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Erano le 14,21 di un caldo pomeriggio di mezza estate su Corwin. Baird Ewing terminò di gettare nell’inceneritore i resti della macchina del tempo che aveva costruito con tanta fatica. Si guardò attorno, rimise al suo posto il piede di porco.

Poi accese l’intercom e disse: «Bene, Laira. L’esperimento è finito. Grazie per il vostro aiuto».

Riappese, risalì le scale, diretto allo studio. Laira era china sul suo libro; Blade fissava, ipnotizzato, lo schermo televisivo. Scivolò alle spalle del ragazzo, lo afferrò con la mano alla nuca, strinse affettuosamente. Poi andò ad alzare il viso di Laira dal visore, le sorrise dolcemente, e uscì senza dire nulla.

Quello stesso pomeriggio, più tardi, si recò allo spazioporto con un mezzo di trasporto pubblico a recuperare la macchina. Era ancora lontano qualche chilometro quando, all’improvviso, si udì il rombo di un’astronave in partenza.

«È un apparecchio militare, di quelli piccoli», disse qualcuno sul bus.

Ewing guardò, attraverso il tetto trasparente dell’autobus, il cielo. Naturalmente non si vedeva nessuna nave. Ormai era già lontana, nel suo lungo viaggio verso la Terra.

Buona fortuna, pensò. E che il volo sia veloce.

L’auto si trovava nel parcheggio riservato. Sorrise all’inserviente, aprì la portiera, salì.

Tornò a casa.

A casa, da Laira e Blade.

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