colpo. Un selvaggio cadde, con una freccia infilata nella schiena.

Wolff sorrise amaramente, e cominciò a scagliare frecce a sua volta. Lui e Chryseis scelsero solo quelli che si trovavano in ultima fila, sperando di abbatterne un buon numero prima che gli altri si accorgessero dell’attacco Ebbero successo fino alla caduta del dodicesimo. Per caso un selvaggio si voltò e vide il compagno vicino a lui cadere. Gridò e attirò l’attenzione di coloro che si trovavano vicino a lui. Questi immediatamente brandirono le lance e scesero di corsa dalla collina, lasciando il gruppo principale ad attaccare i gworl e il giudeo. Prima di giungere a metà della collina, altri quattro erano stati uccisi.

Altri tre caddero colpiti dalle frecce. I sei superstiti persero ogni ardore. Fermandosi, lanciarono le loro armi, ma da una tale distanza che non fu difficile per gli arcieri evitarle. Wolff e Chryseis, agendo freddamente e razionalmente, come aveva loro insegnato la lunga pratica, ne abbatterono altri quattro. I due sopravvissuti, urlando, cercarono di correre verso i loro compagni in alto. Non ci riuscirono, sebbene uno fosse soltanto ferito alla gamba.

In quel momento, il gworl cadde. Il funem Laksfalk rimase solo contro quaranta. Aveva un leggero vantaggio, e cioè che i selvaggi potevano piombare su di lui soltanto a due per volta, a causa della particolare conformazione del luogo prescelto per l’assedio. Il funem Laksfalk, con la scimitarra roteante e coperta di sangue, cantava forte delle canzoni di guerra giudaiche.

Wolff e Chryseis riuscirono a trovare un certo riparo dietro due macigni, e altri cinque selvaggi caddero. Ma a questo punto, le frecce erano terminate. Wolff disse:

«Tirane fuori dai cadaveri, e usa quelle. Io vado a soccorrerlo.»

Raccolse una lancia e corse sulle pendici della collina, seguendo una scorciatoia, sperando che il grosso dei selvaggi fosse troppo occupato per vederlo. Quando fu dall’altra parte, vide due selvaggi in agguato sulla tettoia naturale del riparo di Laksfalk. Non potevano piombare su di lui, per la particolare conformazione dei macigni. Ma aspettavano il momento in cui il giudeo si fosse avventurato troppo avanti.

Wolff lanciò il suo proietto, e colpì uno dei selvaggi nelle natiche. Il selvaggio urlò e cadde in avanti dalla roccia, probabilmente sui suoi compagni che stavano attaccando. L’altro si alzò e si girò in tempo per ricevere il coltello di Wolff nello stomaco. Cadde in avanti.

Wolff sollevò un piccolo macigno, e lo issò in cima a uno dei grossi macigni, e si arrampicò. Poi sollevò di nuovo il piccolo macigno, lo sollevò al di sopra del capo, e avanzò fino sul ciglio del grande macigno. Gridò e lo gettò sulla folla di attaccanti. Questi sollevarono il capo giusto in tempo per vedere Sa roccia scendere su di loro. Ne travolse almeno tre, e rotolò dalla collina. A questo punto, i sopravvissuti fuggirono, in preda al panico. Forse pensavano che Wolff non fosse solo. O, visto che erano selvaggi indisciplinati, erano stati terrorizzati dalle troppe perdite subite t’inora. La visione di tutti i loro compagni uccisi alle loro spalle doveva avere contribuito al crearsi del panico.

Wolff sperò che non ritornassero. Per aggiungere fuoco all’incendio della loro paura, lanciò giù dalla collina un altro grosso macigno. Il macigno ballonzolando e saltando li inseguì, simile a un mostro d’incubo e ne colpì anche uno, prima di perdersi sul fondo.

Chryseis, dietro il suo riparo, uccise altri due selvaggi con le frecce.

Wolff si chinò sul barone, e lo trovò a terra. Il suo volto era grigiastro, e il sangue usciva dalla ferita di lancia che gli squarciava il petto.

«Tu!» disse con voce debole. «L’uomo di un altro mondo. Mi hai visto combattere?»

Wolff si chinò a esaminare la ferita.

«Ho visto. Hai combattuto come uno dei guerrieri di Giosuè, amico mio. Hai combattuto come mai ho visto combattere. Devi averne uccisi almeno venti.»

Il funem Laksfalk riuscì persino a sorridere:

«Erano venticinque. Li ho contati.»

Poi sorrise normalmente, e disse:

«Entrambi stiamo tirando un poco la verità, come direbbe il nostro amico Kickaha. Ma non troppo. È stato un grande combattimento. Rimpiango solo di avere dovuto combattere senza amici e senza armatura e in un luogo solitario dove nessuno saprà mai che un funem Laksfalk ha aggiunto gloria al suo nome. Anche se è stato contro un’orda di selvaggi nudi e urlanti.»

«Lo sapranno» disse Wolff. «Sarò io a dirlo, un giorno.»

Non gli stava dando delle false parole di conforto. Lui e il giudeo sapevano benissimo che la morte era dietro l’angolo, e fiutava la preda con ansia famelica.

«Sai cosa è accaduto a Kickaha?» domandò.

«Ah, quel demonio! Si è tolto le catene, una notte. Ha cercato di aprire anche le mie, ma non ce l’ha fatta. Poi se ne è andato, con la promessa di ritornare a liberarmi. E così farà, ma sarà troppo tardi.»

Wolff guardò giù dalla collina. Chryseis stava salendo, con diverse frecce recuperate dai cadaveri. I negri si erano radunati nella pianura, e stavano discutendo animatamente tra loro. Degli altri uscivano dalla giungla e si univano a loro. I nuovi arrivati erano circa quaranta. Erano guidati da un uomo abbigliato con penne multicolori, che portava una spaventosa maschera di legno. Agitava un bastone, e sembrava arringarli.

Il giudeo chiese a Wolff cosa stava accadendo. Wolff glielo disse. Il giudeo parlò con voce così fioca, che Wolff fu costretto a mettere l’orecchio quasi sulle iabbra del moribondo.

«Era il mio sogno più grande, barone Wolff, di combattere un giorno al tuo fianco. Ah, quale nobile coppia di cavalieri avremmo fatto, con le armature e agitando le nostre… S’iz kalt.»

Le labbra divennero mute e bluastre. Wolff si alzò, per guardare di nuovo alle pendici della collina. I selvaggi stavano salendo a raggera. Wolff si mise a raccogliere i cadaveri e ad ammucchiarli, per fare una trincea. L’unica speranza, una speranza assai debole, era di permettere il passaggio solo a uno o due uomini per volta. Se perdevano molte unità, potevano scoraggiarsi e decidersi ad andare via. Non ci credeva neppure lui, perché quei selvaggi mostravano una notevole pervicacia, malgrado quelle che pet loro avrebbero dovuto essere delle perdite notevolissime. Inoltre, potevano allontanarsi di quel tanto che bastava a prendere per fame e per sete Wolff e Chryseis, che prima o poi, in caso di assedio, avrebbero dovuto uscire dal loro rifugio.

I selvaggi si fermarono a metà strada, per dare tempo a coloro che erano saliti dall’altra parte di occupare i propri posti. Poi, a un grido dell’uomo dalla maschera di legno, salirono con la massima rapidità possibile. I due assediati non si mossero finché le lance non rimbalzarono sulle pareti di roccia o si conficcarono nella barricata di cadaveri. Wolff lanciò due frecce, Chryseis tre. Nessuna mancò il bersaglio.

Wolff lanciò la sua ultima freccia. Colpì la maschera del capo, che rotolò a terra. Dopo un istante, si tolse la maschera. Sebbene il suo volto fosse ridotto a una maschera di sangue, fu lui a guidare il secondo assalto.

Un ululato spettrale si levò dalla giungla. I selvaggi si fermarono, si girarono, e tacquero osservando la giungla che circondava la collina. Di nuovo, il grido lamentoso rimbalzò tra gli alberi.

Improvvisamente, un uomo dai capelli di bronzo, che indossava soltanto un perizoma di leopardo, uscì come un bolide dalla giungla. In una mano aveva una lancia, e nell’altra un lungo coltello. Dalla spalla gli pendeva un laccio, e alla cintura aveva infilato un arco e una faretra. Dietro di lui, una massa di scimmie dalle lunghe braccia, pelose e dalle spalle larghe si riversò dagli alberi.

Alla vista delle scimmie, i selvaggi urlarono e cercarono di fuggire dall’altra parte della collina. Delle altre scimmie apparvero dall’altra parte; come mascelle fameliche, le due colonne di quadrumani si chiusero sui negri urlanti.

Ci fu una breve lotta. Alcune scimmie caddero con una lancia nel petto, ma quasi tutti i negri abbandonarono le loro armi e cercarono di fuggire o si buttarono a terra tremanti. Ne scamparono soltanto dodici.

Wolff, sorridendo di sollievo, disse all’uomo che indossava la pelle di leopardo:

«E come ti chiamano su questo piano?»

Kickaha gli restituì il sorriso.

«Prova a indovinare.»


Il sorriso scomparve, quando vide il barone.

«Maledizione! Ho impiegato troppo tempo a trovare le scimmie, e poi a trovare voi! Era un brav’uomo, il giudeo; mi piaceva il suo stile. Accidenti! Comunque, gli ho promesso che, se lui moriva, avrei portato le sue ossa nel castello dei suoi padri, e la promessa la manterrò. Non subito, però. Abbiamo alcune cose da sistemare.»

Kickaha chiamò alcune scimmie, che presentò:

«Come vedi» disse a Wolff, «hanno una struttura più simile a quella del tuo amico Ipsewas che a quella delle vere scimmie. Le loro gambe sono troppo lunghe e le loro braccia troppo corte. Come Ipsewas, e a differenza delle grandi scimmie dell’autore preferito della mia adolescenza, hanno un cervello umano. Odiano il Signore per ciò che ha fatto loro: non vogliono solo vendetta, vogliono anche ritornare in un corpo umano.»

Fu soltanto allora che Wolff si ricordò di Abiru. Era scomparso. Probabilmente, era fuggito quando Wolff era corso in soccorso del funem Laksfalk.

Quella notte, intorno al fuoco, Wolff e Chryseis, mangiando arrosto di daino, sentirono parlare del cataclisma che avveniva in Atlantide. Era iniziato col nuovo tempio che il Rhadamanthus di Atlantide aveva iniziato a costruire. Doveva levarsi più in alto di qualsiasi edificio mai sorto su quel pianeta. Il Rhadamanthus aveva radunato tutti i suoi sudditi per la costruzione. Aveva continuato ad aggiungere piano su piano, finché non era parso che volesse raggiungere addirittura il cielo.

Gli uomini si domandavano quando ci sarebbe stato un termine a quel lavoro. Erano tutti schiavi con un solo scopo nella mente: costruire. Eppure non osavano parlare apertamente, perché i soldati del Rhadamanthus uccidevano chiunque si opponesse o non lavorasse. Poi divenne evidente che il Rhadamanthus, nella sua folle mente, aveva concepito qualcosa di ben diverso da un tempio. Il Rhadamanthus intendeva costruire un mezzo per invadere il cielo, il palazzo del Signore.

«Un edificio di diecimila metri?» domandò Wolff.

«Sì. Era impossibile, naturalmente, con la tecnologia di Atlantide. Ma il Rhadamanthus era pazzo; credeva davvero di farcela. Forse era incoraggiato dal fatto che il Signore non appariva da tanti anni, e pensava che forse la diceria sulla scomparsa del Signore era la verità. Naturalmente, i corvi dovevano avergli detto il contrario, ma lui aveva pensato che stessero mentendo per salvarsi.»

Kickaha disse che il fenomeno devastatore che avveniva nell’Atlantide era una prova solare della vendetta del Signore contro il folle piano del Rhadamanthus. Il Signore doveva avere scoperto finalmente i segreti di alcuni apparecchi che si trovavano nel suo palazzo.

«Il Signore che è scomparso doveva avere preso le sue precauzioni, nell’eventualità che un estraneo fosse entrato nel suo palazzo. Ma il nuovo Signore è riuscito finalmente a scoprire il segreto dei comandi degli apparecchi delle tempeste.»

Prova: i giganteschi uragani, tornados, e continue piogge torrenziali che martoriavano il paese. Il Signore doveva essere deciso a eliminare ogni vita da quel piano.

Prima di raggiungere i margini della giungla, incontrarono l’ondata continua dei fuggiaschi. Essi raccontavano storie di tremende catastrofi, di palazzi e colline inghiottiti dalla terra, di uomini spazzati via come fuscelli dai venti, di inondazioni tremende che portavano via ogni traccia di vita e spianavano perfino le alture.

A questo punto, Kickaha e i suoi furono costretti ad affrontare la furia del vento. Le nuvole si chiusero intorno a loro; la pioggia li colpì; i lampi li accecavano, e i fulmini si abbattevano intorno a loro, ovunque.

C’erano anche dei periodi nei quali i fenomeni cessavano. Le energie scatenate da Arwoor dovevano essere compensate, e una tregua era necessaria. In questi periodi relativamente calmi, il gruppo progredì, sia pure a fatica. Incontrarono fiumi tempestosi che trasportavano i resti della civiltà: case, alberi, mobili, carri, cadaveri di uomini, donne, bambini, cani, cavalli, uccelli e animali selvaggi. Le foreste erano sradicate oppure schiacciate dalle scariche dei fulmini. Ogni valle era un ribollire d’acqua; ogni depressione era colma. E un puzzo soffocante riempiva l’aria.

Quando ebbero percorso metà del loro cammino, le nubi cominciarono a diradarsi. Si trovarono di nuovo nel sole, ma in una terra silenziosa nella morte. Solo il ruggito delle acque o il lamento di un uccello che era riuscito a sopravvivere interrompevano l’allucinante silenzio. A volte l’ululato di un essere umano impazzito li faceva rabbrividire: ma questi erano eventi assai rari.

L’ultima nuvola scomparve dal cielo. E il bianco monolito di Idaquizzoorhruz risplendette davanti a loro, a cinquecento chilometri di distanza sulla pianura senza orizzonte. La città di Atlantide… o meglio, quanto restava di essa… era a 150 chilometri di distanza. Ci vollero venti giorni per raggiungerne la periferia, attraverso inondazioni e detriti.

«Il Signore può vederci, adesso?» domandò Wolff.

Kickaha disse:

«Credo di sì, con una specie di telescopio. Sono lieto, comunque, che tu me lo abbia chiesto, perché faremo meglio a cominciare a viaggiare di notte. Anche in questo caso, saremo individuati da loro.»

Indicò un corvo che volava nel cielo.

Attraversando le rovine della capitale, passarono vicino allo zoo imperiale di Rhadamunthus. Alcune gabbie tra le più robuste erano rimaste in piedi, e una di esse conteneva un’aquila. Sul fondo melmoso della gabbia c’era un buon numero di ossa, di piume e di becchi. Le aquile in gabbia avevano superato la fame divorandosi l’un l’altra. La sola sopravvissuta era magra, debole e miserabile, sul trespolo più alto.

Wolff aprì la gabbia, e lui e Kickaha parlarono all’aquila, Armonide. Dapprima, Armonide voleva soltanto attaccarli sebbene fosse indebolita dalle privazioni. Wolff le gettò alcuni pezzi di carne, poi i due nomini continuarono nel loro racconto. Armonide disse che mentivano e che avevano dei progetti umani, e perciò maligni. Quando ebbe però udito per intero il racconto di Wolff, nel quale era doverosamente evidenziato il fatto che l’avevano liberata, mentre avrebbero potuto benissimo passare oltre senza badare a lei, lei cominciò a credere. Quando Wolff le spiegò di avere un piano per vendicarsi del Signore, negli occhi dell’aquila brillò una vivida luce. La idea di attaccare davvero il Signore, forse con successo, era un cibo migliore della stessa carne. L’aquila rimase con loro tre giorni, mangiò, riguadagnò forza, e imparò a memoria, esattamente, quanto avrebbe dovuto riferire a Podarge.

«Vedrai la morte del Signore, e avrai un nuovo corpo di vergine, giovane e bello, come tutte le altre» disse Wolff. «Ma solo se Podarge farà quanto le domando.»

Armonide si lanciò dalla cima di una collina, agitò le potenti ali, e cominciò a salire. Il cielo verde assorbì dopo qualche tempo il verde delle sue piume. L’aquila sparì.

Wolff e i suoi uomini restarono al riparo di un gruppo di alberi caduti fino a notte, prima di andare avanti. Ormai, attraverso un sottile processo, Wolff era diventato il capo della spedizione. Prima, con l’approvazione di tutti, Kickaha aveva tenuto le redini dell’impresa; ora qualcosa era accaduto, e Wolff aveva ottenuto il potere di prendere le decisioni. Non sapeva cosa fosse accaduto, perché Kickaha era vigoroso e deciso come non mai. E il passaggio di comando non era stato causato da uno sforzo cosciente di Wolff. Era come se Kickaha avesse aspettato che Wolff si fosse impadronito di tutte le nozioni che lui poteva fornirgli. Allora Kickaha gli aveva consegnato il bastone del comando.

Viaggiarono esclusivamente nelle ore notturne, durante le quali essi videro pochissimi corvi. A quanto pareva, non c’era bisogno di loro in quella zona, dato che era sotto l’influenza diretta del Signore. Inoltre, nessuno avrebbe osato penetrarvi, dopo che l’ira del Signore si era manifestata in maniera così tremenda.

Arrivando alla grande massa contorta della torre di Rhadamanthus, essi trovarono rifugio tra le rovine. C’era metallo più che sufficiente per il piano di Wolff. Gli unici due problemi erano il cibo e la segretezza del lavoro. Il primo fu risolto dalla scoperta di un magazzino di cereali e di carne essiccata. Quasi tutte le riserve erano state distrutte prima dal fuoco e poi dall’acqua, ma era rimasto quanto bastava a nutrirli per diverse settimane. Il secondo problema fu risolto lavorando nelle profondità delle camere sotterranee. Il periodo di scavo fu di cinque giorni, un periodo che non preoccupò Wolff, perché sapeva che ci sarebbe voluto del tempo prima che Armonide raggiungesse Podarge… se riusciva, ovviamente, ad arrivare a destinazione. Molte cose le potevano accadere lungo la strada, soprattutto un attacco dei corvi.

«E se non ce la fa?» domandava Chryseis.

«Allora dovremo escogitare qualcos’altro» rispondeva Wolff. Carezzò il corno, e schiacciò i sette tasti. «Kickaha conosce la combinazione usata per lasciare il palazzo. Possiamo tornarvi servendoci di essa. Ma sarebbe pura follia. L’attuale Signore non sarà tanto stupido da non lasciare nel punto d’arrivo una guardia munitissima.»

Passarono tre settimane. La riserva di cibo era diminuita, tanto che dovettero essere mandati in giro dei cacciatori. Questo era pericoloso anche di notte, perché non si poteva mai sapere se un corvo fosse in agguato o in perlustrazione. Inoltre, per quanto ne sapeva Wolff, il Signore poteva avere degli strumenti per vedere di notte bene come di giorno.

Al termine della quarta settimana, Wolff fu costretto a rinunciare alle speranze che aveva riposto su Podarge. O Armonide non era riuscita a raggiungerla, o Podarge aveva rifiutato di ascoltare.

Quella stessa notte, mentre sedeva al riparo di una enorme piastra d’acciaio e fissava la luna, si udì il battito di molte ali. Wolff scrutò nelle tenebre. Improvvisamente, la luce della luna risplendette su qualcosa dalle mille sfumature nere e bianche, e Podarge fu davanti a lui. Dietro di lei c’erano molte forme alate, e la luce splendeva sui becchi gialli e sugli occhi rossi.

Wolff le condusse nelle gallerie, e le portò in una grande sala. Alla luce delle torce, guardò nuovamente il volto tragicamente bello dell’arpia. Ma ora che lei pensava di poter veramente colpire il Signore, la sua espressione era lieta. Le sue compagne avevano portato con loro del cibo, e così, mentre tutti mangiavano, Wolff spiegò all’arpia il suo piano. Mentre discutevano i diversi aspetti del piano, una delle scimmie, lasciata di guardia, portò nella sala un uomo che era stato sorpreso a curiosare tra le rovine. Si trattava di Abiru il Khamshem.

«Questo per te è un peccato, e per me un dispiacere» gli disse Wolff. «Non posso legarti e lasciarti qui. Se tu fuggissi e trovassi un corvo, il Signore sarebbe avvertito. Così, devi morire. A meno che tu non sappia convincermi del contrario.»

Abiru si guardò intorno, e vide soltanto morte.

«Molto bene» disse allora. «Non volevo parlare, né parlerò davanti a qualcuno, se potrò evitarlo. Credimi, devo parlarti da solo. È per la tua vita quanto per la mia.»

«Non c’è nulla che tu debba dire che non possa essere udito da tutti» replicò Wolff. «Parla.»

Kickaha avvicinò le labbra all’orecchio di Wolff, e mormorò:

«Fa’ come ti dice. È meglio.»

Wolff rimase sbalordito. I dubbi sulla vera identità di Kickaha ritornarono. Le due richieste erano così strane e inattese che per un istante provò una strana sensazione di dissociazione. Gli parve di galleggiare, isolato da tutti, solo.

«Grande Signora, ora è il tempo della fiducia. Devi credere in noi, avere fiducia. Vuoi perdere la tua sola possibilità di vendetta e di ottenere il tuo corpo umano? Devi fidarti di noi in tutto. Se interferisci, tutto è perduto» disse Kickaha.

Podarge disse:

«Non so cosa significa tutto questo, e sento di essere tradita, in qualche modo oscuro. Ma farò come tu dici, Kickaha, perché ti conosco e so che tu sei un nemico giurato del Signore. Ma non abusare troppo della mia pazienza.»

Allora Kickaha mormorò nell’orecchio di Wolff una cosa ancora più strana:

«Adesso lo riconosco. Quella barba e la tintura del suo corpo mi avevano ingannato, oltre al fatto di non avere udito la sua voce da più di venti anni.»

Il cuore di Wolff batteva tumultuosamente, pieno di un’ignota apprensione. Prese la sua scimitarra e condusse Abiru, le cui mani erano legate strettamente, in una saletta laterale. E là egli ascoltò.

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