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Ripresi lentamente conoscenza, e subito me ne pentii: la vita era divenuta il peggiore degli incubi. Serrai strettamente le palpebre perché la luce mi faceva male agli occhi, e cercai di riprendere sonno.

Mi rimbombava nella testa un’intera orchestra di tamburi indigeni; mi coprii con le mani le orecchie.

Il rimbombo divenne ancor più forte.

Allora aprii gli occhi e sollevai la testa, ma fu un errore: il mio stomaco si mise a fare le capriole, il ronzio alle orecchie aumentò. Non riuscivo a mettere a fuoco gli occhi, e i maledetti tamburi mi spaccavano il cervello.

Alla fine riuscii a riacquistare parzialmente la vista, anche se tutto era avvolto in una nebbia. Mi guardai attorno, scorsi una stanza che non conoscevo. Ero sdraiato sul letto ed ero semisvestito.

Cominciai a ricordare. Una festa a bordo di una nave. Bevande alcoliche. Molte. Chiasso. Nudità. Il capitano con un gonnellino all’havvaiana, che ballava con foga, accompagnato dall’orchestra. Alcune signore della crociera che indossavano il solo gonnellino, e altre ancor meno. Suoni di strumenti a percussione: xilofoni, tamburi.

Tamburi…

Non erano tamburi, quelli che avevo nel cervello; era il rimbombo del peggior mal di testa della mia vita. Perché diavolo mi avevano fatto bere…

Lascia perdere gli altri, amico. Sei stato tu, a bere.

Sì, ma…

“Sì, ma.” Per tutta la tua vita hai continuato a ripetere: “Sì, ma”. Quando ti deciderai a crescere e ad assumerti le tue responsabilità?

Sì, ma questa volta non è colpa mia. Io non sono A.L. Graham. È il nome di un altro. È la nave di un altro.

Davvero?

Certamente!

Mi rizzai a sedere sul letto per allontanare l’incubo. Anche questa volta, muovere la testa fu un grave errore; non dico che mi cadde a terra il cervello, ma sentii un dolore lancinante alla nuca (oltre al solito sottofondo di tamburi). Indossavo solo i calzoni dello smoking e mi trovavo in una stanza sconosciuta che dondolava lentamente.

I calzoni di Graham. La cabina di Graham. E il dondolio di una nave priva di stabilizzatori.

Non era un sogno. Mi pizzicava la lingua, mi facevano male i piedi. Ero sudato fradicio.

Pian piano, ricordai ogni cosa. I carboni accesi. Gli abitanti del villaggio. La corsa in macchina, con le galline che scappavano da tutte le parti. La nave che non era uguale alla mia. Margrethe…

Margrethe!

“I tuoi seni sono due giovani caprioli gemelli…”

Margrethe tra le danzatrici, a piedi nudi, a petto nudo. Margrethe che danzava con quell’odioso canaco, e che si agitava tutta…

Ecco perché mi ero ubriacato!

Piantala, amico. Tu eri già ubriaco prima di arrivare in salone. La tua unica accusa contro quel ballerino indigeno è che avresti voluto esserci tu, e non lui. Avresti voluto ballare tu, con Margrethe. Ma non eri capace.

Il ballo è una trappola di Satana.

E come avresti voluto conoscerlo, il ballo!

“Due giovani caprioli”! Accidenti, come avrei voluto conoscerlo!


Sentii bussare alla porta, poi una chiave che girava nella serratura. Margrethe si affacciò sulla soglia. «È sveglio? Bene.» Entrò, con in mano un vassoio, chiuse la porta, si avvicinò a me. «Beva questo.»

«Che cos’è?»

«Succo di pomodoro. Non discuta… beva!»

«Non riuscirei a mandare giù niente.»

«No, ci riuscirà benissimo. Beva.»

Lo annusai, poi ne bevvi un piccolo sorso. Nonostante i miei timori, non provai alcuna nausea. Bevvi di nuovo: dopo un piccolo sussulto, andò giù senza difficoltà si installò tranquillamente in un angolino dello stomaco. Margrethe mi diede due compresse. «Prenda queste. Le mandi giù con il resto del succo di pomodoro.»

«Non prendo mai medicine.»

Lei sospirò e disse qualcosa in una lingua sconosciuta. «Come?» le chiesi.

«Niente. È una frase che diceva mia nonna quando mio nonno non voleva ascoltarla. Signor Graham, prenda queste compresse. È soltanto aspirina, e lei ne ha bisogno. Se non mi darà retta, non la aiuterò più. Io… ecco, la passerò ad Astrid, lo giuro.»

«No, la prego.»

«Eppure, sarò costretta a farlo, se continuerà a non darmi retta. Astrid sarebbe dispostissima a fare il cambio, lo so. La trova simpatico… mi ha detto che ieri sera lei l’ha guardata, mentre danzava la hula.»

Presi immediatamente le compresse, le mandai giù con il resto del pomodoro, che era fresco e gradevole. «Già, l’ho guardata finché non ho visto lei, Margrethe. Poi non ho più avuto occhi per le altre.»

Lei sorrise per la prima volta. «Davvero? E le sono piaciuta?»

«Era bellissima.» (E la tua danza era oscena. Il tuo costume impudico e il tuo comportamento mi hanno sconvolto. Avrei preferito non esserci… e mi piacerebbe rivederti come allora, in questo stesso istante!) «Era graziosissima.»

Il sorriso si allargò. «Speravo anch’io che le piacesse.»

«Mi è piaciuto moltissimo. Ora la smetta di minacciarmi con Astrid.»

«Sì, ma dovrà comportarsi bene. Adesso si alzi e faccia la doccia. Prima bollente, poi con l’acqua fredda. Come nella sauna.» S’interruppe per qualche istante. Infine, riprese: «Alzarsi, ho detto. Non me ne andrò finché non vedrò uscire il vapore da quella doccia!»

«Farò la doccia. Quando lei sarà uscita.»

«E farà una doccia tiepida, lo so. Si alzi, si tolga quei calzoni, vada nella doccia. Intanto, andrò a prenderle la colazione. C’è ancora qualche minuto, prima che chiudano la sala per apparecchiare… ma non perda altro tempo! Per favore.»

«Oh, non riuscirei assolutamente a fare colazione! No…» Mangiare: che idea disgustosa.

«Lei deve mangiare. Ieri sera ha bevuto troppo, lo sa anche lei. Se non manda giù qualcosa, si sentirà male tutto il giorno, Signor Graham, ho finito le altre cabine, e in questo momento sono libera. Le porterò il vassoio, poi rimarrò qui a controllare che lei mangi.» Mi guardò. «Avrei dovuto toglierle i calzoni, quando l’ho messa a letto, ma era troppo pesante.»

«Lei mi ha messo a letto?»

«Mi ha aiutato Ori. Il ballerino che mi ha dato lezione.» A quel punto, dovetti fare una faccia tragica, perché Margrethe si affrettò ad aggiungere: «Oh, non l’ho lasciato entrare nella cabina. L’ho spogliata io stessa. Ma mi è occorso un aiuto per farle salire le scale.»

«Non era una critica.» (E dovevi proprio ritornare nel salone? Lo hai trovato laggiù? Hai di nuovo ballato con lui? “La gelosia brucia come il fuoco…” Non ho nessun diritto di essere geloso.) «Vi ringrazio tutti e due. Devo essere stato davvero una grossa scocciatura.»

«Be’… a volte le persone coraggiose bevono un po’ troppo, dopo il pericolo. Ma non è una buona abitudine.»

«Certamente no.» Mi alzai, entrai in bagno e dissi: «Acqua bollente, promesso.» Chiusi la porta e mi svestii. (Dunque, ero così schifosamente ubriaco da non riuscire a raggiungere la mia cabina senza aiuto. Alex, mi disgusti. E non hai diritto di essere geloso di una così cara ragazza. Non è tua, il suo comportamento è perfettamente legittimo per questo luogo — che non so quale sia — e non ha fatto altro che prendersi amichevolmente cura di te. Ciò non ti autorizza a considerarla tua proprietà esclusiva.)

Come promesso, aprii il rubinetto dell’acqua calda, anche se il vostro povero Alex per poco non finì bollito. Ma lo lasciai aperto finché non mi abituai… poi passai bruscamente all’acqua fredda, e lanciai un urlo.

La lasciai fredda finché non sentii più la temperatura, poi chiusi il rubinetto, aprii la porta per far uscire il vapore e mi asciugai. Uscii dal bagno… e all’improvviso mi accorsi che mi sentivo meravigliosamente. Il mal di testa era scomparso. E così pure l’impressione che il mondo dovesse finire a mezzogiorno. Niente più crampi allo stomaco. Solo fame. Alex, giurami che non ti ubriacherai mai più… o che, se dovesse capitarti ancora, farai esattamente quello che ti dirà Margrethe. Quella ragazza ha cervello, amico… non dimenticarlo.

Fischiettando un allegro motivetto, aprii il guardaroba di Graham.

Sentii girare una chiave nella toppa, afferrai rapidamente una vestaglia e riuscii a coprirmi prima che Margrethe entrasse. Ci mise parecchio, perché era ostacolata da un grosso vassoio. Quando lo notai, corsi a tenerle aperta la porta. Lei posò il vassoio, poi apparecchiò sullo scrittoio.

«Aveva ragione, con la storia della doccia calda e fredda» le dissi. «Era proprio quel che ordinava il medico. O l’infermiera, dovrei dire.»

«Lo so. Mia nonna faceva sempre così, con il nonno.»

«Doveva essere una donna intelligente. Dio, che buon odorino!» (Uova strapazzate, bacon, mucchi di gallette dolci danesi, latte, caffè, formaggi, fladbrød, fette di prosciutto crudo, frutta tropicale che non conoscevo.) «E cosa diceva, quando suo nonno non voleva ascoltarla?»

«Oh, a volte non aveva molta pazienza.»

«Lei invece ne ha moltissima. Mi racconti.»

«Ecco… diceva che Dio ha creato gli uomini per mettere alla prova l’anima delle donne.»

«Probabilmente non aveva tutti i torti. Lei è d’accordo con la nonna?»

Sorrise. «Secondo me, possono servire anche per altre cose.»

Mentre facevo colazione, Margrethe mise in ordine la cabina e il bagno. Tirò fuori dall’armadio un paio di calzoni, una camicia sportiva stampata a colori vivaci, un paio di sandali, poi portò via il vassoio e i piatti: lasciò solo il caffè e la frutta. Io la ringraziai e mi chiesi se dovessi darle la “ricompensa” dell’altra volta; mi chiesi anche se prestava analoghi servizi anche agli altri passeggeri. Pensavo di no, ma non ebbi il coraggio di chiederglielo.

Quando la ragazza fu uscita, chiusi la porta e mi dedicai a un’accurata perquisizione della cabina di Graham.

Portavo i suoi vestiti, dormivo nel suo letto, mi presentavo con il suo nome… adesso dovevo decidere se fare l’ultimo passo e diventare definitivamente “A.L. Graham”. O dovevo recarmi da qualche autorità (il console americano? o chi altri?), confessare la sostituzione e chiedere aiuto?

Gli eventi ormai incalzavano. Lo Scaldo del re di quel giorno informava che la N/V Konge Knut avrebbe fatto scalo a Papeete alle ore 15 e che alle 18 sarebbe ripartita per Mazatlán, Messico. Il commissario di bordo informava i passeggeri che, nel caso avessero intenzione di cambiare i franchi in dollari, un funzionario della Banca di Papeete si sarebbe trovato nel quadrato della nave, di fronte all’ufficio del commissario, dall’arrivo in porto a un quarto d’ora prima della partenza. Si informavano inoltre i passeggeri che i piccoli acquisti a bordo, come il conto del bar o dello spaccio, si potevano solo pagare in dollari, corone danesi o lettere di credito.

Tutto assai logico. E preoccupante. Mi ero aspettato che la nave si fermasse a Papeete per almeno ventiquattr’ore. Tre sole ore di sosta in porto mi parevano un’assurdità: non appena fissati gli ormeggi, sarebbe già stata ora di ritirarli per partire! A quanto sapevo, nei porti si pagavano i diritti di ancoraggio per un’intera giornata anche se ci si fermava solo per pochi minuti.

Poi mi dissi che non ero io l’armatore della nave. Forse il capitano doveva approfittare del breve periodo tra la partenza di una nave e l’arrivo di un’altra, o potevano esserci altre mille ragioni che non conoscevo. Le mie uniche preoccupazioni dovevano essere queste: cosa avrei dovuto fare tra le 15 e le 18, e cosa avrei potuto fare entro le 15.

Tre quarti d’ora di perquisizione produssero i seguenti risultati:

Vestiti, di tutti i tipi. Unico problema, qualche chilo in più nella zona della cintura.

Soldi: i franchi — ricordarsi di cambiarli — e gli 85 dollari del portafogli; tremila dollari nel cassetto dove era anche contenuta la borsa con l’orologio, l’anello e i gemelli. Visto che l’orologio e gli altri preziosi erano di nuovo nella borsa, Margrethe doveva avere messo in quel cassetto il denaro che avevo vinto a Forsyth, Jeeves ed Henshaw. Si dice che c’è un Dio che provvede anche agli sciocchi e agli ubriachi; nel mio caso, lo strumento di cui si serviva quel Dio era Margrethe.

Vari articoli personali di scarsa importanza, in quel momento: libri, ricordini, articoli di toeletta.

Niente passaporto.

Visto che non ero riuscito a trovare il passaporto con quella prima, sommaria ispezione, ripresi la ricerca dall’inizio, in modo più approfondito: questa volta frugai nelle tasche di tutti i vestiti e controllai con cura ogni posto che si prestasse a contenere un libriccino di quelle dimensioni.

Niente passaporto.

Alcuni turisti amano avere con sé il passaporto ogni volta che scendono a terra. Io non me lo porto mai dietro, se posso farne a meno, per non correre il rischio di perderlo. Il giorno precedente non avevo con me il mio, che di conseguenza si trovava a tener compagnia alle nevi dell’anno prima e alle belle dame di Francois Villon, ossia nel luogo dove era finita la mia Konge Knut. Dove? Non avevo il tempo di chiedermelo; per il momento, dovevo risolvere gli enigmi di un mondo nuovo, sconosciuto.

Se Graham aveva con sé il proprio passaporto, anch’esso era cascato in un buco della quarta dimensione ed era finito a tener compagnia alle famose nevi. Questa ipotesi pareva sempre più probabile.

Mentre io fremevo, qualcuno fece scivolare un foglio sotto la porta della mia cabina.

Andai a prenderlo e lo aprii. C’era il conto delle consumazioni al bar (delle consumazioni di Graham). Che Graham dovesse lasciare la nave a Papeete? Oh, no! Non sarei più riuscito a uscire dall’isola.

O forse no. Sembrava il solito conto che si compila alla fine del mese.

La cifra indicata in calce mi lasciò stupefatto… finché non notai i singoli addebiti. Allora mi stupii per un altro motivo. Se una Coca-Cola costa due dollari, non significa che la Coca è più grande; significa che il dollaro è più piccolo.

Ora capivo perché una scommessa da trecento dollari fatta, ehm, dall’altra parte, diventava di tremila da questa.

Se avessi continuato a vivere in quel mondo, avrei dovuto fare mente locale a tutti i prezzi. Trattare i dollari come una moneta straniera, e convertirli mentalmente finché non mi fossi abituato. Per esempio, a giudicare dal costo delle consumazioni, una cena con bistecca o costata, in un buon ristorante, poteva costare anche dieci dollari. Accidenti!

E con gli aperitivi e una bottiglia di vino, il salasso poteva arrivare a quindici dollari! Il salario di una settimana. Grazie a Dio, non bevo.

Come hai detto, scusa?

Ascolta… ieri sera è stata un’occasione molto particolare.

E con questo? Lo è stata certamente, perché la verginità si perde una volta sola. Una volta che non c’è più, è sparita per sempre. Che cosa bevevi prima di perdere la memoria? Uno zombie danese? Non ne assaggeresti uno proprio adesso, tanto per riprendere la stabilità?

Non ne assaggerò mai più!

Se ne riparla più tardi, amico.


C’era ancora una possibilità, ma mi pareva abbastanza attendibile. Nella borsa che Graham usava per contenere i preziosi c’era una chiave di fattura semplicissima, a parte il numero “82” impresso su un lato. Se il destino non mi era del tutto avverso, doveva trattarsi della chiave di una delle cassette di sicurezza del commissario di bordo.

(E se invece il fato si divertiva a giocarmi tiri mancini, era la chiave di una cassetta di chissà quale banca, in chissà quale dei 46 Stati Uniti. Ma non fasciamoci la testa prima di essercela rotta.)

Scesi al ponte inferiore e mi diressi a poppa. «’Giorno, commissario.»

«Ah, signor Graham! Gran bella festa, vero?»

«Certo. Due feste così di fila, e mi sveglierei in una cassa da morto.»

«Oh, via! Un uomo che cammina sul fuoco! Mi sembrava che le piacesse… e io le garantisco che mi sono divertito. Cosa posso fare per lei?»

Gli mostrai la chiave. «È quella giusta? O è la cassetta della mia banca? Faccio sempre confusione.»

L’ufficiale la prese. «Sì, è una delle nostre. Poul! Prendi la chiave e porta qui la cassetta del signor Graham!» E a me: «Senta, se ne ha bisogno, può entrare nell’ufficio e sedersi al tavolino.»

«Sì, certamente. Anzi, ha un sacchettino o qualcosa del genere, grande più o meno come la cassetta? Vorrei portare in cabina le mie cose per fare dei conti.»

«Un sacchettino… be’, potrei farmene dare uno dallo spaccio. Ma, senta… quanto le occorrerà, per fare i conti? Riesce a farli prima di mezzogiorno?»

«Sì, senza problemi.»

«Allora, prenda la cassetta e se la porti in cabina. Sarebbe vietato, ma il divieto l’ho messo io, e perciò posso anche fare uno strappo alla regola. Ma cerchi di riportarmela per mezzogiorno: siamo chiusi dalle 12 all’una… è il contratto sindacale… e se dovessi rimanere qui da solo, mentre i miei aiutanti sono a colazione, lei dovrebbe poi offrirmi da bere.»

«Be’, pensavo di offrirglielo in qualsiasi caso.»

«Ci conto. Ecco la sua cassetta. Non me la porti nel fuoco, se dovesse attraversarne un altro.»


In cima a tutto il resto c’era il passaporto di Graham. Tornai a respirare. Non so cosa ci sia di peggio che trovarsi senza passaporto fuori dell’Unione… anche se adesso non era più l’Unione. Lo aprii, guardai la foto. Avevo davvero quella faccia? Andai in bagno e osservai prima la mia immagine allo specchio, poi la foto.

Più o meno simili. Nessuno si aspetta grandi cose da una fototessera. Poi guardai allo specchio anche la foto, e subito mi parve somigliantissima. Amico, devi rassegnarti: hai la faccia storta. Lei pure, signor Graham.

Senta, Graham, se devo prendere definitivamente la sua identità — e pare che non ci siano alternative — una simile rassomiglianza è davvero una fortuna. Le impronte digitali? Ce ne occuperemo un’altra volta. Pare che in questi Stati Uniti non sia obbligatorio mettere sul passaporto le proprie impronte; meglio così. Occupazione: dirigente. Dirigente di che cosa? Di un’agenzia di pompe funebri o di una catena di hotel internazionali? Forse, sostituire Graham sul lavoro poteva essere non solo difficile, ma addirittura impossibile.

Indirizzo: presso O’Hara, Rigsbee, Crumpacker e Rigsbee, studio legale, appartamento 7000, Palazzo Smith, Dallas. Ah, proprio da stare allegri. Un recapito postale. Niente indirizzo di casa, niente indirizzo di lavoro, nessuna indicazione sul tipo di lavoro svolto. Bravo, il mio furbastro; ti darei un pugno sul muso!

(Ma non può essere così antipatico: a Margrethe piace. Sì, sì… ma farebbe meglio a tenersi lontano da Margrethe; se ne approfitta troppo. Non è giusto. Chi se ne approfitta troppo? Attento, ragazzo, continuando in questo modo, si arriva allo sdoppiamento di personalità.)

In una busta sotto il passaporto c’era la sua copia del biglietto di viaggio… ed era effettivamente un viaggio di andata e ritorno, da Portland a Portland. Caro sosia, se non ti fai vivo prima delle 18, io ho trovato il modo di ritornare a casa. Tu, prova a usare il mio biglietto per l’Admiral Moffett. Con tanti auguri.

C’erano altri effetti personali, ma gran parte della scatola di ferro era occupata da dieci spessi pacchetti, formato busta commerciale. Ne aprii uno. Conteneva biglietti da mille dollari. Ne contai cento.

In un baleno controllai gli altri nove pacchi. Erano identici. Un milione di dollari.

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