Durante il viaggio di ritornò allo spazioporto, si chiusero nel massimo silenzio. Ognuno dei due teneva una mano sul materiale sistemato sul pavimento del taxi. Di tanto in tanto, gli occhi di Ewing incontravano quelli del suo alter ego, e si allontanavano come per vergogna.
Chi tornerà indietro, di noi due?, si chiese. Chi è davvero Baird Ewing? E cosa ne sarà dell’altro?
Allo spazioporto, Ewing requisì un robofacchino, gli passò gli schemi, i quaderni e il modellino che avevano rubato, gli ordinò di sistemarli sulla nave. Fatto questo, i due si fissarono con espressione strana. Era giunto il momento della partenza. Ma chi partiva?
Ewing si grattò il mento, irrequieto, e disse: «Uno di noi deve tornare all’ufficio partenze e dare conferma dei piani di decollo. L’altro…».
«Sì. Lo so».
«Come facciamo a decidere? Lanciamo una moneta?». Ewing voleva disperatamente saperlo.
«Uno di noi torna da Laira e da Blade. E a quanto pare l’altro…».
Inutile dirlo esplicitamente. Il dilemma era insolubile. Ognuno dei due aveva creduto per qualche giorno di essere l’unico Ewing ancora esistente, e ognuno dei due era almeno parzialmente convinto che fosse dovere dell’altro sacrificarsi.
Le luci dello spazioporto ammiccavano follemente. Ewing si sentiva la gola sempre più secca. Quello era il momento della decisione. Ma come decidere?
«Andiamo a bere qualcosa», propose.
L’entrata della sala ristoro era congestionata da una folla di viaggiatori che speravano di bere l’ultimo bicchierino prima della partenza. Ewing ordinò liquore per tutti e due. Fecero un brindisi carico d’amarezza: «A Baird Ewing, chiunque sia».
Ewing bevve, ma il liquore non lo calmò. In quel momento sembrava quasi che l’indecisione dovesse durare per sempre, che sarebbero rimasti sulla Terra per l’eternità, incapaci di decidere chi dovesse tornare con l’arma che avrebbe salvato Corwin e chi dovesse restare lì. Ma, un istante dopo, la situazione mutò radicalmente.
Gli altoparlanti si misero a urlare: «Attenzione, prego! Attenzione! Preghiamo tutti di restare esattamente nel punto in cui si trovano in questo momento!».
Ewing scambiò un’occhiata preoccupata col suo alter ego. La voce che usciva dall’altoparlante riprese: «Non c’è motivo di allarmarsi. Riteniamo che un pericoloso criminale si stia aggirando nella zona dello spazioporto. Potrebbe essere armato. È alto un metro e ottantatré, ha capelli castani, occhi scuri, e indossa abiti di foggia tradizionale. Per favore restate esattamente nel punto in cui vi trovate ora. Sarete avvicinati da agenti del corpo di pace. Tenete pronti i documenti d’identificazione. È tutto».
Uno scoppio improvviso di brusii tra la folla seguì l’annuncio. I due Ewing si ritirarono in un angolo della stanza, si fissarono angosciati.
«Qualcuno ci ha traditi», disse Ewing. «Myreck, forse. Oppure l’uomo che tu hai rapinato. Probabilmente Myreck».
«Non importa chi ci abbia traditi», ribatté seccamente l’altro. «Il fatto importante è che tra un po’ ci saranno addosso. E se scopriranno che esistono due uomini che corrispondono alla descrizione…».
«Myreck deve averli avvertiti che siamo in due».
«No. Non lo farebbe mai. Non crederai che voglia veder distrutta la tecnologia che ci ha creati, vero?».
Ewing annuì. «Sì, hai ragione. Ma se scoprono che siamo in due, che possediamo gli stessi documenti, che siamo una sola persona, ci metteranno in galera. E né tu né io torneremo su Corwin».
«E se trovassero un solo Ewing?», chiese l’altro.
«Ma com’è possibile? Nello spazioporto non possiamo muoverci. E qui non c’è posto per nascondersi».
«Non intendevo questo. Supponiamo che uno di noi due si arrenda volontariamente, che distrugga i suoi documenti d’identità e poi tenti di fuggire. Con tutta la confusione che ne nascerebbe, il secondo Ewing potrebbe tranquillamente partire per Corwin».
Ewing socchiuse gli occhi. Anche lui aveva ideato un piano identico. «Ma chi si arrende? Siamo al solito problema».
«No, non è vero», disse l’altro. «Mi offro volontario».
«No», ribatté subito Ewing. «Non puoi offrirti volontario! Non potrei accettare una cosa del genere. È un suicidio». Scosse la testa. «Adesso non c’è tempo di discutere. Abbiamo un solo modo per decidere».
Si frugò in tasca, tirò fuori una moneta da mezzo credito. La studiò. Su un lato era incisa l’immagine del sole terrestre, coi nove pianeti che gli orbitavano attorno; sull’altro, era incisa la cifra 50 a grandi svolazzi.
«Tiro io», disse Ewing. «Se esce il sistema solare, ti arrendi tu; se esce il 50, io. D’accordo?».
«D’accordo», rispose l’altro, teso.
Ewing appoggiò la moneta sull’unghia del pollice, la lanciò. Con mossa rapida la afferrò mentre era ancora in aria, la depose sul dorso della sinistra. Poi alzò la mano che la copriva.
La cifra 50 e i suoi grandi svolazzi gli si presentarono sotto gli occhi.
Sorrise freddamente. «Tocca a me», disse. Tolse di tasca i suoi documenti e li fece a pezzi. Poi fissò, dall’altra parte del tavolo, il viso pallido, distrutto, dell’uomo che sarebbe diventato Baird Ewing. «Addio. Buona fortuna. E appena arrivi bacia Laira per me…».
Quattro poliziotti siriani entrarono nel bar, presero ad aggirarsi tra la folla. Uno restò di guardia all’ingresso, mentre gli altri tre controllavano i documenti. Ewing si alzò. Adesso si sentiva calmo. In fin dei conti, quello non significava morire. E chi è il vero me, dopo tutto? L’uomo che è morto sotto le torture, o quello che è esploso nell’energitron, oppure quello che sta seduto in un angolo del bar in questo momento? Sono tutti Baird Ewing. La mia personalità non cesserà di esistere. Baird Ewing non morirà… Scomparirà solo uno dei suoi inutili doppi. E così deve essere.
Con calma glaciale, Ewing si fece strada tra gli stupefatti individui che sedevano ai tavoli. Era l’unico a muoversi in tutto il bar, a parte i tre poliziotti che sembravano non essersi ancora accorti di lui. Non si girò a guardare.
La sua mano era lontana solo pochi centimetri dallo storditore che portava al fianco. D’improvviso estrasse l’arma, sparò al poliziotto di guardia all’ingresso. L’uomo gemette e cadde a terra. Gli altri tre poliziotti si girarono di scatto.
Ewing sentì uno che gridava: «Chi sei? Cosa hai intenzione di fare? Non muoverti!».
«Sono l’uomo che cercate», urlò Ewing, con un tono di voce udibile a centinaia di metri di distanza. «Se mi volete, venite a prendermi!».
Si voltò, uscì con un balzo dalla sala ristoro, fu nello spazioporto.
Udì quasi subito il suono dei passi degli inseguitori. Strinse lo storditore, ma non sparò. Un fascio d’energia guizzò sopra la sua testa, abbattendo un pezzo di parete. Sentì un urlo alle sue spalle: «Fermatelo! È lui! Fermatelo!».
Come in risposta a un richiamo magico, cinque poliziotti apparvero al limite estremo della galleria. Ewing ne paralizzò due con lo storditore; poi svoltò di colpo a sinistra, oltrepassò una porta automatica, entrò nell’area riservata dello spazioporto vero e proprio.
Un robot gli si avvicinò di corsa. «Posso vedere il suo lasciapassare, signore? Gli umani non possono entrare in questa zona senza un lasciapassare».
Come risposta, Ewing alzò lo storditore e calcificò le strutture neurali del robot. La macchina, coi girostabilizzatori impazziti, precipitò pesantemente al suolo. Si voltò. I poliziotti stavano convergendo su di lui. Erano dozzine.
«Tu! Arrenditi! Non puoi sperare di sfuggirci!».
Lo so, pensò fra sé e sé. Ma non voglio nemmeno essere preso vivo.
Si appiattì contro un’autobotte piena di carburante, fermò l’avanzata dei poliziotti con numerosi colpi di storditore. Loro risposero al fuoco con parsimonia estrema. Sul campo c’erano apparecchiature molto delicate, e in ogni caso preferivano prendere vivo il loro uomo. Ewing attese finché il poliziotto più vicino non arrivò a una cinquantina di metri da lui.
«Vieni a prendermi», urlò. Poi si girò e si mise a correre sull’immenso campo d’atterraggio.
Il campo d’atterraggio si stendeva per tre o quattro chilometri. Corse agilmente, senza avvertire fatica, a grandi cerchi, fermandosi di tanto in tanto a sparare agli inseguitori. Voleva tenerli a una distanza ragionevole finché. …
Sì. Ora.
Sul campo d’atterraggio scesero le tenebre. Ewing alzò la testa per scoprirne la fonte.
Sopra di lui era sospesa una grande astronave, che scendeva poco per volta, come appesa a una carrucola. I suoi razzi direzionali rombavano, proiettando sul terreno fiamme scarlatte. Ewing, vedendola, sorrise.
Sarà una cosa veloce, pensò.
Udì le urla di stupore dei poliziotti. All’abbassarsi della nave sul campo d’atterraggio, indietreggiarono. Ewing si lanciò in un cerchio sempre più ampio, cercando mentalmente di calcolare l’orbita del velivolo che scendeva.
Sarà come cadere sul sole. Un caldo enorme, veloce.
Scoprì il punto in cui sarebbe atterrata la nave. Sentì un calore improvviso. Ormai si trovava nell’area di pericolo. Corse avanti, verso quell’aria che ribolliva. Per Corwin, pensò. Per Laira. E per Blade.
«Idiota! Si farà uccidere!», urlò qualcuno, lontanissimo. Vampate di gas incandescente lo avvolsero; sentì il rombo gigantesco della nave. Poi lina luce sterminata gli esplose attorno, e in un microsecondo scomparvero coscienza e dolore.
L’astronave toccò il suolo.
Nel terminal, gli altoparlanti annunciarono: «Attenzione, prego. Vi ringraziamo per la vostra collaborazione. Il criminale è stato individuato e non costituisce più una minaccia per la società. Potete riprendere le vostre attività. Vi ringraziamo di nuovo per la vostra collaborazione a questa operazione di polizia, e speriamo di non avervi causato danni o ritardi».
Nel bar del terminal, Ewing fissò senza parole i due bicchieri sul tavolo, col liquore bevuto solo a metà: il suo, e quello dell’uomo che era morto. Con un gesto improvviso, brusco, versò nel suo bicchiere il liquore contenuto nell’altro, fece un brindisi e bevve a grandi sorsate. Il liquore forte scese nel suo stomaco, caldissimo.
Cosa bisognerebbe dire e pensare e fare, si chiese, quando un uomo sacrifica la propria esistenza per farti fuggire? Niente. Non si può nemmeno dire "grazie". Non sarebbe di buon gusto, non credi?
Aveva osservato l’intera scena dalla finestra panoramica del bar: l’inseguimento disperato, la caccia spietata, lo scambio di colpi. Si era accorto, atterrito, che una nave di linea stava scendendo, che era già inserita nell’orbita d’atterraggio, che non avrebbe potuto fermarsi nemmeno se sul campo si fosse trovato un intero reggimento.
Anche attraverso la vetrata affumicata della finestra, l’improvvisa esplosione di luce gli aveva ferito le retine. E per tutti gli anni che gli restavano da vivere avrebbe portato con sé l’immagine della minuscola figura di un uomo che, senza il minimo timore, correva sotto i getti dell’astronave, svaniva all’improvviso in un fiume di fiamme.
Si alzò. Si sentiva stanchissimo, debolissimo. Non era certo nello stato d’animo di chi è finalmente libero di tornare alla sua casa, a sua moglie, a suo figlio. La missione stava per risolversi in un successo completo, ma non provava la minima soddisfazione. Troppi uomini avevano rinunciato alla vita, ai loro sogni, per rendere possibile quel successo.
Trovò chissà come l’ufficio partenze, presentò i moduli che un se stesso ormai morto aveva compilato ore prima. «La mia nave si trova alla zona di decollo undici», disse al robot. «Sarei dovuto partire alle 17 di oggi pomeriggio, ma in seguito ho cambiato i piani di volo».
Aspettò torpidamente che il robot controllasse tutto, gli presentasse altri moduli da riempire, e alla fine lo indirizzasse al campo di decollo. Lì gli venne incontro un altro robot, che lo condusse alla nave.
La sua nave. Che poteva essere partita per Corwin cinque ore prima, con un altro pilota.
Ewing scrollò le spalle, tentò di respingere quella nube di tristezza. Se la nave avesse decollato prima con l’altro Ewing, la sua missione si sarebbe risolta in un fallimento. Cinque ore di differenza significavano moltissimo, nell’economia dell’universo.
E poi era idiota pensare che qualcuno fosse scomparso. Chi era morto? Baird Ewing? Io sono ancora vivo, pensò. Quindi, chi è morto?
Salì sulla nave, si guardò attorno. Era tutto pronto per la partenza. Fece una smorfia. L’altro Ewing, se non sbagliava, gli aveva detto di aver inviato un messaggio a Corwin, probabilmente per informare le autorità del pianeta che stava tornando a mani vuote. Mise in funzione il comunicatore subeterico, inviò un nuovo messaggio. Disse di non tener conto della comunicazione precedente: la situazione aveva subito nuovi sviluppi. Tornava su Corwin con quella che poteva essere l’arma della loro salvezza.
Chiamò la torre di controllo centrale e chiese il permesso di decollare entro dodici minuti. Aveva tutto il tempo necessario. Accese il pilota automatico, si svestì, s’immerse nel bagno nutritivo.
Con un gesto veloce dei piedi mise in funzione l’animazione sospesa. Aghi gli morsero il corpo; la temperatura cominciò a scendere. Dall’apparecchio sopra di lui scese una ragnatela di schiuma, avviluppandolo in un manto che lo avrebbe protetto dagli effetti del decollo ad alta accelerazione.
Le droghe gli intorpidirono il cervello. Avvertì vagamente un brivido mentre la temperatura scendeva precipitosamente sotto lo zero. Più tardi, appena lui si fosse addormentato, sarebbe scesa molto di più. Aspettò pigramente che il sonno lo avvolgesse.
Quando l’astronave decollò, la sua coscienza funzionava al livello minimo. Si accorse appena che la nave si era alzata dalla Terra. Prima che finisse l’accelerazione, era immerso in un sonno totale.