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Grazie a Dio, le cabine delle navi hanno un sistema di numerazione logico. La numero C109 era dove ci si poteva aspettare di trovarla: sul ponte C, verso prua, a destra, fra la C107 e la C111 ; la raggiunsi senza bisogno di chiedere informazioni. Provai ad aprire la porta, ma la trovai chiusa a chiave. Evidentemente, Graham dava retta ai commissari di bordo, i quali dicono sempre di chiudere le porte, specialmente quando la nave è in porto.

E la chiave, pensai tristemente, è in tasca al vero Graham. Ma dov’era quell’uomo? Dietro di me, pronto a cogliermi mentre cercavo di intrufolarmi nella sua cabina? O anche lui, su un’altra nave, cercava di aprire la mia porta, mentre io cercavo di aprire la sua?

La possibilità che una data chiave riesca ad aprire un’altra serratura è molto piccola, ma c’è. In tasca avevo la mia chiave, della Konge Knut. Provai a infilarla nella toppa.

Be’, tentar non nuoce. Ero fermo davanti alla porta, nel dubbio se mettermi a starnutire o se cadere a terra morto, quando sentii, dietro di me, una voce carezzevole.

«Oh, signor Graham.»

Era una donna giovane e graziosa, in costume da cameriera… pardon, in uniforme da steward. Venne in fretta verso di me, prese un passe-partout che portava alla cintura, appeso a una sottile catena, aprì la C109 e disse: «Marga mi ha chiesto di tenere d’occhio la sua cabina. Mi ha detto che lei ha dimenticato la chiave sullo scrittoio. L’ha lasciata lì, ma mi ha pregato di aprirle la porta.»

«È stata infinitamente gentile, signorina…»

«Astrid. Io ho le cabine di tribordo, e, se occorre, io e Marga ci diamo il cambio. Oggi pomeriggio è scesa a riva.» Tenne la porta aperta, per lasciarmi passare. «Le serve altro, signore?»

La ringraziai ancora, e lei si allontanò. Chiusi la porta a chiave e tirai la spranga. Mi lasciai cadere su una sedia e diedi libero corso alla tremarella.

Dopo diedi minuti mi alzai, entrai in bagno e immersi la faccia nell’acqua fredda. Non avevo risolto niente e non mi ero calmato, ma almeno i miei nervi avevano smesso di tremare come bandiere al vento. Mi ero sostenuto con la pura forza di volontà fin da quando avevo avuto il sentore che ci fosse qualcosa di storto… ossia a partire da che momento? Da quando, nel camminare sui carboni accesi, mi era parso che nulla andasse per il giusto verso? O dopo? Be’, la prova definitiva l’avevo avuta quando al posto di una nave da ventimila tonnellate ne era comparsa un’altra.

Mio padre diceva sempre: «Alex, non c’è niente di male ad avere paura… basta solo averla dopo che il pericolo è cessato. Si può anche strillare e dare in smanie… ma dopo, e in privato. E anche gli uomini possono piangere… nel bagno e con la porta chiusa. La differenza tra un codardo e un coraggioso è soltanto questione di tempo».

Non sono come mio padre, ma ho sempre cercato di seguire i suoi ammaestramenti. Se impari a non saltare quando ti fanno scoppiare sotto i piedi una castagnola — o quale che sia la sorpresa — puoi riuscire a stare in piedi finché l’emergenza non è terminata.

Nel mio caso, l’emergenza non era affatto terminata, ma io mi ero potuto giovare della purificazione che ti viene data da un bel po’ di tremarella. Ora potevo fare il punto della situazione.

Ipotesi:

a) Qualcosa di assurdo era successo al mondo che mi circondava, oppure:

b) Qualcosa di assurdo era successo alla mente di Alex Hergensheimer; il suo posto era in manicomio, sotto sedativo.

Non mi venivano in mente altre ipotesi; queste due mi parevano sufficienti a coprire tutte le eventualità. Sulla seconda ipotesi, non mi pareva il caso di perdere tempo: se mi fosse mancata qualche rotella, la gente se ne sarebbe accorta. Mi avrebbero messo la camicia di forza, mi avrebbero trasferito in una cella imbottita.

Perciò, prendiamo come punto di partenza quello di avere ancora la ragione (o gran parte di essa, almeno; nella vita, un pizzico di follia serve sempre). E se io sono a posto, allora è il mondo che è fuori quadro. Facciamo l’inventario delle mie proprietà.

Il portafogli. Non era il mio. I portafogli si assomigliano un po’ tutti, e quello assomigliava al mio. Ma dopo anni che lo avete in tasca, un portafogli assume le vostre caratteristiche, è il vostro. Mi ero immediatamente accorto che quello non era il mio. Ma avevo preferito non dirlo a un sottufficiale che mi aveva “riconosciuto” e che continuava a chiamarmi “signor Graham”.

Presi il portafogli di Graham e lo aprii.

Varie centinaia di franchi; li avrei contati in un secondo tempo.

Ottantacinque dollari in banconote, moneta di stato a corso legale emessa dagli “Stati Uniti dell’America del Nord”.

Una patente di guida rilasciata ad A.L. Graham.

C’erano altre cianfrusaglie, ma, dietro la patente, trovai un cartoncino scritto a macchina che mi fece rimanere di stucco:


Chiunque dovesse rinvenire questo portafogli potrà tenere come ricompensa il denaro in esso contenuto se vorrà gentilmente restituire il resto ad A.L. Graham, cabina C109, N/V KONGE KNUT, Linee Danesi Americane, o a un legale rappresentante delle linee stesse. Grazie. A.L.G.


Ecco dunque che cosa era successo alla Konge Knut: aveva subito una metamorfosi.

O ero cambiato io? Il mondo era cambiato e di conseguenza era cambiata la nave? O c’erano due mondi, e io, mentre camminavo sul fuoco, ero entrato nel secondo? C’erano due uomini che si erano scambiati i destini? O Alex Hergensheimer si era trasformato in Alec Graham mentre la M/N Konge Knut si trasformava nella N/V Konge Knut? (E mentre l’Unione Nordamericana si trasformava negli Stati Uniti dell’America del Nord?)

Problema interessante. Sono lieto che tu l’abbia sottoposto alla mia attenzione. Allora ragazzi, se non ci sono altre domande…

Quando frequentavo le medie, ricordo che c’erano alcune riviste che pubblicavano storie fantastiche: non solo quelle di fantasmi, ma storie incredibili di ogni genere. Navi magiche che solcavano l’etere, dirette verso altre stelle. Invenzioni straordinarie. Viaggi al centro della Terra. Altre “dimensioni”. Macchine volanti. Atomi che bruciavano per dare energia. Mostri creati in laboratori segreti.

Io le acquistavo, per poi nasconderle dentro le copie di altre riviste, come l’Araldo della gioventù e la Crociata del fanciullo, poiché sapevo istintivamente che sarebbero incorse nella disapprovazione dei miei genitori, e successiva confisca. Io ne andavo pazzo, e così il mio amico Bert, compagno di quelle mie imprese nefande.

Ma non poteva durare. Prima ci fu un articolo sull’Arabo: “Veleno dell’anima. Calpestiamolo!” Poi il nostro pastore, fratello Draper, tuonò dal pulpito contro quella “lebbra che corrompeva la mente”, paragonandola ai perniciosi effetti delle sigarette e dell’alcool. Presto il nostro stato vietò simili pubblicazioni in base alla dottrina del “mantenimento del livello morale della comunità”, ancor prima che l’approvazione dell’apposita legge al parlamento nazionale rendesse obbligatoria la loro distruzione.

Un piccolo giacimento di quelle pubblicazioni, da me nascosto “alla perfezione” in solaio, scomparve misteriosamente. Peggio ancora, le opere dei signori H.G. Wells e Jules Verne vennero tolte dalla nostra biblioteca pubblica.

Certo i motivi dei nostri capi spirituali e dei nostri rappresentanti eletti, così ben intenzionati nel cercar di proteggere la mente dei giovani, sono degni di ammirazione. Come aveva fatto notare fratel Draper, le appassionanti avventure contenute nei libri sacri sono tali e tante da soddisfare i bisogni di fantasia di ogni fanciullo; semplicemente, non c’era alcun bisogno di opere profane di quel genere. Con questo, non voleva invocare la censura sulle letture degli adulti: solo su quelle dei giovani impressionabili. Se le persone mature volevano leggere quella cattiva prosa gonfia di assurdità, che se la leggessero… anche se lui non riusciva a immaginare perché un adulto sentisse il bisogno di farlo.

Credo di essere stato uno dei “giovani impressionabili”: ancor oggi sento la mancanza di quelle letture.

Ricordo in particolare un libro di Wells: Uomini come Dei. Mentre alcune persone viaggiano in auto, c’è un’esplosione: si ritrovano in un altro mondo, simile al loro, ma migliore. Incontrano gli abitanti di quel mondo e il trasferimento viene spiegato facendo ricordo a una teoria degli universi paralleli, della quarta dimensione ecc.

Questa era la prima puntata. La legge statale per la protezione della gioventù venne approvata subito dopo, e io non potei mai leggere le puntate seguenti.

Uno dei miei professori di materie letterarie, che si opponeva senza mezzi termini alla censura, un giorno disse che Wells era l’inventore di tutti i temi fondamentali di quella letteratura fantastica, e citò Uomini come Dei quale origine del concetto di universi paralleli. Io volevo chiedere all’insegnante dove trovare una copia del libro, ma rimandai la domanda alla fine del semestre scolastico, perché a quell’epoca, per la legge, sarei entrato nella maturità. Ma attesi troppo; il comitato Fede e Morale del senato accademico non volle rinnovare l’incarico a quel professore, che ci lasciò da un giorno all’altro, senza finire il semestre.

Mi era successo qualcosa di analogo al destino dei personaggi del romanzo di Wells? E il signor Wells aveva il dono divino della profezia? Per esempio, un giorno gli uomini avrebbero volato fino alla luna? Che assurdità!

Ma era poi tanto più assurdo di quel che era successo a me?

Qualunque cosa fosse successa, io mi trovavo sulla Konge Knut — anche se non sulla mia Konge Knut — e l’avviso posto accanto alla passerella annunciava la partenza per le ore 18. Ormai quell’ora si avvicinava e io avrei fatto bene a decidermi.

Che fare? Avevo perso il mio vascello, la motonave Konge Knut. Ma l’equipaggio o parte dell’equipaggio della nave a vapore Konge Knut pareva disposto ad accettarmi come il passeggero “Graham”.

Rimanere in cabina e risolvere tutto con una buona dose di faccia tosta? E se Graham fosse salito a bordo (ormai, poteva arrivare da un minuto all’altro!) e mi avesse chiesto che cosa facevo nella sua cabina?

O scendere a riva (come sarebbe stato mio dovere) ed esporre il mio problema alle autorità?

Alex, le autorità coloniali francesi ti vorranno un bene dell’anima. Niente bagagli, solo i vestiti che hai addosso, niente soldi, niente passaporto! Oh, ti prenderanno talmente in simpatia che di daranno vitto e alloggio per il resto della tua vita… in una stanza con le sbarre alla finestra.

Nel portafogli c’è del denaro.

E allora? Conosci il comandamento che dice di non rubare? È denaro di Graham.

Ascolta. Ragionevolmente, lui deve avere camminato sul fuoco mentre camminavi anche tu, ma da questa parte, in questo mondo o quello che è… altrimenti non avresti trovato qui il suo portafogli, ad aspettarti. Adesso, lui ha il tuo portafogli. Mi pare logico.

Senti, imbecille, ti pare che la logica abbia qualcosa a che vedere con il guaio in cui ci troviamo?

Be’…

Parla!

No, a dire il vero. Allora, ascolta questa nuova proposta. Rimani qui in cabina. Se Graham comparirà prima della partenza, finirai per essere cacciato via dalla nave, puoi starne certo. Ma se invece non dovesse comparire, prendi il suo posto, almeno fino a Papeete. Quella è una grande città, e potrai affrontare meglio la situazione: c’è un consolato della tua nazione eccetera eccetera.

Sai cosa ti dico? Mi hai convinto.


Di solito le navi da crociera pubblicano un quotidiano per i passeggeri: un foglio singolo, con informazioni piccanti come: “L’addestramento all’uso delle scialuppe di salvataggio si svolgerà alle 10. Tutti i passeggeri dovranno presentarsi…” e: “La lotteria di beneficenza di ieri è stata vinta dalla signorina Ephraim Glutz di Bethany, Iowa” e qualche notizia raccolta nelle vie dell’etere dall’operatore del telegrafo senza fili. Mi guardai attorno, per cercare i giornali della nave e il Benvenuti a bordo.

Questo è un opuscoletto (magari con titolo diverso), che serve a trasformare in marinai ben navigati i passeggeri che sono appena saliti a bordo: riporta il nome degli ufficiali, l’orario dei pasti, la posizione del salone di barbiere e della lavanderia, delle sale da pranzo e dello spaccio (articoli in vendita: chincaglieria, giornali, articoli da toeletta), come farsi dare la sveglia, piantine dei vari ponti, collocazione dei salvagente e delle scialuppe, da chi farsi assegnare il posto a tavola…

Il posto a tavola! Ahi! Dopo il primo pasto a bordo, un passeggero deve sapere qual è il suo tavolo. È una delle piccole cose che possono smascherarti. Be’, avrei trovato una soluzione.

L’opuscoletto del Benvenuti a bordo era nel cassetto della scrivania di Graham. Lo sfogliai, riproponendomi di impararne a memoria le parti più importanti, prima di lasciare la cabina — se fossi stato ancora a bordo alla partenza della nave, cioè — poi lo richiusi, perché mi era caduto l’occhio sul giornale della nave.

Si chiamava Lo scaldo del re, e Graham, benedetto lui, aveva tenuto tutte le copie dal giorno in cui era salito a bordo… a Portland, Oregon, come capii dalla data e dal luogo di pubblicazione del primo numero. Probabilmente, questo significava che Graham aveva un biglietto per l’intero viaggio: particolare che poteva risultare assai importante per me. Mi ero riproposto di ritornare con lo stesso mezzo che avevo preso all’andata, ma anche se il dirigibile di linea Admiral Moffett esisteva in quel mondo, io non avevo più il biglietto, né il denaro per pagarmene un altro. Che cosa fanno i francesi colonialisti a un turista sorpreso in bolletta? Lo bruciano sul rogo, nella pubblica piazza, o si limitano a squartarlo sulla ruota? Preferivo non saperlo. Il biglietto di andata e ritorno di Graham (sempre che lo avesse) mi avrebbe evitato spiacevoli sorprese. (Ammesso che Graham non si facesse vivo prima della partenza, per cacciarmi via a pedate.)

Non presi neppure in considerazione la possibilità di rimanere in Polinesia La vita del vagabondo squattrinato a Bora-Bora o a Moorea si poteva fare cent’anni fa, ma oggi, su quelle isole, l’unica cosa che si può prendere gratis è un’infezione.

C’era il rischio di trovarmi altrettanto squattrinato e altrettanto fuori del mio ambiente in America, ma ero convinto di trovarmi meglio nel mio paese natale. Cioè, nel paese natale di Graham.

Lessi alcune delle notizie arrivate per telegrafo senza fili, ma non riuscii a capirne il significato; posai il tutto sulla scrivania, per ulteriori approfondimenti. Il poco che mi era parso di capire non era molto incoraggiante. All’inizio avevo nutrito l’illusione che tutto l’accaduto fosse un piccolo qui pro quo destinato a risolversi presto (non chiedetemi come). Ma le notizie di cronaca mi tolsero ogni speranza.

Voglio dire, che razza di mondo può essere quello dove il “presidente” della Germania si recava a Londra in visita di stato? Nel mio mondo, l’Impero tedesco è sotto il Kaiser Wilhelm IV. Il “presidente” della Germania suona altrettanto assurdo quanto il “re” degli americani.

Poteva essere un bel mondo, ma non era il mio. Nossignori, con quelle notizie assurde.

Nel posare lo Scaldo del re notai un avviso sulla copia del giorno: per la cena si richiedeva l’abito da sera.

La cosa non mi sorprese affatto. Anche nella sua precedente incarnazione di motonave, la Konge Knut amava quel genere di vestiti. Quando la nave era in mare, lo smoking era di rigore; a chi non voleva metterlo, si faceva cortesemente capire che era meglio che cenasse in cabina.

Io non ho mai avuto uno smoking: la nostra chiesa non incoraggia quel genere di vanità. Come soluzione di compromesso, avevo optato per un vestito scuro di saia, con camicia bianca e una cravatta a farfalla nera, con il nodo già fatto. Nessuno aveva mosso obiezioni al mio abbigliamento. Del resto, io ero già in qualsiasi caso un passeggero di serie B, dato che mi ero imbarcato a Papeete.

Decisi di controllare se Graham possedeva un vestito scuro. E un papillon.

Graham aveva moltissimi vestiti: ben più di me. Provai una sua giacca sportiva; mi andava abbastanza bene. E i calzoni? La lunghezza sembrava quella giusta; non sapevo se mi andassero bene anche di vita, ed ero troppo timido per infilarmene un paio e rischiare che Graham mi cogliesse con un piede infilato nei suoi calzoni. Che cosa potevo dirgli? “Salve! La stavo aspettando, e per ingannare il tempo mi provavo i suoi pantaloni.” Poco convincente.

Non aveva un solo smoking, bensì due: uno classico, nero, l’altro rosso cupo. Non avevo mai visto tanta raffinatezza.

Ma non trovai una cravatta con il nodo già fatto.

Aveva diversi papillon neri, certo. Però, io non so fare il nodo.

Trassi un profondo respiro e cominciai a riflettere.


Sentii bussare alla porta. Non dico di avere fatto un salto. Solo un sobbalzo. «Chi è?» (Mi creda, signor Graham, stavo aspettando proprio lei!)

«Servizio in camera, signore.»

«Oh. Entri, entri!»

Sentii la chiave girare nella serratura, poi corsi a togliere la sbarra. «Mi scusi, ero sovrappensiero, avevo chiuso con il lucchetto. Entri, la prego.»

Margrethe aveva l’età di Astrid, ma sembrava più giovane, ed era ancor più bella: capelli biondo-cenere e lentiggini sul naso. Parlava un inglese da manuale, con un’affascinante intonazione straniera. Aveva in mano un portamantelli con una giacca bianca. «La sua giacca per la cena, signore. Karl dice che l’altra sarà pronta domani.»

«Oh, già. Grazie, Margrethe! Me n’ero completamente dimenticato.»

«Ne avevo anch’io l’impressione. Perciò sono ritornata a bordo un po’ prima; la lavanderia stava chiudendo. Sono contenta di avergliela portata; fa troppo caldo per vestirsi di scuro.»

«Non doveva rinunciare alla sua giornata di libertà; finirà per viziarmi.»

«Mi piace prendermi cura degli ospiti. Come lei sa.» Andò ad appendere la giacca nell’armadio, poi si voltò, per uscire. «Ritornerò a farle il nodo della cravatta. Sempre alle sei e mezzo, signore?»

«Sei e mezzo è perfetto. Che ora è, adesso?» (Maledizione, il mio orologio era finito a far compagnia all’altra Konge Knut; non me l’ero portato a riva.)

«Circa le sei.» S’interruppe per un istante. «Le tirerò fuori i vestiti, prima di uscire; non ha molto tempo.»

«Oh, non si preoccupi! Non rientra fra i suoi doveri…»

«No. Infatti è per me un piacere.» Tirò un cassetto, prese una camicia bianca e la posò sulla mia cuccetta (sulla cuccetta di Graham). «Lo sa anche lei.» Svelta ed efficiente come sa essere solo chi conosca bene la collocazione di tutti gli oggetti, aprì un cassettino che io non avevo toccato, prese una borsa di cuoio, la aprì e ne tolse un orologio, un anello e i gemelli per i polsini, e portò il tutto accanto alla camicia, poi infilò i gemelli nelle asole; posò accanto al cuscino la biancheria pulita e un paio di calzini di seta scuri; prese le scarpe di vernice e le portò vicino alla seggiola; in una delle scarpe infilò anche il corno per calzarle, prese dall’armadio la giacca bianca e un paio di calzoni neri (con annesse bretelle), completò l’abito con una fusciacca rossa e appese il tutto all’anta del mobile. Controllò il lavoro già fatto, poi andò a prendere un colletto bianco, una cravatta nera e un fazzoletto e li portò accanto alla camicia. Si fermò per un istante, posò chiave e portafogli accanto all’orologio, fece un cenno d’assenso. «Devo correre, se non voglio saltare la cena. Ritornerò per il nodo alla cravatta.» E sparì, camminando senza correre, ma molto in fretta.

Margrethe aveva ragione. Se non mi avesse tirato fuori tutto, avrei incontrato notevoli difficoltà a vestirmi. Sarebbe bastata quella camicia a mettermi nell’imbarazzo. Occorreva infilarsela dalla testa e aveva l’allacciatura sul collo. Non avevo mai visto niente di simile.


Grazie a Dio, Graham usava un normale rasoio di sicurezza. Alle sei e un quarto mi ero già sbarbato, avevo fatto la doccia (indispensabile) e mi ero tolto dai capelli il puzzo di fumo.

Le sue scarpe mi calzavano perfettamente, come se le avessi sempre portate io. I calzoni mi andavano un po’ stretti di vita: le navi danesi non sono il posto adatto per fare la cura dimagrante, e io ero già da due settimane sulla Konge Knut. Ero ancora in lotta con quei dannatissimi bottoni sul collo, quando Margrethe entrò con la sua chiave.

Mi raggiunse subito, disse: «Tenga il fiato» e in quattro e quattr’otto mi abbottonò tutti i bottoni che io non riuscivo a raggiungere. Poi fissò il colletto agli appositi bottoni della camicia e mi mise al collo la cravatta. «Si giri, per favore.»

Per fare il nodo al papillon occorre un pizzico di magia. La ragazza conosceva l’incantesimo giusto.

Mi aiutò a mettere la fascia, mi tenne la giacca, mi diede un’occhiata e annunciò: «Può andare. Sono orgogliosa di lei; a cena, tutte le ragazze ne parlavano. Mi spiace di non essere stata presente. Lei è davvero coraggioso».

«Non coraggioso: sciocco. Ho parlato in un momento in cui avrei fatto meglio a stare zitto.»

«No: coraggioso. Ora devo andare… ho lasciato Kristina di guardia alla mia torta di ciliegie. Ma se tarderò ancora, qualcuno me la ruberà.»

«Allora corra. E mille grazie. Le auguro di salvare quella torta.»

«E la mia ricompensa?»

«Oh. A che ricompensa stava pensando?»

«Non mi prenda in giro!» Si avvicinò di alcuni centimetri e sollevò la faccia. Io non conosco molto bene le donne (e chi può dire di conoscerle?) ma certe indicazioni sono scritte a caratteri cubitali. La presi per le spalle, le baciai prima una guancia e poi l’altra, indugiai per un istante, tanto per controllare che non facesse la faccia sorpresa, poi la baciai una terza volta sulle labbra.

«Era questa la ricompensa a cui pensava?»

«Naturalmente. Ma lei sa baciare meglio di così.» Sporse il labbro e abbassò gli occhi.

Certo, sapevo baciare meglio di così. Ossia, lo sapevo quando ebbi finito. Lasciando l’iniziativa a Margrethe e assecondando le sue idee sulla tecnica del bacio, in due minuti imparai più cose che in tutti gli anni precedenti.

Mi ronzavano le orecchie.

Per un attimo, dopo esserci staccati, Margrethe rimase immobile tra le mie braccia e mi guardò con grande serietà. «Alec» disse piano «questo bacio li batteva tutti. Scappo, altrimenti la faccio arrivare tardi a cena.» Si sciolse dalle mie braccia e si allontanò come faceva tutte le cose: in fretta.

Mi guardai allo specchio. Non vidi tracce. La cosa mi deluse. Un bacio così euforico dovrebbe lasciare il segno.

Che razza di persona era quel Graham? Io ero in grado di mettermi i suoi vestiti… ma ero in grado di reggere alla sua donna? Ed era la sua donna? Non lo sapevo. Che fosse un dongiovanni? O mi ero intrufolato in un romanzetto d’amore molto tenero e affettuoso, anche se un po’ indiscreto?

Come si fa a ritornare sui propri passi, dopo avere attraversato i carboni accesi?

E poi, volevo veramente tornare indietro?


Tornare indietro verso poppa lungo il corridoio principale, scendere due piani e andare di nuovo a poppa: così indicava la piantina.

Nessun problema. L’uomo accanto alla porta della sala da pranzo, vestito pressappoco come me, ma con un menu sotto il braccio, doveva essere il capo dei camerieri. Me lo confermò con un g~ande sorriso professionale. «Buona sera, signor Graham.»

Aspettai un attimo a rispondere. «Buona sera. Mi hanno detto che mi hanno spostato di tavolo. Dove sono, questa sera?» (A prendere il toro per le corna, quanto meno si riesce a confonderlo.)

«Oh, non è uno spostamento permanente, signore. Domani sarà di nuovo al tavolo quattordici. Ma questa sera il capitano la vuole al suo tavolo. L’accompagno, signore.»

Mi portò a un tavolo enorme, in mezzo alla sala, e mi spostò la sedia alla destra del capitano… ma il capitano si alzò e batté le mani, coloro che erano seduti al suo tavolo si affrettarono a imitarlo, e in men che non si dica tutti i presenti (almeno, così mi parve) erano in piedi e battevano le mani, e qualcuno gridava «Evviva!»

Quella cena mi insegnò due cose. Primo, anche Graham si era scioccamente esibito nella mia stessa acrobazia (ma non era chiaro se eravamo due persone diverse o una sola; per il momento, rimandai il problema a futura memoria).

Secondo, ma assai importante: mai bere a stomaco vuoto akvavit danese ghiacciata, soprattutto se vi hanno tirato su ad analcolici, come me.

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