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La sala da pranzo dell’hotel era sfarzosa, persino troppo. Sfere brillanti di energia luminosa fluttuavano a caso sotto il soffitto a volta, scendendo ogni tanto a livello degli occhi. I tavoli erano tutti sistemati lungo i bordi del locale, mentre al centro, dove il livello del pavimento s’abbassava, un pancromaticon ruotava lentamente, proiettando sulle persone luci multicolori.

Un robot brunito, con la testa a forma di proiettile, era immobile accanto alla porta.

«Ho prenotato», disse Ewing. «Baird Ewing. Stanza 4113».

«Certo, signore. Per di qua, prego».

Ewing seguì il robot lungo tutto il locale, poi su per una rampa di scalini che portava all’orlo più esterno della grande sala, dove c’erano alcuni tavoli liberi. Il robot si fermò di fronte a un tavolo dove sedeva già qualcuno: doveva essere una ragazza siriana, a giudicare dall’aspetto.

Il robot scostò la sedia di fronte alla ragazza. Ewing scosse la testa. «Dev’esserci un errore. Non conosco affatto questa signora. Avevo chiesto un tavolo per uno».

«Chiediamo scusa, signore. A quest’ora non sono disponibili tavoli per uno. Abbiamo chiesto alla signorina seduta qui e lei ci ha detto che non ha obiezioni a dividere il tavolo con lei, sempre che non le dispiaccia».

Ewing fece una smorfia, guardò la ragazza. Lei rispose al suo sguardo, sorridendo. Pareva quasi che volesse invitarlo a sedersi.

Scrollò le spalle. «D’accordo. Resto qui».

«Benissimo, signore».

Ewing si accomodò sulla sedia, lasciò che il robot l’avvicinasse al tavolo. Guardò la ragazza. I suoi capelli erano di un rosso acceso, acconciati in uno stile che su Corwin sarebbe stato giudicato assai poco femminile. Indossava un completo di una strana stoffa purpurea che aderiva al suo corpo, molto scollato alle spalle e sul petto. Gli occhi erano perfettamente neri. Il viso era grosso e robusto, con zigomi protesi in fuori, il che dava ai suoi occhi un bizzarro aspetto a mandorla.

«Mi spiace di averle recato disturbo», disse Ewing. «Non avevo idea che mi avrebbero messo al suo tavolo. Avevo chiesto di cenare da solo».

«Sono stata io a chiederlo», rispose lei. La sua voce era cupa, risonante. «Lei è Ewing di Corwin, se non sbaglio. Io sono Byra Clork. Noi due abbiamo qualcosa in comune. Siamo nati su colonie terrestri».

Ewing si accorse che il suo modo di fare franco, deciso, gli piaceva, anche se in Firnik lo aveva trovato offensivo. «Così sembra», le disse. «Lei è di Sirio, vero?».

«Infatti. Come ha fatto ad accorgersene?».

«Ho tirato a indovinare», rispose Ewing, evasivo. Poi guardò il pannello dei liquori installato contro la parete. «Beve qualcosa?», le chiese.

«Ho già bevuto. Ma lei faccia pure».

Ewing introdusse una moneta e ordinò con la tastiera un cocktail. Il bicchiere uscì da uno sportello girevole della parete. Lo prese, assaggiò: il cocktail era dolce, con uno sgradevole sapore acido in sottofondo.

«Ha detto che è stata lei a richiedere la mia presenza al suo tavolo», disse Ewing. «E conosceva già il mio nome. Come mai?».

«Non succede tutti i giorni che arrivi uno straniero sulla Terra», rispose lei con quella voce assurdamente profonda, cupa, quasi maschile. «Ero curiosa».

«A quanto pare, incuriosisco parecchia gente».

Un robocameriere si fermò al suo fianco. Ewing storse la bocca. «Non ho idea di quale sia la specialità della casa. Signorina Clork, le spiacerebbe consigliarmi qualcosa per cena?».

La ragazza disse al robot: «Portagli quello che ho ordinato io. Selvaggina arrosto, crema di patate, fagiolini verdi».

«Certo», mormorò il robot. Mentre si allontanava, Ewing chiese: «Sono i piatti migliori che fanno?».

«Probabilmente. Di sicuro sono i più cari».

Ewing sorrise. «Lei è generosa coi miei soldi, eh?».

«Mi ha dato carta bianca. E poi lei non dev’essere a corto di denaro. Oggi l’ho vista cambiare una moneta di grosso taglio al banco».

«Ah, mi ha visto!» Lo colpì un’idea. «Per caso, non è stata lei a mandarmi un messaggio oggi pomeriggio?».

«Un messaggio?» Il viso della ragazza denotava una perplessità genuina. «No, non le ho mandato nessun messaggio. Perché?».

«Ne ho ricevuto uno. Mi chiedevo solo chi possa essere l’autore».

Continuò a bere, pensieroso. Qualche minuto dopo arrivò un robot con la loro cena. Il profumo del cibo era forte, buono. Evidentemente non si trattava di roba sintetica, il che spiegava il prezzo.

Per un po’ mangiarono in silenzio. Quando Ewing ebbe divorato quasi tutto quello che aveva nel piatto, si fermò, alzò gli occhi e chiese: «Cosa fa sulla Terra, signorina Clork?».

Lei sorrise. «Lavoro al consolato siriano. Curo gli interessi dei miei compatrioti che vengono a visitare la Terra. È un lavoro molto monotono».

«Ho l’impressione che qui ci siano parecchi siriani», notò Ewing, distrattamente. «Come attrazione turistica, la Terra dev’essere piuttosto popolare sul suo pianeta».

La ragazza parve presa alla sprovvista da quella frase. La sua voce ebbe un attimo d’esitazione. «Sì, è molto popolare. Gli abitanti di Sirio IV adorano trascorrere le vacanze sulla Terra».

«Secondo lei, in questo momento quanti siriani si trovano sulla Terra?».

Questa volta la ragazza sobbalzò. Ewing capì di aver fatto, per puro caso, una domanda che sfiorava un tasto delicatissimo. «E questo perché le interessa, colono Ewing?».

Lui sorrise con aria disarmante. «Curiosità pura e semplice, ecco tutto. Non ho altri motivi».

Lei finse che la domanda non esistesse nemmeno. Attorno a loro, la musica di sottofondo si mischiava al bisbiglio delle conversazioni. La ragazza finì di mangiare, e quando arrivò il dessert disse: «Immagino che Firnik non le abbia fatto una bella impressione».

«Chi?».

«Quel siriano con cui ha parlato oggi. A volte tende a essere irritante. È il mio capo. È vice console siriano a Valloin».

«È stato lui a ordinarle di cenare con me?», chiese improvvisamente Ewing.

Una fiamma si accese negli occhi della ragazza; si spense quasi subito, anche se a malincuore. «Il suo modo di fare è crudele».

«Ma esatto?».

«Sì».

Ewing sorrise, infilò la mano in tasca, tirò fuori il biglietto anonimo che aveva ricevuto, lo spiegò, lo passò alla ragazza. Lei lo lesse senza dimostrare la minima reazione e glielo ritornò.

«È questo il messaggio di cui mi parlava?», gli chiese.

Ewing annuì. «Nel pomeriggio ho ricevuto la visita dell’Accademico Myreck. Diverse ore dopo ho trovato questo biglietto davanti alla mia porta. Forse lo ha scritto il vice console Firnik, eh?».

Lei lo fissò come se tentasse di leggergli nella mente. Ewing intuì che era in corso una misteriosa partita a scacchi, che stava per trovarsi al centro di una ragnatela di complicazioni. Mentre continuavano a guardarsi in silenzio, un robot si avvicinò al tavolo e disse: «Il signor Ewing?».

«Esatto».

«Le porto una comunicazione del direttore dell’hotel».

«Sentiamo».

«Il messaggio è il seguente: abbiamo scoperto un microfono nascosto nella sua stanza, all’intersezione fra parete e soffitto. Il microfono è stato tolto, e nella sua camera abbiamo installato un apparecchio elettronico per impedire che in futuro si possa ripetere un episodio simile. Il direttore le porge le sue scuse più sincere e la prega di accettare il soggiorno gratuito per una settimana nel nostro hotel a parziale risarcimento dei danni che l’incidente può averle causato».

Ewing sorrise. «Digli che accetto, e che la prossima volta stia più attento alle stanze».

Quando il robot se ne fu andato, lui fissò intensamente Byra Clork. «E così», disse, «oggi qualcuno mi ha spiato quando ho ricevuto il mio ospite. È stato Firnik?».

«Lei crede?».

«Sì».

«E allora diciamo che è stato Firnik». La ragazza si alzò. «Le spiace mettere la mia cena sul suo conto? Al momento sono a corto di soldi».

Si girò, s’allontanò. Ewing chiamò un robocameriere e gli disse, divorato dalla fretta: «Le due cene sul mio conto. Ewing, stanza 4113».

Oltrepassò la creatura di metallo, raggiunse la ragazza siriana che era ormai vicina all’uscita della sala da pranzo. La porta a sfintere si dilatò. Lei passò dall’altra parte, e lui la seguì. Emersero in un salone di lusso, pieno di quadri astratti sorprendenti per colori e consistenza. Una forte musica atonale usciva dagli altoparlanti nascosti accanto ai quadri.

La ragazza lo ignorava completamente. Percorse a passo veloce il centro del salone, si fermò davanti a una porta blu-oro. Mentre stava per oltrepassarla, Ewing l’afferrò per il braccio. I suoi bicipiti erano incredibilmente robusti.

Lei si liberò dalla stretta e disse: «Non vorrà venirmi dietro anche qui, signor Ewing!».

Lui lanciò un’occhiata alla targhetta sulla porta. «Sono solo un colono rude, primitivo e ignorante», ribatté, acido. «Se ritengo opportuno entrare qui con lei, entrerò. Tanto vale che si fermi un attimo e provi a rispondere alle mie domande, anziché scappare».

«Mi sa dare un buon motivo?».

«Sì. Il buon motivo è che glielo chiedo io. Lei o Firnik mi avete spiato, oggi pomeriggio?».

«E come faccio a sapere cosa combina Firnik nel tempo libero?».

Ewing le strinse più forte il braccio, e contemporaneamente recitò sottovoce una filastrocca che serviva a tenere su livelli normali il suo metabolismo nei momenti di stress. Il cuore aveva accelerato i battiti. Testardamente, metodicamente, lo costrinse a tornare al solito ritmo.

«Mi fa male», disse la ragazza, in un sussurro roco.

«Voglio sapere chi ha messo quel microfono nella mia stanza e perché mi hanno avvertito di non avere contatti con Myreck».

Byra, con uno scarto improvviso, si liberò dalla stretta. Il suo viso era paonazzo, il respiro rapido e irregolare. A bassa voce gli disse: «Le offro un consiglio gratis, signor Ewing di Corwin. Faccia le valigie e torni sul suo pianeta. Qui sulla Terra troverà solo guai».

«Guai di che tipo?», ribatté lui, implacabile.

«Non dirò una parola di più. Ma mi ascolti: se ne vada il più lontano possibile dalla Terra. Domani. Oggi stesso, se può». Si guardò attorno con aria preoccupata, poi si girò e corse via. Ewing si chiese se fosse il caso di seguirla, ma decise di no. La ragazza gli era sembrata davvero spaventata, come se anche lei temesse guai.

Restò fermo per un attimo davanti a una scultura luminosa, fingendo di ammirare le spirali nere e grigio perla che s’intrecciavano fra loro; in realtà, la scultura era solo un pretesto per raccogliere le idee. La sua mente galoppava. Con uno sforzo, abbassò l’afflusso di adrenalina. Quando tornò a essere calmo, cercò di valutare la situazione.

Qualcuno aveva installato un microfono nella sua stanza. Lo era andato a trovare un terrestre, e una ragazza siriana aveva fatto in modo di cenare con lui. Il numero degli incidenti continuava a salire, ed erano sempre più bizzarri, tanto che gli riusciva difficile inquadrarli in uno schema coerente. Si trovava sulla Terra da meno di quindici ore: certo che lì le cose andavano in fretta.

Su Corwin gli avevano insegnato la teoria della sintesi; era un eccellente estrapolatore. Con la fronte coperta di sudore, si sforzò di trarre dai confusi fatti di quella giornata un tessuto connettivo logico.

Trascorsero i minuti. Terrestri nelle fogge più strane gli passarono accanto a gruppetti di due o di tre, commentando sottovoce le opere esposte nel locale. Ewing, impegnandosi al massimo, riordinò gli avvenimenti. Alla fine, prese forma un quadro generale basato solo su congetture, ma che comunque poteva essergli di aiuto in futuro.

I siriani non avevano intenzioni benevole nei confronti della Terra. Con ogni probabilità volevano fare del pianeta madre un dominio siriano. Partendo da quel presupposto, era ovvio che l’arrivo imprevisto di un colono dallo spazio potesse rappresentare una minaccia ai loro piani.

Ewing capì che nuove ombre oscuravano l’orizzonte. Forse Firnik sospettava che lui volesse cospirare contro i siriani a fianco degli Accademici.

L’invito di Myreck, senza dubbio, aveva lo scopo di trovare in lui un alleato.

In quel caso…

«Il signor Ewing?», disse una voce dolce.

Si girò. Aveva di fronte un robot, alto quanto un uomo, privo di braccia, con un foglio di vetroplastica al posto del viso.

Gli rispose:

«Sì, sono Ewing. Cosa vuoi?».

«Parlo a nome del governatore generale Mellis, capo del governo terrestre. Il governatore generale Mellis richiede la sua presenza a Capitale non appena le sia possibile».

«E come ci arrivo?».

«Se vuole, l’accompagno io», ronzò il robot.

«Certo che voglio. Partiamo subito».

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