Con dita incerte Ewing spense il pilota automatico e disattivò l’unità di sospensione. Chiamò la torre di controllo, e con voce tremante annunciò che per il momento rinunciava ai piani di volo e tornava nel terminal. Poi si rivestì, e quando la robomacchina lo venne a prendere era pronto.
Con l’altro Ewing si era accordato di trovarsi in sala ristoro, dove aveva parlato per la prima volta con Firnik subito dopo l’arrivo sulla Terra. Quando entrò, fu investito dal bisbiglio discreto delle conversazioni. I suoi occhi, come attirati da una calamita, si posarono sull’uomo alto, ben vestito, che stava seduto a un tavolo sul fondo del locale.
Lo raggiunse e sedette a sua volta, senza che l’altro gli dicesse niente. L’uomo al tavolo gli rivolse un sorriso: freddo, deciso, lo stesso sorriso che avrebbe usato lui in una situazione simile. Si leccò le labbra. Si sentiva stordito.
Disse: «Non so proprio da dove cominciare. Chi sei?».
«Te l’ho già detto. Sono te. Sono Baird Ewing».
L’accento, il tono, il sorriso sardonico. Corrispondeva tutto. Ewing ebbe la sensazione che la stanza gli turbinasse attorno. Fissò negli occhi la sua immagine speculare all’altro lato del tavolo.
«Pensavo che fossi morto», disse Ewing. «Il messaggio che mi hai lasciato…».
«Non ti ho lasciato nessun messaggio», lo interruppe immediatamente l’altro.
«Alt». Quella conversazione si svolgeva in un mondo d’incubo. Ewing si sentiva soffocare. «Sei stato tu a salvarmi da Firnik, no?».
L’altro annuì.
«Poi mi hai riportato all’hotel, mi hai messo a letto e hai dettato un messaggio per spiegarmi tutto. Terminavi dicendo che avevi intenzione di scendere a suicidarti nella cabina dell’energitron…».
Gli occhi sbarrati per la sorpresa, l’altro disse: «No, niente affatto! Ti ho riportato all’hotel e me ne sono andato. Non ho lasciato nessun messaggio, non ho detto che volevo suicidarmi».
«Non mi hai lasciato soldi? Nemmeno lo storditore?».
L’uomo davanti a lui scosse la testa con veemenza. Ewing chiuse gli occhi per un momento. «Se quel biglietto non l’hai dettato tu, chi è stato?».
«Parlami del biglietto», disse l’altro.
Ewing gli riassunse in breve, per quanto ricordava, il contenuto del messaggio. L’altro restò ad ascoltarlo, tamburellando con le dita sul tavolo ai punti più importanti. Quando Ewing ebbe terminato, l’altro aggrottò le sopracciglia, perso nei suoi pensieri. Alla fine disse: «Ora capisco. Eravamo quattro».
«Cosa?».
«Te lo spiegherò per gradi. Io sono il primo di noi a cui è successa tutta questa storia. All’inizio si è verificato un paradosso a circolo chiuso, come è inevitabile trattandosi di una distorsione temporale: c’ero io prigioniero in quella camera di tortura, e c’era un io futuro che è venuto a salvarmi. Nel continuum si sono verificate quattro fratture diverse, portando alla creazione di un Ewing che è morto sotto le torture di Firnik, di un Ewing che ha salvato l’Ewing sotto tortura e ha lasciato un messaggio e si è suicidato, di un Ewing che ha salvato l’Ewing sotto tortura e non si è suicidato, e di un Ewing che è stato salvato e non è tornato indietro a salvare se stesso, spezzando così la catena. Due di questi Ewing sono ancora vivi. Il terzo e il quarto. Tu e io».
Calmissimo, Ewing disse: «Sì, la cosa ha senso, per quanto sembri impossibile. Ma così ci troviamo con un Baird Ewing in più, no? Dopo che hai salvato il primo Ewing, perché hai deciso di restare in vita?».
L’altro scrollò le spalle. «Non potevo rischiare di uccidermi. Non sapevo cosa sarebbe successo».
«E invece lo sapevi», lo accusò Ewing. «Sapevi che l’Ewing che avevi salvato non sarebbe morto. Potevi lasciargli un messaggio, ma non l’hai fatto. Per cui lui è stato costretto a ripetere tutto, ha lasciato un messaggio a me, e si è tolto di mezzo».
L’altro uscì in una smorfia incerta. «Forse rappresentava un lato della nostra personalità più coraggioso di quanto non sia io».
«Com’è possibile? Siamo la stessa persona!».
«Vero». L’altro ebbe un sorriso triste. «Ma un essere umano è qualcosa di molto complicato. La vita non è una successione di eventi ben definiti; è un continuo procedere da una decisione all’altra. Le radici della mia decisione si trovavano nel proto-Ewing, e in lui si trovavano anche le basi del suicidio. Io ho compiuto una scelta; lui un’altra. E io sono qui».
Ewing capì che era impossibile adirarsi. L’uomo che aveva di fronte era se stesso, e conosceva sin troppo bene il nodo di contraddizioni interne, di forze e debolezze, che era Baird Ewing; come ogni altro essere umano, del resto. Non era certo il momento di ergersi a giudice. Però si profilavano gravi problemi.
«E adesso cosa facciamo?», chiese. «Intendo tutti e due».
«Ti ho richiamato giù dalla nave per un buon motivo. E non semplicemente perché non volevo essere abbandonato sulla Terra».
«Di che si tratta?».
«La macchina del tempo di Myreck può salvare Corwin dai Klodni», rispose l’altro Ewing, imperturbabile.
Ewing tentò di assorbire l’informazione. «E come?».
«Stamattina sono andato a trovare Myreck. Mi ha accolto a braccia aperte. Ha detto che era felicissimo che fossi tornato a dare un’occhiata alle sue macchine. È stato allora che ho capito che tu avevi trascorso il pomeriggio di ieri lì e non ti eri rituffato nel passato». Scosse la testa. «Eppure ci contavo, sai? Speravo di essere l’unico Ewing ad aver preso un altro cammino sul sentiero del tempo, mentre gli altri avrebbero dovuto continuare a inseguirsi all’infinito tra quartodì e secondodì. Ma tu hai interrotto la sequenza, hai rovinato tutto».
«Tu hai rovinato tutto», esclamò Ewing. «Tu non dovresti essere vivo».
«E tu non dovresti esistere oggi che è quintodì».
«Litigare non serve a niente», disse Ewing, più calmo. «Hai detto che la macchina dei terrestri può salvare Corwin. Come?».
«Ci stavo arrivando. Stamattina Myreck mi ha mostrato tutti i possibili usi della macchina. Si può trasformare in un proiettore che invia sul mondo esterno un raggio capace di scaraventare nel passato oggetti d’ogni dimensione».
«La flotta dei Klodni», disse subito Ewing.
«Esatto! Installiamo il proiettore su Corwin e aspettiamo che arrivino i Klodni, poi li rispediamo indietro di cinque miliardi di anni o giù di lì, in un viaggio di sola andata!».
Ewing sorrise. «E io che stavo per scappare. Stavo tornando a casa proprio mentre tu scoprivi queste cose».
L’altro scrollò le spalle. «Non avevi nessun motivo di sospettarle. Non ti sei mai fatto dimostrare praticamente come funziona la macchina. Io sì, e ho immaginato che qualcosa del genere fosse possibile. D’altronde l’hai intuito anche tu».
«Io?».
«Appena Myreck ti ha detto che la loro macchina è in grado di dominare il tempo, ti è venuta l’idea che un’ipotesi simile non fosse del tutto assurda. Però te ne sei dimenticato. Io no».
Era spaventoso sedere di fronte a un uomo che conosceva ogni suo pensiero, ogni segreto più nascosto, dall’infanzia sino a un punto situato tre giorni prima nel Tempo Assoluto. Dopo di allora, naturalmente, le loro esistenze divergevano come se fossero stati due estranei.
«Quindi cosa proponi di fare?», chiese Ewing.
«Torniamo da Myreck. Gli strappiamo i piani per costruire la macchina. Poi torniamo qui di corsa, saliamo sulla nave…».
Gli mancò la voce. Ewing fissò freddamente il suo alter ego e disse: «Sì? E poi? Sto aspettando».
«Sulla nave… Sulla nave può salire un solo passeggero, vero?», chiese l’altro debolmente.
«Sì», rispose Ewing. «È maledettamente vero. Quando avremo rubato i piani, come facciamo a decidere chi torna su Corwin e chi resta qui?».
Sapeva che l’espressione angosciata dell’altro era identica alla sua. Si sentiva male, e sapeva che l’altro avvertiva la stessa inquietudine. Provava la frustrazione di qualcuno che, guardandosi allo specchio, tenti disperatamente di fare un gesto che non venga imitato dall’immagine imprigionata nel vetro.
«A questo ci penseremo dopo», disse l’altro Ewing, incerto. «Per prima cosa facciamoci consegnare i piani di costruzione da Myreck. Poi avremo tutto il tempo di risolvere gli altri problemi».
Presero un taxi a guida robotica, partirono verso il quartiere periferico dove sorgeva l’Università di Scienze Astratte. Lungo strada, Ewing si girò verso l’altro e disse: «Come facevi a sapere che stavo ripartendo per Corwin?».
«Non lo sapevo, in effetti. Appena ho scoperto da Myreck che tu esistevi e che la sua macchina può salvare il nostro pianeta, sono tornato all’hotel. Sono salito alla tua stanza, ma la piastra d’identificazione non ha reagito, eppure la porta era programmata per la mia, per la nostra identità. Così sono sceso, ho chiamato l’impiegato dall’atrio e ho chiesto di te. Mi hanno detto che avevi saldato il conto e ti eri avviato verso lo spazioporto. Ti ho seguito, e sono arrivato appena in tempo».
«E se io avessi rifiutato di scendere dalla nave, d’incontrarti?», gli chiese.
«Sarebbe stato un grosso guaio. Avrei sostenuto che io sono Ewing e che tu mi stavi rubando la nave, il che in un certo senso è vero. Avrei chiesto che controllassero a fondo i miei documenti. Ovviamente avrebbero scoperto che io sono Ewing, e si sarebbero chiesti chi diavolo sia tu. Ci sarebbe stata un’indagine ufficiale, non ti avrebbero lasciato partire. Ma in ogni caso avremmo corso dei rischi, sia che avessero scoperto che esistono due Ewing, sia che tu avessi ignorato i loro ordini e fossi partito lo stesso. Ti avrebbero messo alle calcagna un intercettatore, e non so proprio come sarebbe andata a finire».
Il taxi fermò davanti all’isolato vuoto che era l’Università di Scienze Astratte. Ewing lasciò pagare la corsa al suo alter ego. Scesero.
«Aspettami qui», disse l’altro. «Mi metterò all’interno del campo del loro individuatore e aspetterò che aprano. Tu aspetta dieci minuti, poi seguimi».
«Non ho orologio», ribatté Ewing. «Me l’ha preso Firnik».
«Ti dò il mio», disse l’altro, impaziente. Slacciò il cinturino e gli passò l’orologio. Sembrava un modello costoso.
«Dove l’hai trovato?», chiese Ewing.
«L’ho rubato a un terrestre, assieme a cinquecento crediti circa, terzodì mattina. Tu… No, non tu, l’Ewing che più tardi è venuto a salvarti dormiva nella nostra stanza all’hotel, quindi ho dovuto cercare un altro rifugio. E dopo aver comperato la maschera e lo storditore mi restavano appena una decina di crediti».
I dieci crediti che qualcuno ha lasciato a me, pensò Ewing. I paradossi si moltiplicavano. La cosa migliore da fare era ignorarli.
L’orologio gli disse che erano le 18,50 di quintodì. Ewing restò a guardare il suo gemello che traversava la strada verso lo spazio vuoto, vagabondava apparentemente senza meta, e all’improvviso svaniva. L’Università di Scienze Astratte lo aveva risucchiato.
Ewing aspettò che passassero i minuti. Il tempo scorreva lentissimo. Cinque… sei… sette.
All’ottavo minuto, s’incamminò verso lo spazio vuoto con quella che sperava sembrasse l’aria più indifferente del mondo. Al nono minuto si trovava solo a pochi metri dai confini dell’isolato. Si sforzò di restare immobile, di lasciar trascorrere l’ultimo minuto. Lo storditore era appeso al suo fianco. Anche l’altro Ewing portava un’arma, perfettamente identica alla sua.
A nove minuti e quarantacinque secondi riprese a camminare verso lo spazio vuoto. Arrivò nel punto previsto esattamente all’inizio del decimo minuto. Si guardò attorno come aveva fatto l’altro Ewing, e di nuovo si sentì trasportare da adesso a adesso meno tre microsecondi. Svanì improvvisamente dal mondo esterno e si ritrovò dentro l’Università di Scienze Astratte.
Gli si presentò una scena bizzarra. L’altro Ewing, con le spalle rivolte alla parete, aveva estratto lo storditore e lo aveva regolato sulla potenza minima. Lo teneva puntato contro sette o otto membri dell’Università, pallidissimi, coi visi stravolti dalla paura. Nessuno di loro era in grado di reagire.
Ewing incontrò gli occhi accusatori dell’Accademico Myreck, che lo aveva fatto entrare.
«Grazie per aver accolto mio… ehm… fratello», disse l’altro Ewing. Per un attimo, i due Ewing si fissarono. Negli occhi dell’altro Ewing lesse un rimorso profondo, e capì che quell’uomo era molto, infinitamente di più di un fratello, di un semplice gemello. Gli abissi delle loro anime erano identici.
«Ci spiace enormemente», disse a Myreck. «Credeteci, è un gesto che ci causa un dolore immenso».
«Ho già spiegato per quale motivo siamo qui», disse l’altro Ewing. «Giù ci sono un modellino in scala e un’intera serie di schemi, più diversi quaderni di analisi teorica. Un uomo da solo non ce la farebbe a portare via tutto».
«I quaderni sono in copia unica», disse Myreck piano, con una voce piena d’amarezza.
«Li conserveremo con ogni cura», promise Ewing. «Ma noi ne abbiamo più bisogno di voi. Credeteci».
L’altro Ewing disse: «Tu resta qui e tienili sotto tiro. Io scendo con Myreck a prendere tutto quello che ci serve».
Ewing annuì, estrasse la pistola, si portò con le spalle al muro, puntando l’arma sugli sfortunati terrestri. Trascorsero cinque minuti prima che il secondo Ewing e Myreck tornassero. Portavano carte, quaderni, e un modellino che doveva pesare almeno venti chili.
«È tutto qui», disse l’altro. «Myreck, adesso interromperai il campo di fase temporale e mi farai uscire dall’edificio. Mio fratello vi terrà sotto tiro. Non cercate di fare scherzi».
Dieci minuti dopo, tutti e due gli Ewing si trovavano all’esterno dell’Università di Scienze Astratte.
Il loro bottino, nell’insieme, era alto quasi quanto loro.
«È stato terribile», disse Ewing.
L’altro annuì. «Ho sofferto anch’io. Sono così gentili…
«È un modo mostruoso di ripagare la loro ospitalità. Ma quel proiettore ci è indispensabile, se vogliamo salvare quello che abbiamo di più caro».
«Sì», rispose Ewing, in tono teso. «Ciò che tutti e due abbiamo di più caro». Scosse la testa: stavano per iniziare i guai veri.
«Forza», disse, gettando un’occhiata allo spazio vuoto alle loro spalle. «Andiamocene. Dobbiamo caricare tutta questa roba sulla nave».