Ewing si svegliò.
Il corpo gli doleva in cento punti diversi, pulsava di dolore. Rotolò sul letto, si portò una mano alla fronte, cercò di concentrarsi.
Cosa mi è successo?
Si affollarono i ricordi. Gli tornò in mente che aveva trovato Byra nella sua stanza, bevuto il liquore drogato; che lo avevano trasportato al consolato siriano. Giorni bui di un interrogatorio senza fine, un tormento continuo, una macchina per sondare il cervello sulla sua testa…
La salvezza improvvisa da parte di uno sconosciuto. Poi il sonno. I suoi ricordi finivano lì.
Distrutto, scese dal letto quasi strisciando, si guardò allo specchio. Era spaventosamente malconcio. Linee scure gli circondavano gli occhi, come tracciate da una matita; la pelle del viso era cascante sotto il mento, tesa fino allo spasimo in altri punti. Aveva un aspetto ancora peggiore di quando, pochi giorni prima, si era risvegliato sulla nave.
Sulla sedia accanto al letto c’era una busta. La raccolse con una smorfia, la toccò. Era chiusa e indirizzata a lui. Ne uscirono svolazzando, due biglietti da cinque crediti, assieme a un foglio. Appoggiò le banconote sul letto, spiegò il foglio e si mise a leggere.
Secondodì pomeriggio. Da me stesso a un me stesso più giovane. Da Ewing sub-uno all’uomo che io chiamo Ewing-sub-due…
Per quanto si sentisse ancora intontito, leggendo il messaggio si svegliò del tutto. La sua prima reazione furono rabbia e incredulità; poi, carezzandosi il mento, si mise a riflettere su alcuni giri di frase, su un certo uso della punteggiatura. Quando dettava alla vocescrivente, aveva uno stile piuttosto preciso. E quella era un’imitazione ottima, oppure era davvero il suo stile.
Nel qual caso…
Mise in funzione l’apparecchio interno di comunicazione e chiese: «Che giorno è oggi, per favore?». Parlando con un robot, non esisteva il timore del ridicolo.
«Quartodì tredici quintomese», gli risposero.
«Grazie. È possibile consultare i notiziari di secondodì undici?».
«Se vuole la metto in comunicazione con l’archivio», suggerì il robot.
«Benissimo». Fra sé e sé, Ewing pensò: è una follia. Quel messaggio dev’essere falso.
Udì il clic-clic-clic dei relè che scattavano, poi un’altra voce di robot disse: «Archivio. In cosa possiamo esserle utili?».
«Mi interessa il testo di una notizia relativa a un fatto accaduto secondodì pomeriggio. Il corto circuito di un energitron nell’atrio del Grand Valloin Hotel».
Il robot disse, quasi istantaneamente: «Ho qui la notizia. Gliela devo leggere?».
«Certo», rispose Ewing, con voce roca. «Leggi».
«Secondodì 11 quintomese, 3806. L’esplosione di una cabina energitron, avvenuta oggi pomeriggio nell’atrio del Grand Valloin Hotel, ha causato la morte di una persona, provocato un danno stimato nell’ordine dei duemila crediti, ferito tre persone, e interrotto la normale attività dell’hotel per due ore circa. Si ritiene che la causa dell’esplosione sia un tentativo di suicidio perfettamente riuscito.
«Nei resti della cabina non è stato ritrovato nessun corpo, ma diversi testimoni affermano di aver visto entrare nell’energitron, pochi attimi prima dell’esplosione, un uomo alto e ben vestito. L’immediato controllo degli ospiti dell’hotel ha rivelato che nessun cliente è scomparso. La polizia di Valloin ha iniziato le indagini».
Il robot smise di leggere. «Non c’è altro. Vuole un microfilm? Dobbiamo cercare nei nostri archivi informazioni successive relative all’avvenimento?».
«No», disse Ewing. «No, grazie». Interruppe la comunicazione, ricadde pesantemente a sedere sul letto.
Naturalmente, poteva essere tutto un trucco. Nei giorni in cui lui aveva dormito, il misterioso estensore del messaggio aveva avuto tutto il tempo di sapere dell’esplosione e parlarne per aumentare la credibilità. Ma l’analisi logica mandava in fumo la teoria del trucco. C’erano di mezzo troppe circostanze inspiegabili e azioni immotivate. Accettare l’idea che un altro Ewing fosse tornato indietro nel tempo per salvarlo e lasciargli il messaggio era un’ipotesi enormemente più semplice, una volta data per scontata l’enorme improbabilità del viaggio nel tempo.
In ogni modo, presto avrebbe dovuto ricevere una prova decisiva. Trovò sul comodino un piccolo storditore blu e si mise a guardarlo, meditabondo.
Secondo il messaggio, l’Accademico Myreck doveva chiamarlo poco dopo il suo risveglio.
Benissimo, pensò, aspetterò la telefonata di Myreck.
Un’ora dopo era seduto in una rilassopoltrona, nel salone dell’Università di Scienze Astratte. Il dolore causato dalle torture di Firnik stava scomparendo, grazie alle abili manipolazioni delle dita di Myreck. Era avvolto dalla musica, una musica antica e affascinante: Beethoven, gli aveva detto Myreck. In mano aveva un bicchiere di liquore.
Gli sembrava tutto incredibile: la telefonata di Myreck, il viaggio attraverso Valloin sull’auto scura, il miracoloso edificio fuori fase di tre microsecondi rispetto al resto della città, e soprattutto il fatto che il messaggio trovato in camera era indiscutibilmente vero. I terrestri conoscevano il segreto del viaggio nel tempo; e, anche se nessuno di loro lo sapeva, avevano già mandato nel passato Baird Ewing come minimo una volta, in un punto del tempo di quel pomeriggio di quartodì che era ancora nel futuro.
Le sue responsabilità, già tremende, ora erano più grandi che mai. Un uomo aveva rinunciato alla vita per lui, e anche se in realtà non si era verificato un decesso vero e proprio, gli sembrava che fosse morta una parte di sé che non aveva mai conosciuto. Era di nuovo l’unico padrone del proprio destino.
La conversazione procedeva piacevolmente. I terrestri, svegli, curiosi, volevano informazioni sulla minaccia dei Klodni, volevano sapere se la gente di Corwin sarebbe riuscita a sconfiggerli al momento della battaglia. Ewing rispose la verità: avrebbero tentato, ma le speranze di successo erano scarse.
E poi Myreck affrontò un nuovo argomento: la possibilità di trasferire i membri dell’Università su Corwin, dove almeno sarebbero stati più al sicuro che su una Terra retta da Sirio IV.
A Ewing sembrò una proposta dagli esiti dubbi. Spiegò ai terrestri, visibilmente delusi, quanti e quali sforzi avrebbe richiesto il loro trasferimento, e di quante poche navi potesse disporre Corwin per un viaggio del genere. Accennò agli inevitabili ritardi comportati dalle trattative col Consiglio.
Sui loro visi apparvero espressioni ferite, ma non c’era rimedio. Corwin aveva di fronte la distruzione totale; la Terra, una semplice occupazione. Corwin aveva bisogno di aiuti molto più urgenti. E da quale direzione?, si chiese. Da parte di chi?
«Mi spiace», disse, «ma non vedo proprio in che modo potremmo offrirvi asilo. Comunque mi sembra che su Corwin vi trovereste in una situazione ancora peggiore che non qui, sotto il dominio dei siriani. L’arrivo dei Klodni significherà la fine di tutto; i siriani probabilmente lasceranno le cose come stanno, con l’unica differenza che le tasse le pagherete a loro anziché al governo di Mellis».
Una deprimente sensazione d’inutilità cominciava ad avvolgerlo. Sulla Terra non aveva concluso niente: non aveva trovato una soluzione al problema di Corwin, non era nemmeno riuscito ad aiutare quei terrestri. Loro stavano per essere schiacciati sotto il tallone di Sirio IV, mentre Corwin, ormai, doveva solo attendere l’arrivo dei Klodni e l’inevitabile, sanguinosa sottomissione.
Aveva fallito. I piani audaci che turbinavano nella mente dell’Ewing che gli aveva lasciato il messaggio non avevano trovato posto nella sua mente. Era chiaro che l’altro Ewing intravvedeva una soluzione per Corwin, un modo per difendere il pianeta dai Klodni. Ma non gliene aveva parlato nel suo biglietto.
Forse aveva vissuto un’esperienza particolare durante il viaggio nel tempo, qualcosa che gli aveva fornito la chiave per risolvere il dilemma…
Ewing ebbe un’idea tentatrice: forse dovrei tornare indietro nel tempo ancora una volta, salvare l’Ewing che troverò, dettare di nuovo il messaggio e aggiungere anche l’informazione che ora manca…
No. Era un progetto da respingere decisamente. Un altro viaggio nel tempo era fuori discussione. Gli si presentava la possibilità di porre fine al ciclo, di liberarsi per sempre dalla Terra. Era l’unica cosa sensata da fare. Tornare su Corwin, prepararsi all’attacco, difendere la sua casa e il suo pianeta quando fosse giunto il momento: quella era la sola linea di condotta intelligente. Inutile continuare a cercare sulla Terra una super-arma che non esisteva.
Meglio abbandonare la Terra al suo triste destino, pensò, e ripartire per Corwin.
La conversazione si arenò all’improvviso. Lui e i terrestri ormai avevano ben poco da dirsi. Si erano chiesti aiuto a vicenda, avevano scoperto di non poter far niente.
Myreck disse: «Cambiamo argomento, d’accordo? Questi discorsi di pericolo e distruzione mi deprimono».
«Ne convengo», ammise Ewing.
Il disco finì. Myreck si alzò, lo tolse dal piatto, lo rimise fra gli altri. «Abbiamo una discreta collezione di antichi compositori terrestri», disse. «Mozart. Bach, Vurris…».
«Temo di non averne mai sentito nominare nessuno», rispose Ewing. «Su Corwin possediamo solo poche registrazioni di alcuni compositori terrestri. Le ho sentite tutte al museo». Corrugò la fronte, nel tentativo di ricordarne i nomi. «Schoenberg… E Stravinski, mi pare. E Bartok. I dischi appartenevano a uno dei primi coloni».
Myreck mise sul piatto Bach. Il brano s’intitolava «Variazioni Goldberg» ed era eseguito da uno strumento dal suono strano ma tutt’altro che spiacevole, il clavincembalo. Myreck gli spiegò che funzionava come una specie di sonorizzatore elettronico primitivo. La musica veniva prodotta da corde percosse meccanicamente da tasti.
A parecchi degli accademici interessava moltissimo la musica, sia antica che moderna, e tutti insistevano per esporre le proprie teorie. In un altro momento, Ewing avrebbe partecipato volentieri alla discussione; quel giorno, invece, ascoltava solo per una pura cortesia, prestando poca attenzione a ciò che si diceva. Stava cercando di ricordare il testo del biglietto che aveva letto e distrutto un’oretta prima. Gli avrebbero mostrato la macchina del tempo. Lui avrebbe dovuto rifiutare una dimostrazione pratica. Questo avrebbe mutato il corso del passato e portato ai risultati che Ewing-sub-uno desiderava.
Qualunque cosa desiderasse effettivamente, pensò lui.
Il pomeriggio scivolò via. A un certo punto, Myreck disse lentamente: «Abbiamo compiuto anche molte ricerche nel campo della teoria temporale. Le nostre macchine si trovano ai piani inferiori dell’edificio. Se le interessa…».
«No!», rispose Ewing, così all’improvviso e con tanta furia che la sua esclamazione parve quasi un grido. In tono più calmo aggiunse: «No, grazie. Temo di dover rinunciare. Si sta facendo tardi, e sono sicuro che troverei così affascinanti le macchine del tempo da fermarmi qui più del dovuto».
«Ma noi saremo felicissimi di vederla restare con noi il più a lungo possibile», ribatté Myreck. «Se vuole vedere le macchine…».
«No», ripeté Ewing, deciso. «Ormai debbo andarmene».
«In questo caso, la riporteremo all’hotel».
Dev’essere questo il punto di divergenza, pensò mentre i terrestri lo accompagnavano alla porta ed eseguivano l’operazione che li riportava in fase temporale col mondo esterno, con la sera di quartodì tredici. Il mio predecessore non è mai uscito di qui. È tornato a secondodì pomeriggio, sdoppiandosi. Il ciclo è interrotto.
Entrò in macchina. L’auto partì subito. Ewing si voltò a guardare lo spazio vuoto alle loro spalle che in realtà non era vuoto.
«Un giorno o l’altro deve vedere le nostre macchine», disse Myreck.
«Sì… Sì, certo», rispose vagamente Ewing. «Appena avrò sistemato qualche faccenda urgente».
Ma domani sarò in viaggio verso Corwin, pensò. Probabilmente non vedrò mai le vostre macchine.
Con le sue azioni di quel pomeriggio aveva creato una nuova successione d’eventi. Non era tornato a secondodì, non aveva salvato il prigioniero di Firnik; quindi, un Ewing-sub-tre aveva subito la tortura della sonda mentale e, presumibilmente, era morto due giorni prima. Di conseguenza, senza dubbio Firnik pensava che Ewing fosse morto. Chissà che sorpresa per lui, l’indomani, quando uno spettro si sarebbe presentato allo spazioporto a reclamare la sua nave e a partire per Corwin!
Cercò disperatamente di capire i lati più complessi della situazione. Be’, ormai non importava più. Aveva già fatto il passo decisivo.
Nel bene o nel male, il continuum temporale si era alterato.