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Terminai un altro “faro” di piatti mentre riflettevo sulle parole che Margrethe mi aveva detto nel corso di quel radioso pomeriggio sulla collina, ma non affrontai più l’argomento con lei. E lei non me ne parlò, perché Margrethe non faceva mai discussioni.

Credevo alla sua teoria su Loki e il Ragnarok? No, naturalmente. Oh, niente in contrario a chiamare “Ragnarok” l’Armageddon. Gesù o Joshua; Maria, Miriam o Maryam; Geova, Jehovah o Yahweh: qualsiasi parola va bene, purché si sia d’accordo sul significato. Ma Loki? Il mitico semidio di una lontana razza barbarica aveva cambiato tutto l’universo? Incredibile!

Io ho la mente aperta, ma non vuota. Probabilmente, nella Bibbia c’era la spiegazione di quanto stava accadendo.

Peccato che non avessi una bibbia con me. Senza dubbio, tre isolati più in là, nella basilica, c’erano tutte le bibbie cattoliche che volevo… in latino o in spagnolo. Ma a me occorreva la versione di re Giacomo. Per la prima volta della mia vita, provai invidia per la perfetta memoria di Paul il Predicatore (il rev. Paul Balonius) che verso la metà del secolo scorso aveva percorso in lungo e in largo la parte centrale degli Stati Uniti, predicando la parola del Signore senza portare una bibbia con sé. Si diceva che fratello Paul fosse in grado di citare a memoria ogni versetto della Bibbia quando gli si dava il nome del libro, il capitolo e il numero, o, viceversa, di dire libro, capitolo e versetto se gli si leggeva il brano relativo.

Io ero nato troppo tardi per conoscere Paul il Predicatore, e perciò non avevo mai potuto assistere ai suoi exploit mnemonici, ma quello della memoria perfetta è un dono che il Signore dà con una certa frequenza, e non ho motivo di dubitare che fratello Paul lo possedesse. Paul morì all’improvviso, in un modo non del tutto chiaro, forse addirittura peccaminoso… nelle parole di un mio professore di religione, occorre esercitare la massima prudenza quando si prega soli in casa, in compagnia di una donna sposata.

Io non ho la dote di Paul. Conosco a memoria i primi capitoli della Genesi, alcuni salmi, la storia della nascita di Cristo secondo Luca, vari altri passi. Ma il mio problema avrebbe richiesto di esaminare nei particolari tutti i profeti, e soprattutto l’Apocalisse.

Si avvicinava l’Armageddon? Il secondo avvento di Cristo era alle porte? Avrei sentito mentre ero ancora in vita la tromba del giudizio universale?

Un pensiero sconvolgente, ma degno di riflessione. Era previsto che il giorno del giudizio fossero in vita milioni di persone; una così grande massa poteva benissimo includere Alexander Hergensheimer. Avrei sentito la Tromba e avrei visto risorgere i morti e anch’io sarei stato “portato con loro nelle nuvole per incontrare il Signore nell’aria” e per poi rimanere sempre con Lui, come promesso? Questi erano davvero alcuni dei passi più esaltanti delle sacre scritture.

Con ciò, non che avessi la certezza di trovarmi fra i salvati, quel grande giorno. Il fatto di essere un ministro della chiesa non aumenta necessariamente le nostre probabilità di salvezza. I religiosi lo sanno, ma a volte i laici pensano che gli uomini di chiesa godano di particolari agevolazioni per l’aldilà.

Tutt’altro! Un religioso non può dire “non lo sapevo” o aspettarsi clemenza perché è inesperto, o giustificare le proprie manchevolezze con una delle mille scuse trovate dai laici, e ottenere la salvezza lo stesso!

Premesso questo, ero costretto ad ammettere che il mio curriculum, negli ultimi tempi, mi portava a dubitare di essere tra i salvi. Certo, ero rinato con il battesimo, ma questa non è una condizione permanente, non è una sorta di laurea. E ultimamente avevo collezionato una vasta serie di peccati: orgoglio, intemperanza, avidità, lussuria, adulterio, dubbio e così via.

Inoltre, e soprattutto per i peccati più gravi, non provavo la minima contrizione.

Finché Margrethe non fosse stata salva e in lista di attesa per il cielo, non avevo alcun interesse ad andarci io. Dio mi protegga, ma quella era la verità.


Ero preoccupato per l’anima di Margrethe.

Il giorno del giudizio non poteva salire al cielo come i giusti delle altre religioni, morti prima del cristianesimo. Era nata nella chiesa luterana, che, pur non essendo la mia, era l’antenata della mia e di tutte le altre chiese protestanti.

L’unica cosa che poteva assicurare a Margrethe la salvezza era la rinuncia alla sua apostasia e il ritorno alla grazia divina. Ma doveva essere lei stessa a compiere il passo; non potevo farlo io per lei.

Potevo soltanto cercare di convincerla. E dovevo procedere con grande cautela. Per indurre una farfalla a posarsi sulla vostra mano, non potete minacciarla con la spada. Margrethe non era un pagano che ignorava il Vangelo e che chiedeva solo di essere istruito. No, era nata cristiana e aveva rifiutato il cristianesimo, in piena consapevolezza. Era in grado di citare la Bibbia meglio di me: evidentemente, in passato doveva averla studiata con grande diligenza. Probabilmente, ciò era successo quando aveva pensato di lasciare il cristianesimo. Margrethe era così seria e buona da non fare un passo così drastico senza uno studio lungo e severo.

E quanto tempo mi rimaneva per risolvere il problema di Margrethe? Avevo a disposizione trent’anni per conoscere bene le sue idee e per trovare il modo di fare breccia? O l’Armageddon era talmente vicino che un solo giorno di ritardo poteva condannarla per l’eternità?

Il Ragnarok pagano e l’Armageddon cristiano hanno un aspetto in comune: la battaglia finale deve essere preceduta da grandi segni e portenti. E quanto ci era successo era uno di questi segni? Margrethe ne era convinta, e anche per me l’ipotesi che il cambiamento del mondo fosse il presagio dell’Armageddon era preferibile alla sua alternativa, ossia la paranoia. Si poteva affondare una nave e cambiare il mondo per impedirmi di controllare un’impronta digitale? All’inizio l’avevo pensato, ma ora… via, Alex, non sei così importante!

(O lo sei?)

Non sono mai stato un millenarista. So che il numero “mille” compare molte volte nella Bibbia, soprattutto nelle profezie, ma non ho mai pensato che l’Onnipotente fosse costretto a lavorare in termini di migliaia e di multipli di migliaia per far piacere ai numerologi.

D’altra parte sapevo che molte persone devote e intelligenti davano molta importanza alla prossima venuta del secondo millennio, e che per quell’anno si aspettavano il giorno del giudizio, l’Armageddon e tutto quel che segue. Ne trovavano nella Bibbia la prova e ne cercavano la conferma nei numeri della Grande Piramide e nei vari Vangeli apocrifi.

Ma non tutti sono d’accordo sulla data esatta della fine del millennio: il 2000 d.C. o il 2001 d.C? Oppure la data giusta sono le 15, ora di Gerusalemme, del 7 aprile 2030 d.C? (Ammesso che la data della crocefissione — e del terremoto al momento della morte di Cristo — sia stata calcolata con esattezza rispetto alle date del calendario profano.) O dovrà essere il Venerdì Santo del 2030 d.C, calcolato secondo il calendario lunare? La scelta è importante, se si considera la data che vogliamo scoprire, ossia quella della fine del mondo.

Se però, come momento iniziale da cui contare i millenni, prendiamo la nascita di Cristo invece della sua morte, è subito chiaro che né l’anno 2000 caro agli ingenui, né il 2001, caro ai più smaliziati, possono corrispondere alla data del secondo millennio, perché Gesù è nato a Betlemme il giorno di Natale dell’anno 5 avanti Cristo.

Tutte le persone istruite lo sanno, ma nessuno ci pensa.

La data del più grande evento dell’intera storia, la nascita di Dio fatto uomo, sbagliata di cinque anni? Incredibile!

No, semplice. Tutto per colpa di un monaco del sesto secolo che ha fatto un errore di aritmetica. Il nostro sistema di datazione (“dopo Cristo”) cominciò a essere usato solo a qualche secolo di distanza dalla nascita di Cristo. Chiunque abbia cercato di decifrare su un’iscrizione una scritta in numerali romani sarà disposto a perdonare l’errore di monaco Dionysius Exiguus. Nel sesto secolo, coloro che sapevano leggere erano così pochi che l’errore venne scoperto solo dopo vari anni, e ormai era troppo tardi per correggere tutti i documenti. Ecco da dove sorge la ridicola situazione in base alla quale Cristo è nato cinque anni prima della nascita di Cristo: il bisticcio nasce dal fatto che la prima frase riguarda il fatto in sé, la seconda riguarda un calendario sbagliato.

Per più di mille anni l’errore del buon monaco non aveva avuto importanza. Ma ora veniva bruscamente ad assumere un’importanza notevolissima. Perché, se i millenaristi avevano ragione, la fine del mondo sarebbe sopraggiunta il giorno di Natale del corrente anno.

Si noti che non dico “25 dicembre”. Il giorno e il mese della nascita di Cristo sono sconosciuti. Matteo scrive che avvenne sotto il regno di Erode; Luca aggiunge che Augusto era il Cesare e che Cirenio era governatore della Siria, e tutti sappiamo che Giuseppe e Maria si erano recati da Nazaret a Betlemme per essere censiti.

Non ci sono altri dati, né nelle sacre scritture, né nei registri civili dei romani.

Ecco dunque come stavano le cose. In base alle teorie dei millenaristi, il giudizio universale poteva sopraggiungere circa 35 anni più tardi… o quello stesso pomeriggio!

Se non ci fosse stata Margrethe, questa incertezza non mi avrebbe certamente fatto perdere i sonni. Ma come potevo dormire, se la mia amata correva il rischio immediato di venire precipitata nel Pozzo Senza Fondo, e di rimanervi nei tormenti per tutta l’eternità?

Voi, come avreste fatto?


Provate a immaginarvi la scena: io, a piedi nudi su un pavimento unto, che lavo piatti per pagare i miei debiti, e che intanto rifletto sulla fine del mondo e sul giorno del giudizio. Ridicolo! Ma lavare i piatti non occupa la mente: tutt’al più la annoia. Era un sollievo, dover addentare quel duro pane dell’intelletto.

A volte mettevo a confronto il mio triste stato con quello che avevo in precedenza, e mi chiedevo se ero mai destinato a ritornare nella mia vecchia casa.

Ma volevo davvero ritornare laggiù? Laggiù c’era Abigail… e benché la poligamia fosse accettabile per l’Antico Testamento, non era accettata nei 46 stati del Nordamerica. Il concetto era stato chiarito una volta per tutte quando l’Esercito dell’Unione aveva distrutto il tempio dell’Anticristo a Salt Lake City e si era preso cura dello smembramento e della diaspora di quelle immorali “famiglie”.

Rinunciare a Margrethe per riavere Abigail era un prezzo troppo alto per tornare a occupare la posizione di prestigio che era stata mia fino a poco tempo prima. Eppure, il mio lavoro mi era sempre piaciuto e ne avevo tratto grandi soddisfazioni, perché continuava a ottenere buoni risultati. L’annata testé conclusa, anzi, era stata la migliore da quando era stata istituita la fondazione: mi riferisco all’organizzazione senza fini di lucro Chiese Unite per la Decenza. “Senza fini di lucro” non significa che non potesse pagare giusti stipendi e dare anche dei premi, e io mi godevo una meritata vacanza dopo l’anno più favorevole per la nostra raccolta di fondi: risultato soprattutto mio, perché, come segretario esecutivo, il mio primo dovere era quello di assicurarmi che le casse fossero piene.

Ma mi dava altrettanta soddisfazione la riuscita dei nostri programmi, perché non basta raccogliere fondi, ma occorre anche mantenere le promesse, e l’anno precedente avevamo ottenuto questi risultati:

a) Una legge federale contro l’aborto.

b) Una legge federale in base alla quale produzione, vendita, possesso, importazione, trasporto e uso di sostanze o strumenti anticoncezionali divenivano un reato punibile con detenzione da uno a venti anni. Con questa legge scompariva anche il sotterfugio della dicitura “solo per la prevenzione delle malattie”.

c) Una legge federale che, anche se non proibiva il gioco d’azzardo, lo poneva sotto la giurisdizione federale. Un passo alla volta; con queste fondamenta avremmo potuto affrontare singolarmente i due pozzi di nequizia gemelli, Nevada e New Jersey. Divide et impera!

d) Una sentenza della Corte Suprema — in cui noi comparivamo come consulenti — che stabiliva che a tutto lo stato si dovevano applicare i criteri di moralità delle città di media dimensione più significative (Tomkins contro Allied News Distributors).

e) Sostanziali progressi nel nostro tentativo di far riconoscere il tabacco come un farmaco vendibile solo dietro presentazione di prescrizione medica. A questo scopo avevamo staccato dal campo il tabacco da fiuto e da masticare, introducendo la definizione di “sostanze destinate alla combustione e all’inalazione”.

f) Altri progressi in occasione del nostro annuale raduno di preghiera. Uno degli argomenti di cui mi occupavo era il programma per togliere le agevolazioni fiscali alle scuole private non collegate a una delle chiese cristiane. Non avevamo ancora stabilito con precisione la nostra politica al riguardo, a causa dello spinoso problema delle scuole cattoliche romane. Dovevamo proteggere anche loro, o era giunto il momento di colpire? Per noi della prima linea, era sempre difficile decidere se i cattolici fossero da considerare amici o nemici.

Altrettanto complesso era il problema degli ebrei. Era possibile risolverlo umanamente? E se non lo era, come fare? Dovevamo allontanare da noi quella fonte di irritazione? Di questo, comunque, si parlava solo in privato.

Un ulteriore argomento era stato suggerito da me stesso: le restrizioni sugli studi astronomici. Pochi laici si rendono conto dei guai che possono combinare gli astronomi. Io me ne ero accorto quando studiavo ancora ingegneria e frequentavo un corso di astronomia descrittiva che era tra le materie complementari. Date a un astronomo un telescopio più grosso, e lasciatelo fare a ruota libera, senza controllarlo, e la prima cosa che vi tirerà fuori sarà qualche pestilenziale teoria sull’origine del mondo. E, per quanto approssimativa e campata in aria possa essere la teoria, di una cosa potete essere certi: che sarà in diretta contraddizione con la Genesi.

Questo genere di assurdità si può combattere in un solo modo: colpirle nel portafogli. Ridefinire la “pubblica istruzione” in modo da escludere quei colossali elefanti bianchi che sono gli osservatori astronomici. Mantenere in regime di esenzione fiscale soltanto l’osservatorio della Marina, ridurne il numero dei dipendenti e limitarne l’attività agli argomenti relativi alla navigazione. (Molte teorie sovversive sono nate da professori che, una volta ottenuta la cattedra, non avevano abbastanza lavoro da tenerli occupati.)

Gran parte di coloro che si autodefiniscono “scienziati” sono in genere dei perditempo, ma gli astronomi sono i peggiori di tutti.

Un altro problema che si riaffaccia regolarmente all’annuale incontro di preghiera è quello del voto alle donne, ma io cerco sempre di metterlo in fondo all’ordine del giorno, perché non vale la pena di perderci tempo e attenzione. Le femmine isteriche che si danno il nome di “suffragiste” o “suffragette” non sono una minaccia e non fanno seriamente: vogliono solo essere al centro dell’attenzione. Ad arrestarle e a metterle alla berlina si fa soltanto il loro gioco… non bisogna trasformarle in martiri! È preferibile ignorarle.

Ci sono altre campagne interessanti da condurre, ma da quando ho la presidenza dell’incontro le lascio maturare, senza inserirle nei dibattiti. Sono scritte, per così dire, nella mia agenda dei prossimi anni:

Scuole separate per maschi e femmine.

Pena di morte per stregoneria e satanismo.

L’Alaska come soluzione del problema negro.

Controllo federale sulla prostituzione.

Problema dell’omosessualità… ma quale può essere la risposta? Pene detentive? Intervento chirurgico? O che altro?

Ci sono infinite campagne che si possono condurre in difesa della morale; il problema, naturalmente, sta ogni volta nel scegliere quelle già mature per la vittoria, a maggior gloria di Dio.

Ma forse non sarei più riuscito a occuparmi di quel genere di problemi, per quanto fossero affascinanti. Un lavapiatti che imparava appena allora a esprimersi nella lingua locale (e in modo sgrammaticato, suppongo!) non aveva certo una grande forza politica. Perciò li lasciai perdere e mi concentrai sui problemi immediati: le eresie di Margrethe e la fine del nostro periodo di servizio.

Lavoravamo ormai da più di cento giorni quando chiesi a don Jaime di aiutarmi a calcolare la data esatta in cui doveva finire il nostro contratto; un modo educato per dire: “Caro padrone, alla fine del nostro periodo contiamo di correre via come lepri. Non farti illusioni”.

Io mi ero basato su una durata complessiva di 121 giorni, e don Jaime mi fece rimanere di stucco con un conteggio di 158.

Ancora sei settimane, mentre io pensavo già di essere libero la settimana seguente!

Protestai e feci notare che il nostro debito complessivo, diviso per il prezzo d’asta (sessanta pesos al giorno per Margrethe, trenta per me), dava 121 giorni, di cui ne erano già trascorsi 115.

No, solo 99: mi mostrò un calendario e mi invitò a contare. Solo allora vidi che i nostri simpatici martedì non rientravano nel contratto. O, almeno, così disse il nostro patrón.

«Inoltre, Alexandro» continuò «non hai calcolato gli interessi sul capitale residuo; non l’hai moltiplicato per il fattore inflativo; non hai considerato le tasse e neppure il contributo all’ospedale. Se ti dovessi ammalare, saresti a mio carico, no?»

(Be’, sì. Anche se non ci avevo pensato, mi pareva che un patrón avesse quel dovere verso i suoi peones.) «Don Jaime» dissi «il giorno che vi siete assunto i nostri debiti, il cancelliere del tribunale ha fatto il conto per noi. Mi ha detto che la durata del nostro obbligo era di 121 giorni. Me l’ha detto lui!»

«Allora, va’ a chiedere al cancelliere del tribunale» mi disse don Jaime, voltandomi la schiena.

Questo mi bloccò. Don Jaime mi sembrava perfettamente disposto a portare la cosa davanti al giudice, mentre non aveva avuto alcuna intenzione di farlo per le mance di Margrethe. Questo significava che aveva esperienza di contratti per debiti, e che era certo che il giudice o il cancelliere gli avrebbero dato ragione.

Dovetti aspettare fino a quella notte per parlarne con Margrethe. «Marga, ti pare possibile che mi sia sbagliato? Mi pareva che il cancelliere avesse fatto il calcolo per noi, prima che firmassimo il contratto. Erano 121 giorni, no?»

Lei non rispose subito, e io ripetei: «Non è quel che mi avevi detto?»

«Alec, anche se adesso penso sempre in inglese… o in spagnolo, negli ultimi tempi… quando faccio dei conti li faccio sempre in danese. La parola danese per dire “sessanta” è tres… che è anche la parola spagnola che significa “tre”. Capisci che potrei essermi confusa. Non ricordo se mi hanno detto ciento y veintiuno o ciento y sesentiuno… perché ricordo i numeri in danese. Ma non avevi controllato tu stesso la divisione?»

«Sì. Ma a quell’epoca non conoscevo nemmeno una parola di spagnolo. Il señor Munoz l’ha detto a te, e tu l’hai tradotto, e quando ho fatto il conto mi pareva che fosse giusto. Oh, maledizione, non so più!»

«Allora, perché non lasciamo perdere, finché non avremo l’occasione di chiederlo al señor Munoz?»

«Marga, non ti dà fastidio l’idea di dover lavorare in questo buco ancora per sei settimane?»

«Sì, ma neanche troppo, Alec. Io ho sempre lavorato. Il lavoro sulla nave era più duro di quello che facevo a scuola, ma mi permetteva di viaggiare e di conoscere strani paesi. Servire qui ai tavoli è un po’ peggio che rifare le cabine della Konge Knut… ma siamo insieme e questo è più che sufficiente a pareggiare il conto. Io intendo venire con te nel tuo paese, certo… ma non è il mio paese, e perciò, diversamente da te, non sono estremamente ansiosa di partire. Perciò, lasciamo in sospeso la cosa finché non ne avremo parlato con il señor Munoz.»

L’indomani mattina, di buon’ora, mi recai in tribunale e controllai gli orari del cancelliere; mi fu detto che non potevo vederlo finché non fossero finite le udienze del giorno, e di conseguenza presi un semi-appuntamento con lui per il martedì, alla fine delle sessioni. Il “semi” significava che noi ci saremmo presentati in qualsiasi caso, mentre il señor Munoz non garantiva la sua presenza (ma sarebbe stato in tribunale, deus volens).

Di conseguenza, quel martedì uscimmo come sempre per recarci al nostro picnic, dato che non avremmo potuto vedere il señor Munoz prima delle quattro del pomeriggio. Ma indossavamo il vestito della domenica, anziché quello da picnic: ossia avevamo tutt’e due le scarpe, ci eravamo fatti un lungo bagno, io mi ero fatto la barba e portavo il vestito migliore — un abito smesse di don Jaime, ma pulito e stirato — invece dei calzoni da lavoro che tenevo in cucina. Margrethe indossava gli abiti a tinte vivaci che le erano stati dati al nostro arrivo a Mazatlán.

Poi cercammo tutt’e due di non sudare e di non impolverarci. Perché dessimo importanza alla cosa, non saprei dirlo neppure io, ma avevamo l’impressione che in tribunale ci si dovesse presentare in ordine.

Come sempre, prima di salire sulla collina passammo alla fontana per salutare Pepe. Lui ci diede del “tu” come si fa con gli amici e scambiò con noi quel genere di complimenti che suonano così bene in spagnolo e che in inglese non si sentono mai. L’incontro settimanale con Pepe era divenuto un aspetto importante della nostra vita sociale. Adesso che conoscevamo meglio Pepe — la sua storia ci era stata raccontata da Amanda, non da lui — lo rispettavamo ancor di più.

Pepe non era nato senza gambe (come avevo pensato all’inizio); un tempo faceva il conducente e portava gli autocarri sulle montagne, fino a Durango e oltre. Poi c’era stato un incidente e Pepe era rimasto inchiodato sotto il carro per due giorni prima che lo salvassero. Quando era giunto all’ospedale, l’avevano dato per morto.

Ma Pepe era più robusto del previsto. Quattro mesi più tardi, uscì dall’ospedale; qualcuno fece una colletta per regalargli il carrettino; gli venne data la licenza di mendicante, e lui prese posto accanto alla fontana… amico del passanti, amico dei don, a sfidare il destino con un sorriso sulle labbra.

Quando, dopo un giusto intervallo di conversazione e di domande sulla nostra salute e su quella dei conoscenti, ci voltammo per andarcene, passai al nostro amico una banconota da un peso.

Lui me la riconsegnò. «Venticinque centavos, amico mio. Non hai spiccioli? O vuoi che te lo cambi io?»

«Pepe, amico mio, volevamo che tu tenessi questo piccolo dono.»

«No, no. Dai turisti prendo tutto quello che mi danno, ma agli amici chiedo solo venticinque centesimi.»

Non dissi più niente. In Messico un uomo che non ha una propria dignità è peggio che morto.


El Cerro de la Nevería è alto cento metri; salimmo molto lentamente, perché non volevo affaticare Margrethe, dato che avevo l’impressione che la famiglia stesse per aumentare. Ma lei non me ne aveva ancora parlato, e naturalmente io non potevo affrontare l’argomento prima che lei stessa me ne parlasse.

Trovammo il nostro posto favorito, un punto situato all’ombra di un piccolo albero, ma da cui si godeva una visuale di 360 gradi: a nordovest il Golfo di California; a ovest il Pacifico e quelle che potevano essere nubi su un’altura in punta alla Bassa California, a trecento chilometri di distanza; a sudovest la nostra penisola fino al Cerro Vigía, con la bellissima Playa de las Olas Altas e il Cerro Creston su cui sorgeva il grande faro; a sud fino ai moli della Guardia Costiera. A est e a nordest sorgevano le montagne che nascondevano alla nostra vista Durango, a duecento chilometri da noi… ma oggi l’aria era talmente chiara che ci pareva di riuscire a toccarle allungando il braccio.

Mazatlán si stendeva sotto di noi come una città giocattolo. Perfino la basilica sembrava un modellino costruito da un architetto, anziché una chiesa imponente… e per l’ennesima volta mi chiesi come facessero i cattolici, i cui proseliti (di solito) erano poverissimi, a costruire chiese così belle, mentre noi protestanti faticavamo a pagare la rata dei mutui delle nostre chiese, assai più modeste.

«Guarda, Alec!» disse Margrethe. «Anibal e Roberto hanno il nuovo aeroplano!» Me lo indicò.

Certo: adesso c’erano due aeroplanos accanto al molo della Guardia Costiera. Uno era la grottesca libellula che ci aveva salvati; l’altro era assai diverso. Dapprima pensai che fosse affondato: sul pelo dell’acqua, non scorgevo i galleggianti che dovevano tenerlo sollevato.

Poi compresi che il nuovo apparecchio era letteralmente una barca volante. Il galleggiante era il corpo stesso dell’aeroplano: una struttura a tenuta d’acqua. I motori erano installati sulle ali.

Fin dal primo sguardo diffidai delle innovazioni. L’apparecchio che ci aveva salvati, e a cui avevamo ormai fatto l’abitudine, mi pareva assai più sicuro.

«Alec, martedì prossimo potremmo andare a trovarli.»

«D’accordo.»

«Pensi che Anibal ci farà fare un giro sul nuovo aeroplano

«Certo, se riuscirà a tenere nascosta la cosa al comandante del porto.» Non le dissi che il nuovo apparecchio mi sembrava poco sicuro. Quando ha preso dimestichezza con una cosa, Margrethe non ha più paura di niente. «Ma possiamo passare da loro, e chiedere di vederlo. Il tenente sarà felice di mostrarcelo, e così pure Roberto. E adesso, che ne diresti di mangiare?»

Margrethe stese una servilleta e cominciò a coprirla di cibo, prelevandolo dal cestino che avevo portato. Per tutta la settimana mangiavamo gli ottimi cibi messicani di Amanda, ma il martedì Margrethe preparava piatti del suo paese: per esempio, quel giorno avevamo portato con noi i sandwich in bella vista apprezzati da tutti i danesi (oltre che, in generale, da quanti hanno avuto occasione di assaggiarli). Amanda lasciava la cucina a completa disposizione di Margrethe, e la señora Valera non entrava mai in cucina: una sorta di tregua a cui si era arrivati prima della nostra comparsa. Amanda era una donna di carattere.

Quel giorno, uno dei principali ingredienti dei sandwich erano i gamberetti, teneri e saporiti, che sono la specialità di Mazatlán, ma c’erano anche prosciutto, tacchino, pancetta affumicata, maionese, formaggi, sottaceti, peperoni, pomodori, lattuga e, almeno mi parve, melanzana fritta. Per fortuna, si può apprezzare il cibo anche senza conoscerne la composizione: Margrethe mi passava i panini e io li mangiavo senza fare domande.

Un’ora più tardi, ero giunto al limite di capienza del mio stomaco. «Margrethe, oggi ti ho già detto che ti voglio bene?»

«Sì, ma era ancora mattino.»

«Allora, te lo dico adesso. Non solo sei affascinante, uno spettacolo per la vista e di proporzioni ideali, ma sei anche un’ottima cuoca.»

«La ringrazio, signore.»

«Inoltre, rimango sempre in ammirazione davanti alla tua intelligenza. Lascia stare gli avanzi, li metto a posto io. Siediti qui vicino, e spiegami perché continui a stare con me, anche se credo già di saperlo. È perché sono il miglior lavapiatti della costa occidentale del Messico, vero?»

«Esattamente.» Cominciò a ritirare gli avanzi, e non si fermò finché l’intera zona non fu ritornata com’era prima del nostro arrivo, e il resto del cibo non fu nel cestino.

Poi si sdraiò accanto a me… e all’improvviso sollevò la testa. «Che cos’era?»

«Come?…» All’improvviso lo sentii anch’io. Un rimbombo lontano, che aumentava di volume, come un treno merci che si avvicina da dietro una curva. Ma la ferrovia più vicina, la linea che andava a nord fino a Chihuahua e a sud fino a Guadalajara, era lontana, oltre la penisola di Mazatlán.

Il rimbombo divenne più forte; il terreno cominciò a tremare. Margrethe si rizzò a sedere. «Alec, ho paura.»

«Non avere paura, cara. Ci sono qui io.» La abbracciai e la tenni stretta, mentre il terreno prendeva a sgroppare sotto di noi e il ruggito aumentava fino a raggiungere un’intensità inconcepibile.


Se vi è capitato di trovarvi in mezzo a un terremoto, anche se piccolo, capirete cosa provassimo noi in quel momento, meglio di quanto non possa spiegare io. E se non vi è mai capitato, non mi crederete: e più cercassi di descriverlo con precisione, meno mi credereste.

La cosa peggiore, in un terremoto, è che non c’è niente di fermo a cui ci si possa afferrare… ma la cosa più stupefacente è il rumore, il chiasso infernale di tutti i generi: le pietre che si spezzano con un rumore di macina, sotto di voi, gli strappi degli edifici che vanno in frantumi, le urla delle persone atterrite, i gemiti dei feriti e dei perduti, i guaiti e gli ululati degli animali colti in un disastro che non sono in grado di comprendere.

E i rumori e i gridi continuano senza interruzione.

Il frastuono proseguì per un tempo infinito… poi la massima intensità del terremoto ci colpì, e la città fu distrutta.

Io fui perfettamente in grado di sentirlo. Il rumore, che pareva non poter salire di più, all’improvviso si raddoppiò. Io riuscii a sollevarmi su un gomito e a guardare. La cupola della basilica scoppiò come una bolla di sapone. «Oh, Marga, guarda! No, non guardare… è terribile.»

Sollevò la testa, senza riuscire a parlare; era pallida. Io continuai a stringerla a me, e guardai in direzione della penisola, verso il Cerro Vigía e il faro.

Era inclinato.

Mentre lo osservavo, si spezzò a circa metà della sua altezza, e con grande dignità crollò al suolo.

Oltre la città, vidi gli aeroplanos della Guardia Costiera, ai loro moli d’attracco. Ballavano freneticamente sulle onde; un’ala del nuovo apparecchio s’inclinò sull’acqua, e le onde la coprirono… poi lo persi di vista, perché la città venne oscurata da una nube: la polvere di migliaia di tonnellate di calce e mattoni che andavano in briciole.

Cercai il ristorante, e lo trovai subito: EL RESTAURANTE PANCHO VILLA. Poi, sotto i miei occhi, la parete su cui era dipinta l’insegna ruotò su se stessa e crollò a terra. Si sollevò una nuvola di polvere che coprì ogni cosa.

«Margrethe! Non c’è più. Il ristorante. Il Pancho Villa.» Le indicai il punto.

«Non vedo niente.»

«È scomparso, ti dico. Distrutto. Grazie a Dio, Amanda e le ragazze non c’erano, oggi!»

«Sì. Alec, non finirà mai?»

All’improvviso, tutto si fermò… molto più rapidamente di quanto non fosse iniziato. Come per miracolo, la polvere era scomparsa; non si udivano più scricchiolii, non si udivano i gemiti dei feriti e dei morenti, le grida degli animali.

Il faro era di nuovo al suo posto.

Guardai a sinistra del faro, per controllare gli aeroplanos ormeggiati: non ne vidi neppure uno. Non scorsi nemmeno i pali a cui venivano assicurati. Tornai a guardare la città… era tranquilla e serena. La basilica era bellissima, non aveva subito danni. Cercai l’insegna del Pancho Villa.

E non riuscii a trovarla. Al posto del ristorante c’era un altro edificio, diverso e con un altro genere di vetrine. «Marga… dov’è il ristorante?»

«Non so. Alec, cos’è successo?»

«L’hanno fatto un’altra volta» dissi con amarezza. «Il mondo è cambiato. Il terremoto è finito, ma questa non è la città che abbiamo conosciuto. Le assomiglia molto, ma non è identica.»

Avevo ragione solo in parte. Prima che ci decidessimo ad alzarci per scendere dalla collina, si levò un lontano brontolio di tuono. Poi la terra prese a tremare… il rumore aumentò a dismisura, gli scrolloni divennero sempre più violenti, e anche quella città fu distrutta. Di nuovo vidi l’alta torre del faro spezzarsi e crollare. Di nuovo la cupola si frantumò. Di nuovo s’innalzarono le nuvole di polvere, e con esse le grida e le urla.

Serrai il pugno e lo alzai contro il cielo. «Basta, maledizione!» gridai. «Due volte è troppo.»

Ma non venni colpito dal fulmine.

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