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Era mezzanotte passata quando Ewing uscì dall’ascensore al quarantunesimo piano del Grand Valloin Hotel. Arrivò alla porta della sua stanza e guardò la cassetta dei messaggi. Vuota. Quasi si aspettava di trovare un altro biglietto minaccioso.

Premette il pollice contro la piastra d’identificazione e disse sottovoce, per non svegliare gli altri ospiti: «Apriti».

La porta si aprì. Le luci della sua stanza, incredibilmente, erano accese.

«Salve», disse Byra Clork.

Ewing s’immobilizzò sulla soglia, fissò stupefatto la ragazza siriana dalle grandi spalle. Indifferente, se ne stava seduta sulla rilassopoltrona accanto alla finestra. Sul comodino c’era una bottiglia, e vicino due bicchieri, uno pieno a metà di un liquido ambrato. Byra si era messa a proprio agio, a quanto sembrava.

Lui entrò.

«Come ha fatto a introdursi nella mia stanza?», le chiese.

«Ho chiesto alla direzione di darmi un passepartout, e nessuno si è opposto».

«Ah, bene», esclamò Ewing. «Probabilmente non riesco a capire come funzionano gli hotel terrestri. Nella mia ingenuità credevo che la stanza fosse riservata esclusivamente al cliente, ammesso che paghi, e che nessun altro avesse il permesso d’entrare».

«In genere le cose vanno proprio così». La ragazza sembrava quasi allegra. «Ma ho ritenuto necessario parlarle di questioni urgenti. Questioni della massima importanza per il consolato siriano di Valloin, che io rappresento».

Ewing si accorse che stava ancora tenendo aperta la porta. La lasciò andare, e la porta si chiuse automaticamente. «Direi che è un po’ tardi per trattare affari diplomatici, no?», chiese.

Lei sorrise. «Non è mai troppo tardi per certe cose. Le va di bere?».

Lui ignorò il bicchiere che la ragazza gli porgeva. Voleva solo che se ne andasse.

«Come ha fatto a introdursi nella mia stanza?», ripeté.

Lei puntò un dito alle sue spalle, in direzione del cartello appeso alla porta. «C’è scritto lì, ed è molto chiaro. Le leggerò la parte che c’interessa, nel caso lei non avesse ancora preso visione del regolamento. "La direzione di questo hotel si riserva il diritto di entrare in qualsiasi stanza e di ispezionarla a ogni ora". Ecco, io sto facendo un’ispezione».

«Ma lei non è la direzione!».

«Sono al servizio della direzione», rispose dolcemente la ragazza. Frugò nel miniborsello che portava appeso al polso sinistro, tirò fuori un bigliettino da visita giallo, lo passò allo stupefatto Ewing.

C’era scritto:

ROLLUN FIRNIK, direttore del Grand Valloin Hotel.

«Cosa significa?».

«Significa che tutti gli impiegati robot rispondono direttamente a Firnik. È lui il direttore dell’hotel. Alcuni uomini d’affari di Sirio IV lo hanno acquistato otto anni fa e hanno incaricato Firnik di agire come loro rappresentante. Lui, a sua volta, mi ha incaricato di introdurmi nella sua stanza stasera. Visto che è tutto a posto, che è tutto legale, si sieda e facciamo due chiacchiere. Si calmi».

Incerto, Ewing si tolse la giacca, si accomodò sull’orlo del letto, di fronte alla ragazza.

«Oggi abbiamo già avuto una conversazione, no? Una conversazione del tutto inutile e frammentaria, che è terminata quando…».

«Lasci stare!».

L’improvviso pallore del suo viso gli disse una cosa che lui era ansioso di sapere: un raggio-spia li stava scrutando. Ewing aveva quasi rivelato qualcosa che lei voleva tenere segreta.

«Adesso… Adesso ho altre istruzioni», disse la ragazza, esitante. «Non vuole bere?».

Lui scosse la testa. «Oggi ho già bevuto più del normale, grazie. E sono stanco. Comunque, visto che è entrata, perché non mi dice cosa vuole?».

«Stasera lei ha incontrato il governatore generale Mellis, vero?», chiese bruscamente Byra.

«Sul serio?».

«Inutile che lei faccia il misterioso». Il suo tono di voce era deciso. «È stato visto partire e tornare con una macchina del governo. Non sprechi il fiato per convincermi che non ha parlato col governatore generale».

Ewing scrollò le spalle. «E a lei cosa interessa, ammesso che sia vero?».

«Se vogliamo essere assolutamente franchi, signor Ewing, la sua presenza sulla Terra ci preoccupa. Intendo dire che preoccupa gli interessi del governo siriano, che io rappresento. Per noi la Terra rappresenta un grosso interesse finanziario. Non vogliamo vedere in pericolo questo investimento».

Ewing era sempre più curioso. «Lei non ha chiarito molto le cose», disse.

«Per dirla in breve, ci chiediamo se lei, come rappresentante di Corwin o forse di una lega delle colonie esterne, abbia o meno progetti di conquista nei confronti della Terra», rispose lei, lentamente. «Adesso sono stata franca. Magari anche troppo. La diplomazia non è il forte di noi siriani. I nostri caratteri razziali ci spingono direttamente al dunque».

«Anche i corwiniti sono fatti così. Forse è un risultato diretto della vita su una colonia. Quindi le risponderò con altrettanta franchezza: non esiste nessuna lega delle colonie esterne, e il fatto che io mi trovi sulla Terra non indica il minimo desiderio di conquiste territoriali».

«Allora perché è venuto?».

Ewing agitò la mano, impaziente. «Stamattina ho già spiegato tutto al suo amico Firnik, appena arrivato al terminal dello spazioporto. Gli ho detto che Corwin corre il pericolo di un’invasione aliena, e che sono venuto sulla Terra in cerca d’aiuto».

«Già, gli ha detto proprio questo. E si aspettava che lui credesse a una storia del genere?».

Esasperato, Ewing urlò: «Accidenti, perché no? È la verità!».

«Dovremmo credere che un individuo intelligente superi cinquanta anni luce solo per chiedere aiuto militare al pianeta più debole e indifeso dell’universo? Poteva pensare a una bugia migliore», ribatté lei, beffarda.

Lui la fissò. «Siamo un pianeta isolato», disse, in tono calmo ma molto intenso. «Non sapevamo nulla dello stato in cui è ridotta la cultura terrestre. Pensavamo che la Terra potesse aiutarci. Ho fatto un viaggio inutile, e domani ripartirò, con qualche idea in più e una tristezza enorme nel cuore. Adesso sono stanco, vorrei dormire. Le spiace andarsene?».

Lei si alzò di colpo, andò a sedersi accanto a lui sul letto. «Va bene», disse, con voce sorprendentemente dolce. «Riferirò a Firnik che lei è qui per i motivi che ha detto a lui».

Quelle parole avrebbero anche potuto stupirlo, ma lui se le aspettava. Era solo un trucco per fargli abbassare la guardia. I metodi dei siriani erano davvero rozzi.

«Grazie», le rispose, sarcastico. «La sua fiducia mi scalda il cuore».

La ragazza gli si avvicinò. «Perché non beve qualcosa con me? Io non penso solo al consolato. Ho una seconda personalità per le ore libere, anche se le sembrerà difficile crederlo».

Ewing avvertì sul suo corpo il calore di lei. Byra si protese, gli versò da bere, costrinse la sua mano riluttante ad accettare il bicchiere. Lui si chiese se Firnik, col suo congegno-spia, stesse osservando quella scena.

Le mani di Byra presero a carezzargli le spalle, massaggiandole dolcemente. La guardò, depresso: aveva gli occhi chiusi e le labbra umide, leggermente socchiuse. Il suo respiro era irregolare. Forse non sta fingendo, pensò. In ogni caso, la cosa non gli interessava.

D’improvviso si staccò da lei, e la ragazza perse quasi l’equilibrio. Spalancò gli occhi. Per un attimo nel suo sguardo brillò un odio allo stato puro, ma lei riprese subito il controllo, assunse l’aria dell’innocente offeso.

«Perché lo ha fatto? Non le piaccio?».

Ewing sorrise freddamente. «La trovo divertente. Ma non mi piace fare l’amore sotto un raggio-spia».

Byra socchiuse gli occhi, piegò le labbra in una smorfia veloce, poi rise: una risata argentina, sarcastica. «Crede che stessi recitando? Che lo stessi facendo solo per la gloria della santa madrepatria?».

Lui annuì. «Sì».

Byra gli tirò uno schiaffo. Una reazione prevedibile; se l’aspettava da che quel "sì" era uscito dalle sue labbra. Dietro lo schiaffo s’intuiva una forza sorprendente. Byra Clork darebbe del filo da torcere a chiunque, decise lui immediatamente. Poi si chiese se per caso non avesse frainteso le sue intenzioni, ma la cosa non faceva nessuna differenza.

«Adesso vuole andarsene?», le chiese.

«Non vedo perché dovrei restare», rispose lei, acida. Poi lo fissò con uno sguardo di fuoco. «Se lei rappresenta il maschio tipico di Corwin, sono felice che qui ne arrivi solo uno ogni cinquecento anni. Macchine! Robot!».

«Ha finito?».

Byra raccolse uno scialle dallo schienale della poltrona, se lo avvolse attorno alle spalle. Ewing non finse nemmeno di volerla aiutare. Impassibile, aspettò a braccia conserte.

«Lei è incredibile», disse la ragazza, per metà delusa, per metà enigmatica. Restò immobile; poi nei suoi occhi si accese una luce. «Per lo meno vuole bere qualcosa con me, prima che me ne vada?».

Era insistente, pensò lui, ma in modo piuttosto goffo. Nell’ultima mezz’ora gli aveva offerto da bere tante volte che solo uno sciocco non avrebbe sospettato che il liquore fosse drogato. Be’, poteva giocare d’astuzia anche lui.

«Va bene», le disse. «Berrò con lei».

Prese il bicchiere che Byra gli aveva riempito, e porse alla ragazza il bicchiere pieno a metà che lei aveva continuato a tenere in mano, senza bere nemmeno un goccio. Poi restò a fissarla.

«Cosa sta aspettando?», gli chiese lei.

«Aspetto che lei beva per prima».

«È ancora pieno di strani sospetti, eh?». Byra alzò il bicchiere alle labbra e bevve. Poi passò il bicchiere a Ewing, prese il suo, e bevve anche da quello.

«Ecco fatto», disse, con un sospiro. «Sono ancora viva. In questi due bicchieri non c’è nessun veleno mortale. Adesso mi crede?».

Lui sorrise. «Questa volta sì».

Continuando a sorridere, alzò il bicchiere. Il liquore era caldo e robusto. Lo sentì scendere giù per la gola. Un istante dopo, gli cedettero le gambe.

Lottò per restare in piedi. La stanza gli girava attorno. Il volto trionfante, sorridente di Byra, chino su di lui, tracciava un’orbita folle. Cadde in ginocchio, afferrò il tappeto per avere un punto d’appoggio.

«Allora era drogato», disse.

«Naturalmente. È una droga che non ha il minimo effetto sul metabolismo siriano. Non eravamo sicuri se coi corwiniti funzionasse. Adesso lo sappiamo».

Ewing strinse il tappeto. La stanza oscillava follemente. Si sentiva male, ed era arrabbiato con se stesso per averle permesso di indurlo a bere. Tentò di non perdere conoscenza, ma non riusciva nemmeno a rimettersi in piedi.

Ancora cosciente, sentì aprirsi la porta della stanza. Non alzò la testa. Udì Byra che diceva: «Avete guardato fino alla fine?».

«Sì». Era la voce di Firnik. «Credi ancora che ci nasconda la verità?».

«Ne sono certa». Il suo era il tono di chi cerca vendetta. «Bisognerà interrogarlo un po’ prima che cominci a parlare».

«Ci penseremo noi», rispose Firnik. Abbaiò un ordine in una lingua incomprensibile a Ewing. Lui cercò di urlare, di chiedere aiuto, ma dalle sue labbra tremanti uscì solo un gemito debole, impercettibile.

«Sta ancora combattendo gli effetti della droga», udì Byra dire. «Ormai dovrebbe metterlo fuori combattimento».

Lo colpirono ondate ribollenti di dolore. Perse la presa sul tappeto, rotolò di fianco. Sentì mani robuste che lo afferravano sotto le ascelle e lo tiravano in piedi, ma i suoi occhi non riuscivano più a vedere. Si agitò debolmente, fu immobile. Le tenebre si chiusero su di lui.

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