16

Le ore passarono, ed Ewing dormì. Le ore si trasformarono in giorni, in settimane, in mesi. Undici mesi, dodici giorni, sette ore e mezzo. Ewing continuò a dormire mentre la sua navicella compiva il viaggio di ritorno.

Giunse il momento. La nave uscì dall’iperspazio quando gli strumenti di rilevazione indicarono che il viaggio era terminato. Il computer, automaticamente, inserì la nave in un’orbita fissa attorno al pianeta. L’unità di animazione sospesa si disattivò. Poco per volta la temperatura tornò normale, e un ago s’infilò nel fianco di Ewing, svegliandolo.

Era a casa.

Non appena furono cessati gli effetti più immediati del lungo sonno, Ewing si mise in contatto con le autorità. Chino sull’apparecchio di comunicazione, mentre sullo schermo appariva l’immagine blu, deliziosa, del suo pianeta, attese.

Dopo un attimo, giunse la risposta. «Edificio Mondiale, Corwin. Abbiamo ricevuto la sua chiamata. Identificazione, prego».

Ewing rispose con la serie di codici simbolici che, anni prima, erano stati scelti come sua identificazione. Li ripeté tre volte, affidandosi alla memoria.

Gli giunsero subito i segnali di ricezione, e poi la stessa voce disse: «Ewing? Finalmente!».

«Sono passati appena un paio d’anni, no? Le cose non dovrebbero essere cambiate troppo».

«No. Non troppo».

In quella voce si avvertiva una tensione sotterranea, inspiegabile; ma lui non tirò in lungo la conversazione. Trascrisse le coordinate che gli trasmettevano, le integrò e le inserì nel computer, ed eseguì l’atterraggio.

Scese allo spazioporto di Broughton, a venticinque chilometri di distanza dalla capitale di Corwin, Broughton. L’aria era fresca, deliziosa. Conteneva quella percentuale in più d’ossigeno che gli era mancata sulla Terra. Sceso dalla nave, aspettò che lo venissero a prendere. Ammirò l’arco azzurro del cielo, disseminato di nubi, e il magnifico filare di alberi Imperatore, ognuno alto più di duecento metri, che costeggiavano il campo d’atterraggio. Sulla Terra non esistevano alberi paragonabili a quelli.

Arrivò un automezzo. Un inserviente, sorridendo, gli disse: «Bentornato, signor Ewing!».

«Grazie», rispose lui, salendo. «È bello essere di nuovo a casa».

Al terminal lo attendeva una delegazione radunata in fretta. Riconobbe il presidente Davidson, tre o quattro membri del Consiglio, qualcuno dell’università. Si guardò attorno, chiedendosi come mai Laira e suo figlio non erano venuti a porgergli il benvenuto.

Poi li vide. Erano con alcuni suoi amici, in fondo al gruppo di autorità. Si fecero avanti. Laira aveva un sorriso strano sulle labbra, Blade fissava senza capire bene un uomo di cui probabilmente non ricordava nulla.

«Ciao, Baird», disse Laira. La sua voce era più acuta di quanto non ricordasse, e lei sembrava più vecchia dell’immagine mentale che portava con sé. I suoi occhi erano più scavati, il viso più magro. «È meraviglioso riaverti qui. Blade, saluta tuo padre».

Ewing guardò il ragazzo. Era cresciuto, si era smagrito. Il bambino di otto anni che aveva lasciato lì al momento della sua partenza era diventato un ragazzo di quasi undici anni. Blade guardò, incerto, suo padre. «Ciao… Papà».

«Ciao, Blade!».

Sollevò il ragazzo da terra, lo lanciò in aria, lo riprese al volo, lo rimise giù. Poi si girò verso Laira e la baciò. Ma quei saluti erano stranamente freddi. Lo tormentava un pensiero strano: Sono davvero Baird Ewing? Sono io l’uomo che è cresciuto su Corwin, ha sposato questa donna, ha costruito la mia casa, ha procreato questo ragazzo? Oppure Ewing è morto sulla Terra, e io sono solo un doppione identico all’originale?

Era un’idea che avrebbe distrutto chiunque. Capì che era inutile tormentarsi per quello: aveva il corpo di Baird Ewing, i suoi ricordi e la sua personalità. E un uomo di cos’è fatto, se non della propria esistenza fisica e della tenue Gestalt di ricordi e pensieri che qualcuno chiama anima? Io sono Baird Ewing, si ripeté, per tacitare i dubbi che gli nascevano dentro.

Lo stavano fissando tutti. Sperò che i suoi turbamenti non si manifestassero all’esterno. Si girò verso il presidente Davidson e chiese: «Avete ricevuto i miei messaggi?».

«Tutti e tre… Erano solo tre, vero?».

«Sì», rispose Ewing. «Mi spiace per gli ultimi due…».

«Credimi, quando hai inviato quel messaggio per dire che tornavi qui senza aver trovato niente siamo rimasti tutti scombussolati. Contavamo molto su di te, Baird. E poi, nel giro di quattro ore appena, è arrivata la seconda comunicazione…».

Ewing sorrise, finse una sicurezza che non sentiva. «Ho trovato qualcosa all’ultimo minuto. Qualcosa che può salvarci dai Klodni». Si guardò attorno, incerto. «Quali sono le ultime notizie? Come va coi Klodni?».

«Hanno conquistato Borgman», rispose Davidson. «Adesso è il nostro turno. Manca un anno, dicono. Hanno cambiato direzione dopo Lundquist…».

«Hanno assoggettato anche Lundquist?», lo interruppe lui.

«Sia Lundquist che Borgman. Ormai hanno distrutto sei pianeti. E Corwin è il prossimo».

Ewing scosse la testa, lentamente. «No, questo non è vero. Adesso sono loro che devono difendersi da noi. Dalla Terra ho riportato qualcosa con me, e non piacerà ai Klodni».

Quella sera si presentò al Consiglio. Gli avevano concesso di trascorrere il pomeriggio a casa, di riprendere contatto con la famiglia, di iniziare a colmare il distacco creato da due anni di lontananza.

Portò con sé i quaderni, gli schemi e il modellino che aveva rubato a Myreck. Spiegò nei minimi dettagli come intendeva sconfiggere i Klodni. Non appena ebbe finito, si scatenò la tempesta di domande.

Jospers, il rappresentante delle regioni del nord, uscì immediatamente in un’esclamazione: «Viaggi nel tempo? Impossibile!».

Altri quattro membri del Consiglio fecero eco alle sue perplessità. Il presidente Davidson chiese il silenzio. Ewing si mise a urlare più forte degli altri. «Signori, non vi chiedo di credere a ciò che vi ho detto. Voi mi avete inviato sulla Terra in cerca d’aiuto, e io l’ho trovato».

«Ma è incredibile che lei ci venga a raccontare…».

«La prego, signor Jospers. Questa macchina funziona».

«E lei come fa a saperlo?».

Ewing trasse un profondo respiro. Avrebbe preferito non rivelare quel particolare. «L’ho sperimentata», rispose. «Sono tornato indietro nel tempo. Mi sono trovato a parlare con me stesso. Non dovete credere nemmeno a questo. Potete restarvene qui a starnazzare come tante oche, lasciare che i Klodni ci distruggano come hanno distrutto Barnholt e Borgman e Lundquist, come distruggeranno tutte le altre colonie in questa zona dello spazio. Però io vi dico che il mio metodo di difesa funziona».

Davidson, tranquillo, chiese: «Dicci un po’, Baird. Quanto costerà questa tua… ehm… arma, e quanto tempo ci vorrà?».

Ewing rifletté un attimo sulla domanda. «Direi che, per far funzionare la macchina sulla scala che ci serve, occorreranno da sei a otto mesi di lavoro pieno da parte di un gruppo di tecnici specializzati. E credo proprio che la spesa non possa essere inferiore a tre milioni di stellor».

Jospers balzò immediatamente in piedi. «Tre milioni di stellor! Signori, vi chiedo…».

Non riuscì mai a fare la sua domanda. In un tono che non ammetteva interruzioni, Ewing disse: «Sono io che vi chiedo, signori, quanto pensate che valga la vostra vita, anche se poi la trascorrete a dire idiozie. Che importanza ha il costo dell’impresa? Tra un anno i Klodni arriveranno, e tutti i vostri piani economici non avranno più la minima importanza. A meno che non abbiate un altro piano per sconfiggerli, è ovvio».

«Tre milioni di stellor rappresentano il venti per cento del bilancio annuale», fece notare Davidson. «Se per caso la tua macchina si dimostrasse inutile…».

«Ma non capite?», urlò Ewing. «Non ha nessuna importanza! Se la mia macchina non funzionasse, non dovrete mai più preoccuparvi di questioni economiche!».

Era un argomento a prova di bomba. Mugugnando, Jospers diede la sua approvazione, e a quel punto l’opposizione crollò. Si decise di costruire la macchina che Ewing aveva trovato sulla Terra. Non c’era scelta. L’ombra della flotta Klodni si proiettava sempre più lunga sulle stelle, e non esistevano altre armi. Nulla che fosse a loro conoscenza poteva arrestare l’avanzata degli alieni.

Forse, una macchina sconosciuta ci sarebbe riuscita.


Ewing aveva sempre amato molto la propria privacy, ma ormai per lui la privacy non esisteva più. La sua casa doveva necessariamente essere aperta di continuo a tutti. Ministri e altri uomini politici giungevano ininterrottamente a discutere con lui il nuovo progetto. Gli studiosi dell’Università volevano informazioni sulla Terra. Innumerevoli editori chiesero a Ewing di scrivere qualcosa per loro; riviste e compagnie televisive lo pregarono di vendere le sue memorie.

Rifiutò ogni offerta. Non gli interessava sfruttare per la propria ricchezza il viaggio sulla Terra.

Trascorreva quasi tutto il tempo nel laboratorio che gli avevano assegnato a Broughton nord, a supervisionare la costruzione del proiettore temporale. Ewing non possedeva conoscenze scientifiche specifiche; il lavoro vero e proprio era sotto il controllo di un gruppo di tecnici dell’Università. Ma lui li aiutava con suggerimenti e contributi teorici, basati sulle conversazioni con Myreck e sulla propria esperienza personale del fenomeno del viaggio nel tempo.

Trascorsero le settimane. A casa, la vita familiare era tesa, irrequieta. Laira era quasi un’estranea, per lui. Le raccontò quel poco che poteva del soggiorno sulla Terra, ma sin dall’inizio aveva deciso di tenere sempre per sé la verità sui suoi viaggi nel tempo, per cui i suoi racconti erano schematici, parziali.

In quanto a Blade, si riabituò alla presenza del padre. Ma Ewing non si trovava a proprio agio con nessuno dei due. Forse non appartenevano realmente a lui; e, per quanto l’idea fosse assurda, non riusciva ad accettare sino in fondo la realtà della propria esistenza.

C’erano stati altri Ewing. Era assolutamente convinto di essere lui il primo dei quattro, e che gli altri fossero solo semplici duplicati, ma non poteva esserne del tutto certo. E due di quei duplicati si erano sacrificati perché lui potesse tornare su Corwin.

Continuava a pensare a loro, a Myreck, alla Terra, quella Terra che ormai doveva essere un protettorato siriano, quella Terra che aveva mandato nello spazio i suoi figli più coraggiosi e si era ritrovata priva d’ogni energia.

Vide immagini della devastazione operata su Lundquist e Borgman. Lundquist era un mondo di piaceri, un pianeta che attirava turisti da una dozzina di mondi per le sue case da gioco, per i meravigliosi giardini, luminosi e radianti. Le immagini mostravano le torri snelle delle città di sogno di Lundquist che cadevano sotto le armi spietate dei Klodni. Brutali, insensibili, i Klodni avanzavano.

Navi da ricognizione li tenevano sotto controllo. Al momento la loro flotta era ferma su Borgman. Se continuavano a seguire il solito percorso irregolare, sarebbe trascorso quasi un anno prima che uscissero dal sistema di Borgman per attaccare Corwin. E un anno era sufficiente.

Ewing contava i giorni che passavano. La struttura conica del proiettore temporale prendeva forma lentamente, grazie agli sforzi dei tecnici che procedevano nel lavoro servendosi degli schemi di Myreck. Nessuno chiese mai come sarebbe stata impiegata esattamente l’arma. Ewing aveva specificato che doveva essere installata su un’astronave, e di ciò si tenne conto nel progettarla.

Di notte, lo tormentava di continuo il ricordo dell’Ewing che si era lanciato sotto il fuoco incandescente di un’astronave in atterraggio. Poteva succedere a me, pensava. Mi ero offerto volontario. Ma lui ha voluto lanciare la moneta.

E c’era stato un altro Ewing, altrettanto coraggioso, che non aveva mai incontrato. L’uomo che aveva fatto tutto ciò che era necessario per rendersi superfluo, dopo di che, in tutta calma e semplicità, si era ucciso.

Io non ho fatto niente del genere. Ho immaginato che gli altri sarebbero rimasti per sempre prigionieri della ruota del tempo, che io solo mi sarei salvato. Però non è andata così.

Lo ossessionava anche lo sguardo d’accusa di Myreck, quando i due uomini identici di Corwin avevano derubato l’Università dei suoi segreti e abbandonato la Terra al proprio destino. Anche per quello aveva trovato una spiegazione razionale: non avrebbe potuto fare nulla per aiutarli. La Terra era prigioniera dei suoi figli tornati dallo spazio.

Alla fine Laira gli disse che era cambiato, che dopo il viaggio sulla Terra era diventato acido, irascibile.

«Non capisco proprio, Baird. Eri un tipo così dolce, così… umano. E adesso sei diverso. Sei freddo, chiuso in te stesso, sempre preso nei tuoi pensieri». Gli sfiorò dolcemente il braccio. «Non puoi raccontarmi tutto? C’è qualcosa che ti preoccupa. Qualcosa che è successo sulla Terra, forse?».

Lui si allontanò. «No! Niente!». Si accorse di aver usato un tono duro. Sul viso di sua moglie leggeva il dolore. Con voce più dolce, aggiunse: «Non posso farci niente, Laira. Assolutamente niente. Ho subito una tensione violentissima, ecco tutto».

La tensione di veder morire me stesso, di veder morire una cultura. Di viaggiare nel tempo e nello spazio. Mi sono successe un sacco di cose. Troppe, forse.

Si sentiva stanchissimo. Guardò il cielo della notte che risplendeva sopra la cupola trasparente del loro portico. Le stelle erano gemme montate su velluto nero. C’erano le solite, familiari costellazioni: là Tartaruga e la Colomba, la Grande Ruota, la Lancia. Quando si trovava sulla Terra, quelle stelle gli erano mancate. Gli sembravano, allora, dolci aspetti della sua vita quotidiana.

Ma quella notte le stelle erano fredde, lontane. Non avevano nulla di amichevole. Strinse a sé sua moglie e fissò le costellazioni, e gli parve che esprimessero una minaccia selvaggia. Era come se l’orda dei Klodni se ne stesse sospesa su di loro, terrificante nube di pioggia che aspettava solo il momento di iniziare a scaricarsi.

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