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Non mi dilungherò sui successivi tre giorni, perché non c’è molto da dire. “Le strade erano sporche di polvere e di sangue.” Noi superstiti, o almeno quanti non erano feriti, non erano prostrati dal dolore, né stupefatti o isterici — ossia una minima parte di noi — lavoravano fra le macerie, qua e là, per trovare qualche creatura viva sotto i mattoni, le pietre e i calcinacci. Ma cosa potete fare senza attrezzi, contro infinite tonnellate di macerie?

E cosa potete fare, quando scoprite, dopo avere scavato, di essere arrivati troppo tardi, e che, anzi, era già troppo tardi prima che cominciaste? Sentimmo gemere, come se ci fosse un gattino, e scavammo con grande attenzione, cercando di non schiacciare chi c’era sotto e di non far cadere le pietre da noi spostate… e scoprimmo l’origine dei gemiti. Un bimbo di pochi anni, morto da poco. Frattura del bacino, un intero lato della testa sfondato. “Beato chi schiaccerà la testa dei tuoi figli contro le pietre.” Distolsi lo sguardo e mi sentii male. Non avrò mai più il coraggio di leggere il Salmo 137.

Passammo la notte ai piedi del colle della Nevería. Quando il sole tramontò, dovemmo sospendere i soccorsi. Oltre al fatto che il buio non ci permetteva di lavorare, in città c’erano molti sciacalli. Io ero convinto che ogni saccheggiatore fosse potenzialmente uno stupratore e un assassino. Ero pronto a difendere Margrethe fino alla morte se necessario… ma non volevo morire in modo cavalieresco, sì, ma sostanzialmente inutile, in uno scontro che si poteva benissimo evitare.


All’inizio del pomeriggio arrivò l’Esercito messicano. Noi, nel frattempo, non eravamo riusciti a fare niente di utile: avevamo continuato a scavare come avevamo potuto. Quanto a ciò che riuscimmo a trovare, sorvoliamo. I soldati misero la parola fine anche a questo; tutti i civili vennero allontanati dalla città distrutta e risalirono la penisola fino alla stazione ferroviaria, dall’altra parte del fiume. Laggiù rimanemmo ad aspettare… recenti vedove, mariti che avevano appena persa la moglie, bambini perduti, feriti su barelle di fortuna, feriti in grado di camminare, persone senza ferite ma con gli occhi sbarrati e incapaci di parlare. Io e Margrethe facevamo parte dei più fortunati: eravamo semplicemente affamati, assetati, sporchi e coperti da capo a piedi di ammaccature perché eravamo rimasti in terra durante il terremoto. Mi correggo: durante due terremoti.

C’è qualcun altro che si è trovato in mezzo a due terremoti?

Ma esitavo a chiederlo. A quanto pareva, io ero il solo testimone del cambiamento di mondo, a parte il fatto che, già per due volte, Margrethe era venuta con me perché in quell’istante mi tenevo a lei. C’erano altre vittime? Altri del Konge Knut che avevano tenuto la bocca chiusa? E, poi, come chiederlo? Scusa, amigo, ma è la stessa città che ho visto ieri?

Dopo avere atteso per due ore in stazione, arrivò un carretto dell’esercito con l’acqua: una tazza d’acqua a ciascun rifugiato, e un soldato con la baionetta a controllare che nessuno facesse due volte la coda.

Poco prima del tramonto, il carretto fece ritorno con altra acqua e con una certa quantità di pagnotte; io e Margrethe ricevemmo un quarto di pagnotta da dividere tra noi due. Poco più tardi, arrivò un treno, e i soldati ci fecero salire da una parte mentre i rifornimenti venivano scaricati dall’altra. Io e Marga fummo fortunati: fummo spinti dentro una carrozza passeggeri; molti altri viaggiarono sui carri merci.

Il treno partì per il nord. Non ci venne chiesto se eravamo d’accordo nel scegliere quella destinazione; non ci venne chiesto di pagare il biglietto; tutta Mazatlán veniva evacuata. Finché non avessero riparato l’acquedotto, a occupare la città sarebbero rimasti solo i topi e i morti.

Inutile descrivere il viaggio. Il treno andava avanti; noi ci stavamo sopra. La ferrovia lascia la costa a Guaymas e si dirige a nord, oltre Sonora, fino all’Arizona: zone bellissime, ma noi non eravamo nella giusta disposizione di spirito per apprezzarle. Dormivamo quanto più ci era possibile, e per tutto il resto del tempo facevamo finta di dormire. Ogni volta che il treno si fermava, qualcuno dei viaggiatori scompariva… a meno che la polizia non riuscisse a farlo risalire. Quando raggiungemmo Nogales di Sonora, il treno era per metà vuoto; gli altri parevano diretti a Nogales, Arizona, e anche noi, naturalmente, eravamo diretti laggiù.

Raggiungemmo il marciapiedi internazionale nelle prime ore del pomeriggio, il terzo giorno dopo il terremoto.

Fummo portati in branco in un edificio chiuso, dietro la ferrovia, e un uomo in uniforme ci parlò in spagnolo: «Benvenuti, amigos! Gli Stati Uniti sono lieti di aiutare i loro vicini nel momento del bisogno e il servizio Immigrazione degli U.S. ha deciso di accelerare le procedure per fornirvi in fretta i documenti. Per prima cosa dobbiamo chiedervi di sottoporvi alla disinfestazione. Poi vi saranno date carte verdi fuori quota d’immigrazione e potrete lavorare dove volete in qualsiasi parte degli Stati Uniti. Ma quando lascerete questo stabilimento troverete alcuni rappresentanti del sindacato che vi aiuteranno nella ricerca di un’occupazione. E troverete anche una mensa. Se avete fame, fermatevi e fate il vostro primo pasto fra noi come ospiti dello Zio Sam. Benvenuti ne los Estados Unidos

Molte persone avevano da rivolgergli alcune domande, ma io e Margrethe ci dirigemmo alla porta che conduceva alla disinfestazione. L’idea di sottopormi a quella pratica sanitaria non mi piaceva molto: la richiesta di passare alla disinfestazione equivaleva ad affermare che avevamo i pidocchi. Eravamo certamente sporchi e stanchi, e io avevo la barba lunga, ma che fossi pidocchioso?

Be’, forse lo eravamo davvero. Dopo avere passato un giorno a scavare tra le rovine, e averne passati altri due, insieme ad altra gente sporca, in un compartimento ferroviario affollato che già in partenza non era molto pulito, potevo onestamente affermare di essere completamente privo di parassiti?

Ma la disinfestazione non fu niente di drammatico. Fu poco più di una doccia, con un infermiere che controllava e che esortava in spagnolo a lavarsi con un sapone medicato le parti del corpo coperte di peli. Intanto, anche i miei vestiti venivano sottoposti a qualche genere di sterilizzazione in autoclave; poi, nudo come un verme e sempre più irritato, dovetti aspettare venti minuti per riaverli.

Ma, dopo che mi fui rivestito, l’ira mi passò: nessuno aveva intenzione di trattarmi male; semplicemente, quando ci si deve occupare di numerose persone, in un’emergenza, è inevitabile che la dignità umana abbia a soffrirne. (I messicani sembravano ritenere offensiva quella trafila; sentii qualcuno brontolare.)

Poi dovetti aspettare di nuovo, per Margrethe.

Arrivò dalla porta delle donne, mi vide e sorrise; da un momento all’altro, ogni cosa mi parve meravigliosa. Come poteva uscire da una camera di disinfestazione e sembrare appena uscita da una sartoria?

Mi raggiunse e disse: «Ti ho fatto aspettare? Mi dispiace. C’era un ferro da stiro e ne ho approfittato per stirarmi il vestito; non era un bello spettacolo quando è uscito dalla lavatrice».

«Oh, non mi sono neppure accorto di aspettare» mentii. «Sei bellissima.» (Non era una menzogna!) «Andiamo a mangiare? Alla mensa, temo.»

«Prima, non dobbiamo farci dare dei documenti?»

«Oh, penso che si possa andare subito alla mensa. A noi non serve una carta verde; sono per i cittadini messicani. Invece, devo spiegare come abbiamo perso i passaporti.» Avevo pensato a questo particolare quando eravamo sul treno e l’avevo spiegato a Margrethe. Dovevamo dire di essere turisti, e di esserci fermati all’Hotel de las Olas Altas sul mare. Quando eravamo stati colpiti dal terremoto, ci trovavamo alla spiaggia. Avevamo perso tutto — vestiti, soldi, passaporti — perché l’hotel era stato distrutto. Eravamo stati fortunati a essere vivi, e gli abiti che indossavamo ci erano stati donati dalla Croce Rossa messicana.

Questa storia presentava due vantaggi: l’Hotel de las Olas Altas era stato davvero distrutto, e tutto il resto non era facilmente controllabile.

Scoprii che per raggiungere la mensa occorreva fare la coda per la carta verde. Alla fine arrivammo al tavolo. L’impiegato mi consegnò una scheda e mi disse in spagnolo: «Scriva in stampatello, prima il cognome e poi il nome. Poi l’indirizzo. Se è stato distrutto dal terremoto, lo scrìva, e dia un altro indirizzo che non sia stato distrutto: parente, genitore, sacerdote».

Io cominciai il mio discorsetto. L’uomo alzò lo sguardo e disse: «Amigo, lei fa perdere tempo a quelli che sono dietro».

«Ma» dissi «non mi serve una carta verde. Non la voglio. Sono un cittadino americano che ritorna dall’estero e le sto spiegando perché non ho il passaporto. Lo stesso vale per mia moglie.»

Lui cominciò a picchiettare le dita sul tavolo. «Senta» disse «dal suo modo di parlare capisco che è nato negli Stati Uniti. Ma non posso fare niente per il suo passaporto perduto, e devo ancora passare 350 profughi. Intanto, ne sta già arrivando un altro treno. Mi toccherà andare avanti fino alle due di questa notte. Perché non farci un favore reciproco? Lei prenda una carta verde; non le farà male e le permetterà di entrare. Domani potrà andare a discutere del suo passaporto con il Dipartimento di Stato… ma non ne discuta con me. Okay?»

Io sarò sciocco, ma non sono ostinato. «Okay.» Come mio garante messicano diedi il nome di don Jaime; mi pareva che mi dovesse almeno quel favore. Il suo indirizzo aveva il vantaggio di trovarsi in un altro universo.


La mensa era quella che ci si poteva aspettare da un’organizzazione assistenziale. Ma la cucina era gringo, la prima che assaggiassi da mesi, ed eravamo affamati. La mela delizia che mi venne data come frutta era davvero deliziosa. Mancava ancora qualche ora al tramonto quando ci trovammo nelle strade di Nogales… liberi, ripuliti, sazi e legalmente, o quasi, all’interno degli Stati Uniti. Una situazione almeno dieci volte migliore di quella dei due naufraghi che erano stati raccolti nell’oceano diciassette settimane prima.

Ma eravamo ancora orfani del destino, e non avevamo denaro con noi, possedevamo solo gli abiti che portavamo addosso, e la mia barba di tre giorni e la condizione dei miei vestiti dopo essere stati bolliti nell’autoclave mi facevano assomigliare a un relitto dei bassifondi.

La mancanza di denaro era particolarmente fastidiosa perché in realtà avevamo con noi del denaro: le mance di Margrethe. Ma sulle banconote c’era scritto Reino invece di República, e sulle monete non c’erano le facce giuste. Forse, alcune delle monete contenevano una quantità d’argento sufficiente a dare loro un piccolo valore intrinseco, ma non sapevo a chi venderle. E se avessimo tentato di spendere quel denaro ci saremmo trovati immediatamente nei guai.

Quanto avevamo perso? Non ci sono rapporti di cambio inter-universali. Si potrebbe dare una valutazione in termini di potere d’acquisto: tante dozzine di uova o tanti chili di zucchero, ma che importanza poteva avere? Qualunque fosse stato il valore di quel denaro, adesso era inutile.

Questo faceva il paio con un’altra cosa inutile che avevo fatto quando ero ancora a Mazatlán: mentre ero il signore della cucina, avevo tentato di scrivere: a) al capo di Alexander Hergensheimer, il reverendo dottor Dandy Danny Dover, dottore in teologia, direttore delle Chiese Unite per la Decenza; e b) agli avvocati di Alec Graham, a Dallas.

Nessuna delle lettere ottenne una risposta; nessuna ritornò al mittente. Del resto, io me lo aspettavo, perché né Alec né Alexander provenivano da un mondo con macchine volanti, aeroplanos.

Pensavo di rifare il tentativo, ma non avevo molte speranze: già sapevo che quel mondo non era né quello di Graham né quello di Hergensheimer. Come mai? Finché non avevamo raggiunto Nogales, non avrei potuto dirlo. Ma laggiù, in quella mensa, c’era (tenetevi forte) la televisione. Una grossa scatola con una finestra su una delle facciate, e nella finestra comparivano immagini in movimento di persone… e si sentiva anche la voce di quelle persone, che parlavano.

O c’è anche da voi questa invenzione e la date per scontata, o vivete in un mondo che non la possiede… e allora non mi crederete. Una simile invenzione esiste davvero; c’è un mondo dove è comune come la bicicletta, e si chiama televisione, o anche tivù, tele, video e perfino “scatola per rincitrullire la gente” …e se vi riferissi alcuni degli scopi per cui viene usata questa grande meraviglia, capireste il motivo dell’ultimo soprannome.


Se vi trovate in bolletta in una città sconosciuta, e non avete nessuno a cui rivolgervi, né intendete presentarvi a una stazione di polizia e non volete ricevere una botta in testa, c’è sempre una soluzione. La troverete di solito nei quartieri poveri della città, vicino alle zone malfamate.

L’Esercito della Salvezza.

Non appena potei mettere le mani su un elenco telefonico, in un attimo trovai l’indirizzo (anche se mi occorse qualche tempo per riconoscere un telefono quando ne vidi uno; avviso per i viaggiatori inter-universali: i piccoli cambiamenti possono confondervi più di quelli grandi).

Dopo venti minuti e uno sbaglio di strada, io e Margrethe ci trovammo davanti alla missione dell’Esercito della Salvezza. All’esterno, sul marciapiedi, quattro di loro — corno francese, grancassa, due tamburi — avevano richiamato una piccola folla. Suonavano Si scuotono i secoli, abbastanza bene, ma gli mancava un baritono, e mi venne quasi la voglia di andare ad aiutarli. Ma, a mezzo isolato di distanza, Margrethe si fermò e mi tirò per la manica. «Alec… dobbiamo davvero andare?»

«Eh? Che cosa ti preoccupa, cara? Pensavo che tu fossi d’accordo. Non vuoi andare dall’Esercito della Salvezza?»

Lei trasse un lungo respiro e disse: «Alec… non sono più entrata in una chiesa da quando… da quando ho lasciato la chiesa luterana. Entrarci adesso, mi sembrerebbe una cosa poco onesta.»

(Signore, cosa fare di questa ragazza? Ha lasciato la fede perché le sue regole sono ancor più severe delle Tue. Aiutami, Ti prego… ma cerca di fare in fretta!) «Cara, se ti sembra disonesto, non lo faremo. Ma dimmi cosa possiamo fare. Io non ho altre idee.»

«Alec… non ci sono altre istituzioni a cui si possa rivolgere una persona bisognosa di aiuto?»

«Oh, certo. In una città di queste dimensioni, anche la chiesa cattolica avrà un ostello. E così le principali chiese protestanti. Probabilmente, ci sarà anche qualche organizzazione di assistenza degli ebrei.»

«No, pensavo a istituzioni non collegate a enti religiosi.»

«Ah. Margrethe, questa non è veramente la mia madrepatria; probabilmente, ne conosco le caratteristiche non più di te. Può darsi che ci siano organizzazioni assistenziali non collegate alle chiese, ma ne dubito, perché gli enti religiosi tendono a monopolizzare il campo… nessun altro lo vuole. Se fosse mattino, cercherei nell’elenco per categorie, potrebbe esserci qualcosa. Ma ormai è quasi sera, e l’unica cosa che mi viene in mente è di cercare un poliziotto e di chiedergli informazioni… e so già cosa mi risponderebbe: mi indicherebbe la missione dell’Esercito della Salvezza.»

«A Kbenhavn… o a Stockholm e Oslo… mi recherei alla centrale di polizia. Basta chiedere un posto per dormire; loro te lo danno.»

«Be’, qui non siamo né in Danimarca, né in Svezia o Norvegia. Qui potrebbero farci rimanere presso di loro, certo: io chiuso nella cella degli ubriachi, e tu in quella delle prostitute. Poi, domani mattina, potrebbero accusarci di vagabondaggio. Non so.»

«L’America è davvero così crudele?»

«Non lo so, cara… questa non è la mia America. Ma non voglio scoprirlo a mie spese. Cara… se io lavorassi per loro in cambio di quello che ci danno, potresti fermarti presso l’Esercito della Salvezza senza sentirti in torto?»

Margrethe rifletté seriamente… l’unico suo difetto era la mancanza di senso dell’umorismo. Un buon carattere, certo. Amore per il divertimento, certo. Ma humor…

«Alec, se fosse possibile fare come dici, potrei entrare. E lavorerei anch’io.»

«Non è necessario, cara; la cosa riguarderà soprattutto la mia professione. Quando avranno finito di nutrire gli affamati, ci sarà un’alta pila di piatti sporchi… e davanti a te hai il primo lavapiatti del Messico e de los Estados Unidos.»

Così, lavai i piatti. E poi aiutai a distribuire i libri degli inni e a preparare la missione per la funzione serale. E mi feci prestare rasoio e lametta dal fratello Eddie McCaw, l’ufficiale. Gli spiegai come fossimo arrivati laggiù: eravamo in vacanza sulla costa messicana, e prendevamo il sole sulla spiaggia, quando eravamo stati colpiti dal terremoto. Raccontai tutta la fila di bugie che mi ero preparato per l’Immigrazione e che non ero stato in grado di usare. «Perso tutto, soldi, assegni, passaporto, bagagli. Ma siamo stati fortunati. Siamo vivi.»

«Il Signore vi ha aiutato. Tu sei già rinato in Cristo, mi dicevi?»

«Già da diversi anni.»

«Forse, la tua storia potrebbe fare del bene alle nostre pecorelle perdute. Sei disposto a raccontarla? Saresti il nostro primo testimone del terremoto. L’abbiamo sentito anche qui, ma è riuscito soltanto a farci tremare i piatti.»

Fu così che diedi loro una descrizione sincera e orrenda del terremoto — ma meno orrenda di quel che era stato veramente: non voglio più vedere un altro topo… o un altro bambino morto — e ringraziai pubblicamente il Signore di avere salvato me e Margrethe: fu la preghiera più sincera che dicessi da anni.

Il reverendo Eddie chiese a tutti di unirsi a lui in una preghiera di ringraziamento a Dio che aveva voluto salvare fratello e sorella Graham, e prese spunto dalla nostra storia per fare un sermone che parlava di tutto, da Giona alla pecorella smarrita.

Ci prese in simpatia, e quella sera, dopo la funzione, ci disse che non avevano stanze per coppie sposate, ma che potevo dormire anch’io nel dormitorio delle donne, dato che sorella Graham sarebbe stata la sola donna presente. Purtroppo non c’erano letti a due piazze, solo letti a castello, ma almeno saremmo stati nella stessa stanza.

Lo ringraziai e andammo lietamente a dormire. In due si può stare anche su un letto molto stretto, se si ha davvero il desiderio di stare insieme.


L’indomani mattina, Margrethe preparò la colazione per gli 120 assistiti. Io la lasciai laggiù a mettere in ordine, e le dissi di aspettare il mio ritorno.

Poi uscii e trovai lavoro.

La sera prima, mentre lavavo i piatti, avevo saputo dal telegrafo senza fili (laggiù era chiamato “radio”) che negli Stati Uniti c’era disoccupazione: tanta da costituire un problema politico e sociale.

Nel Sudovest c’era sempre lavoro per i braccianti agricoli, ma il giorno prima avevo preferito evitare quel tipo di lavoro. Non perché fossi troppo orgoglioso: avevo lavorato in campagna fin da quando ero bambino. Ma non volevo portare Margrethe nei campi.

E non pensavo di trovare un lavoro come uomo di chiesa; non avevo neppure detto a fratello Eddie di avere ricevuto gli ordini religiosi. Anche tra i predicatori c’è il problema della disoccupazione. Oh, ci sono sempre dei pulpiti vuoti, vero… ma sono posti dove farebbe la fame perfino il proverbiale topo della chiesa.

Io, però, avevo un secondo lavoro. Lavapiatti.

Per quanti disoccupati ci siano, ci sono sempre dei posti da lavapiatti liberi. Il giorno prima, solo nel tragitto dalla stazione all’Esercito della Salvezza, avevo visto tre ristoranti con il cartellino CERCASI LAVAPIATTI: li avevo notati perché nei giorni precedenti, durante il lungo tragitto da Mazatlán a lì, avevo avuto tutto il tempo di ammettere a me stesso che non avevo altre capacità commerciabili.

Capacità commerciabili. In quel mondo non avevo ricevuto gli ordini, e non sarei neppure riuscito a riceverli, perché non avrei potuto dimostrare di avere frequentato il seminario e i corsi di teologia.

E non ero certamente un ingegnere.

Non potevo mettermi a insegnare neppure gli argomenti che conoscevo, perché non avevo diplomi che attestassero la mia preparazione: non potevo neppure dimostrare di avere fatto le scuole medie!

Non ero un rappresentante di commercio. Nel mio mondo avevo dimostrato buone capacità nella raccolta di fondi, ma nel mondo in cui mi trovavo non avevo curriculum, non avevo reputazione. Con il tempo, forse sarei riuscito ad avere quel tipo di lavoro… ma avevo bisogno di soldi in quel momento.

Che altri lavori mi rimanevano? Avevo guardato le offerte di lavoro in una copia del Times di Nogales che qualcuno aveva lasciato nella missione. Ma non ero un ragioniere fiscalista. E non ero un meccanico. Non sapevo neppure che cosa fosse un progettista di software, e non ero niente che fosse legato al computer. Non ero un infermiere o altro genere di “operatore sanitario”.

L’elenco dei lavori che non ero in grado di fare e che non potevo imparare da un giorno all’altro era interminabile. E anche inutile. L’unico lavoro che potessi fare, per mantenere Margrethe e me, mentre cercavamo di conoscere il nuovo mondo, era quello che ero stato costretto a fare come peón.

Un lavapiatti serio e competente non morirà mai di fame. (È più facile che finisca per morire di noia.)


Nel primo posto c’era cattivo odore e la cucina mi pareva sporca; ne uscii subito. Il secondo era un hotel che faceva parte di una grossa catena, con vari sguatteri in cucina. Il direttore mi diede un’occhiata e disse: «È un lavoro per un chicano; si troverebbe male». Cercai di discutere, ma non mi lasciò parlare.

Ma il terzo era un posto come si deve: un ristorante grande poco più del Pancho Villa, con la cucina pulita e un proprietario non peggio della media.

Mi avvertì: «Per questo lavoro pago il minimo sindacale e non ci sono aumenti per anzianità. Un pasto al giorno a spese della ditta. Se ti prendo a fregare qualcosa, fosse anche uno stuzzicadenti, fili via immediatamente… non ti do una seconda possibilità. Lavori le ore che ti dico io e te le cambio quando voglio. Ora come ora, mi occorri da mezzogiorno alle quattro, e la sera dalle sei alle dieci, cinque giorni la settimana. O puoi lavorare sei giorni, ma non ti do supplementi per lo straordinario. Lo straordinario scatta solo se lavori più di otto ore al giorno o più di 48 ore la settimana.»

«Va bene.»

«D’accordo. Dammi la tua tessera della Sicurezza Sociale.»

Gli mostrai la mia carta verde.

Lui me la restituì. «Ti aspetti che ti paghi dodici dollari e mezzo l’ora sulla base di una carta verde? Non sei un chicano. Perché mi vuoi mettere nei guai con lo stato? Dove hai preso quella carta?»

Gli raccontai la storia che mi ero preparata per l’Immigrazione. «Ho perso tutto. Non posso neppure telefonare per farmi mandare dei soldi; devo andare di persona.»

«Potresti rivolgerti alla pubblica assistenza.»

«Sono troppo orgoglioso per farlo.» (Non so a chi rivolgermi, e non posso dimostrare la mia identità. La pianti di fare domande e mi lasci lavare i miei piatti.)

«Mi piace quello che hai detto. Che sei troppo orgoglioso, intendo dire. Al nostro paese servirebbe molta gente come te. Va’ agli uffici della Sicurezza Sociale e fatti dare una nuova tessera. Te la daranno subito, anche se non ricordi il numero di quella vecchia. Poi ritorna qui e mettiti al lavoro. Sì… puoi incominciare subito, ma per essere pagato devi lavorare per una giornata intera.»

«Mi sembra più che onesto. Dove sono gli uffici della Sicurezza Sociale?»

Così andai nel palazzo degli uffici federali e raccontai di nuovo le mie bugie, senza troppi ricami. La giovane donna dall’aria seria che mi consegnò la tessera insistette per farmi una lezioncina sulla Sicurezza Sociale e sul suo funzionamento: un discorso che evidentemente sapeva a memoria. Penso che non avesse mai avuto un “cliente” (usò questa parola per definirmi) più attento di me. Era la prima volta che sentivo quel genere di cose.

Le avevo dato il nome “Alec L. Graham”. Non fu una decisione conscia. Usavo già da qualche mese quel nome, e lo diedi meccanicamente… e a quel punto non potei più dire: “Scusi, signorina, ma il mio vero nome è Hergensheimer”.

Iniziai a lavorare. Durante l’intervallo dalle quattro alle sei, tornai alla missione… e scoprii che anche Margrethe aveva un lavoro.

Era un lavoro temporaneo, tre sole settimane, ma cadeva al momento giusto. La cuoca della missione si era presa una vacanza per andare a Flagstaff a trovare la figlia, che aveva appena avuto un bambino. Durante la sua assenza, Margrethe l’avrebbe sostituita in cucina, e avrebbe occupato la sua stanza.

Fratello e sorella Graham si trovavano a meraviglia… per il momento.

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