11 Bobby Jackson

Ricordo tutte le gite che ho fatto alla Gower Cavern. Quando avevo sette anni ci andavo tre o quattro volte al mese, tutte le volte che mi prendeva la voglia di andare a frugare, armato di pi­la, un mondo misterioso, sotterraneo, dove tutto sembrava più grande di quanto fosse in realtà. Più grande e più cupo. Il silenzio e l’ombra mi spaventavano, ma mi procuravano anche l’emozio­ne di sentirmi un ardito esploratore che si avventura nelle viscere della terra alla ricerca di tesori nascosti.

Un paio di volte m’ero abbandonato a fantasie infantili, pen­sando di essere un minatore che si avventurava in una miniera con la lampadina legata alla fronte e un piccone sulla spalla. Uscendo dalla caverna mi dicevo che era un bene che nessuno sa­pesse quanto fossi infantile a volte, ed è probabilmente grazie al mio bisogno di tenermi strette le mie idee che mi s’impressero per sempre nella memoria quelle prime escursioni.

Quando ci si trova sulla riva di un fiume, sotto uno scroscio di pioggia e attraverso l’acqua turbolenta si scorge una trota arco­baleno, e ci si sente vicini al cuore pulsante della natura… allora com’è possibile non sentirsi diversi da Willie Simpson con il suo camioncino di pompieri o da Jackie MacClary con la sua biciclet­ta rossa e gialla?

Non fatemi domande e io non vi dirò bugie. Ci sono cose che, ne sono certo, nemmeno Kant sarebbe riuscito a spiegare con l’aiuto di tutta la sua fredda logica, ed è possibile che, a sette od otto anni, l’autore della Critica della Ragion Pura fosse un ragaz­zetto con la testa dura e il carattere litigioso, sempre pronto a battersi, mentre i suoi pensieri vagavano verso l’eternità e si face­vano beffe delle ginocchia sbucciate e dei pantaloncini infangati.

Un improvviso soffio di vento, proveniente dall’esterno, mi riempì gli occhi di polvere e il bruciore mi riportò bruscamente a una realtà così brutta, spaventevole e carica di pericoli che tutti i lontani ricordi infantili a cui m’ero abbandonato per un momento sembrarono allontanarsi rotolando nel buio in cui camminavo, col signor Dyson a fianco. Era singolare come i ricordi di sette anni prima sembrassero a volte talmente remoti, che invece di sette, gli anni trascorsi da allora avrebbero potuto essere cin­quanta o cento.

Sapevo che se mi fossi voltato verso il signor Dyson per chie­dergli: “Chi è Laura Hartley?”, lui mi avrebbe fissato con aria stupita e ignara. Ero stato costretto ad agire così — tanto per il suo bene quanto per il mio — e mi era bastato un minuto per im­porre un blocco alla sua memoria.

Altrimenti sarebbe stato così preoccupato e mi avrebbe subis­sato di tante domande da minacciare la calma che io cercavo di mantenere con tutte le mie forze. Non poteva fargli alcun male convincerlo — e io gli avevo inculcato questo convincimento — che gli avevo chiesto di accompagnarmi perché avevo scoperto per caso nella parte più interna della caverna, una strana formazione geologica, e dovevo subito discuterne con lui, dopo avergliela mostrata, affinché si persuadesse da solo di quanto fosse straor­dinaria.

Gli avevo anche fatto credere che quella scoperta era in rap­porto con la questione dei dischi volanti, di cui avevamo parlato in classe al principio della settimana, perché sapevo che così sa­rebbe stato sempre attento e in guardia.

Non sapevo se avrei avuto bisogno o no del suo aiuto. Ma in caso positivo, la sua impossibilità di ricordare quel che gli avevo detto al telefono non avrebbe avuto alcun peso. Se avevo sbaglia­to nel chiedergli di venire con me, lo avrei saputo presto. Ma non credevo di aver sbagliato. Affrontare da soli un pericolo molto grave è sempre un errore, a meno di sapere di poter contare su un eventuale aiuto. Anche se i risultati sono disastrosi non signi­fica che la decisione iniziale fosse sbagliata. Significa soltanto che circostanze indipendenti dalla nostra volontà hanno preso una piega imprevista.

Sapevo che avrei dovuto combattere da solo la battaglia decisi­va, e se la mia fermezza avesse vacillato, sia pure per un attimo, non avrei avuto speranze di salvezza. Ma sapevo altresì che quanto mi aspettavo d’incontrare in fondo a un grande insieme di caverne, dove sfociava tutto il sistema di gallerie e diramazioni, era certamente troppo complesso per affrontarlo senza aiuto. Quando si batte a una porta buia e ben sorvegliata ed essa si apre silenziosamente su una oscurità ancora più terribile, è bene avere vicino qualcuno di cui ci si fidi appieno e il cui coraggio, almeno, è ancora integro.

Sapevo che fra non molto ci saremmo trovati immersi nel buio assoluto se non avessimo acceso le lampade portatili. Io ne avevo portate due, e ne avevo data una al signor Dyson.

Per ora, comunque, arrivava ancora abbastanza luce dall’im­bocco, e l’unico ostacolo era costituito dai ciottoli sparsi sul fon­do della caverna e da alcune lastre piatte a livello del terreno.

Negli otto o dieci minuti trascorsi da quando avevo fatto sì che lui non potesse ricordare Laura Hartley inserendo nella sua men­te un’altra ragione per la nostra visita alla caverna, il signor Dy­son non aveva detto una parola.

Sembrava affascinato dall’ampiezza, che andava aumentando, di quel mondo sotterraneo, e dal gioco di luci e ombre sulle pare­ti, al punto da scordare, per un momento, non solo l’agitazione e l’ansia che io l’avevo costretto a bandire dalla mente, ma anche la straordinaria scoperta che avevo inventato. Non dimostrava alcuna fretta di arrivare a quell’inesistente struttura rocciosa che, se non fosse stata inventata di sana pianta, avrebbe riportato in primo piano l’argomento degli Oggetti Volanti Non Identificati, della cui esistenza io avrei portato prove inconfutabili.

Ma il signor Dyson è fatto così. Non voglio dire che pensa a bi­nario unico, ma qualche volta, quando i suoi pensieri viaggiano a rotta di collo su un binario, non è capace di farli deviare su un al­tro senza provocare un deragliamento. Ignora le segnalazioni, i semafori, i frenetici gesti degli addetti agli scambi, e procede a gran velocità verso il disastro. E qualche volta il pericolo è grave. Ma chi ero io per notare le crepe dell’armatura di un uomo così singolare? Lui se ne stava chiuso quasi sempre in quell’armatura, e probabilmente sarebbe uscito incolume da una caduta di trenta metri se, cadendo, avesse pensato con fermezza e decisione a quel che gli stava capitando. Ho pensato spesso che se qualcuno gli avesse detto che Lakeview era in preda alle fiamme mentre lui stava correggendo un componimento che gl’interessava in modo particolare, avrebbe continuato nel suo lavoro finché le pareti della classe non fossero crollate.

In quel momento stava guardando il soffitto della caverna, come se le rocce affioranti lo facessero pensare alle stalattiti, oppu­re che lassù dovevano esserci dei pipistrelli. Ma io sapevo che nella caverna non c’erano né pipistrelli né stalattiti.

Del resto, la Gower Cavern non ha bisogno di essere infestata dai pipistrelli per dare a chi vi penetra la sensazione di essere os­servato da furtive creature che volano o strisciano nel buio. C’e­rano dovunque ombre grottesche e le rocce stesse erano mac­chiate e striate e parevano fuse.

A me sembrava di trovarmi all’interno di un’enorme meteorite cava che si fosse schiantata sulla valle quando la Terra era giova­ne; una meteorite che affondava sempre più nel terreno col pas­sare dei millenni, e che forse un giorno sarebbe sparita.

Mi accorsi d’un tratto che il signor Dyson si era fermato, e mi stava tirando per un braccio. — E meglio che non andiamo oltre senza accendere le lampadine — disse. — Qui davanti c’è una svolta brusca e sicuramente poi ci troveremo nel buio completo.

— D’accordo, accenda la pila — gli dissi. — Non c’è nessun motivo per continuare a inciampare nei sassi.

— Non c’è nessun motivo? — ripeté lui, e mi stupì il suo tono preoccupato. — Ho la sensazione che tu mi nasconda qualcosa. Non me ne intendo per niente di geologia, e anche se abbiamo parlato di dischi volanti qualche giorno fa non capisco perché tu abbia dovuto telefonarmi insistendo per farmi venire qui subito. Potevo aspettare fino a domani. La domenica è la giornata mi­gliore per esplorare una caverna come questa, specie dopo che si è avuto una settimana molto pesante a scuola. Ci vuole un po’ perché le ragnatele della fatica si diradino; questa, inoltre, è una giornata molto pesante. È tutta mattina che il cielo si va rannuvo­lando. Mi sembra che una bella giornata di sole dovrebbe sem­brarti più adatta dopo quello che è successo martedì a scuola.

Dunque si ricordava della mia telefonata, anche se ero riuscito a fargli dimenticare che l’avevo chiamato per parlargli di Laura Hartley!

— È difficile aspettare quando c’è in ballo una cosa molto im­portante, signor Dyson — gli dissi. — Inoltre, secondo il bolletti­no meteorologico, domani pioverà tutto il giorno.

— Ti sei preso la briga di informarti sul tempo, Bobby? Be’, se per te è una cosa tanto importante, sarà meglio che ti segua senza più brontolare. Però continuo ad avere la strana sensazione che tu mi nasconda qualcosa. È vero?

— No di certo, signor Dyson. Perché dovrei farlo?

— Forse per averla vinta, Bobby. Anche una roccia strana può… be’, essere truccata. La togli da un posto, la metti in un al­tro…

“Oh, qual rete intricata tessiamo, se sulla via del mentir ci inol­triamo”. Era un’asserzione ovvia e sciocca, o il poeta che l’aveva scritta aveva infisso una pietra nella eterna via della saggezza? Ormai giaceva nella tomba fin dal diciottesimo secolo, e non po­tevo andare a chiederglielo, viaggiando a ritroso nel tempo.

E poi dovevo esplorare davanti a me, nelle viscere della caver­na dove quel genere di saggezza, o di mancanza di saggezza, non aveva la minima importanza. Quando ci si accinge a ingannare un’intelligenza fredda e sconosciuta che progetta di conquistare la Terra senza commettere il minimo errore, si procede sull’orlo di un abisso in fondo al quale c’è la morte, e allora la rete che si è costretti a tessere è molto, molto intricata.

Sembrava che il signor Dyson si fosse subito pentito di avermi accusato di “truccare” le rocce, perché mi diede una pacca sulla spalla e continuammo a camminare in silenzio.

Aveva acceso la lampadina che bastava da sola a illuminare un ampio tratto di terreno davanti a noi, cosicché non era stato ne­cessario che accendessi anche la mia.

Superammo la svolta senza fermarci, aggirammo un grosso macigno, e stavamo per svoltare un’altra volta, quando i due Martin uscirono dall’ombra della parete di fronte a noi.

Il signor Martin reggeva un lungo tubo lucente che mandava un bagliore tanto intenso da rendere completamente inutile la lampadina del signor Dyson. La signora Martin era a mani vuote, e mi fissava come se sperasse che io morissi e non potessi av­vicinarmi di più, prima che suo marito balzasse al suo fianco.

Il signor Martin doveva condividere i suoi pensieri e sapere esattamente quel che lei voleva che facesse, perché il tubo si sol­levò e il raggio si mosse verso di me.

Fu un errore madornale, l’ultimo che egli commise. Io ero im­mobile e per un attimo provai la sensazione di essere trasformato in una colonna di fuoco. Ma fu solo l’effetto del calore provocato dal raggio, prima che il signor Martin facesse un balzo indietro lasciando cadere il tubo. Se il raggio mi avesse preso in pieno non sarei riuscito a fermarlo e lui avrebbe colpito anche il signor Dy­son, perché non ci sarei stato più io a impedirlo.

Costringere il signor Martin a ripiegarsi su se stesso con le ma­ni contratte sullo stomaco e la bocca aperta per lo spasimo, come un pesce fuori d’acqua che lotta per respirare, non era stato diffi­cile come prevedevo.

Lentamente, inflessibilmente, procedetti alla sua distruzione, costringendolo a rivolgere contro se stesso tutta l’energia innatu­rale del suo corpo squassato da un violento tremito. Sapevo di poter influire sulla sua mente per trasformarla in un’arma capace di distruggere quella vita, se essa l’avesse ordinato, e la forza mentale che impartì l’ordine non vacillò per un solo attimo. Sa­pevo dove si trovava il centro dei comandi ed ero sicuro che sarei riuscito a farli prevalere.

Ricordando quello che aveva fatto perché non era umano, non provai alcun senso di colpa.

Mi riuscì invece più difficile la distruzione della signora Mar­tin. Mi aveva talmente affascinato che per un attimo intero, dopo che aveva cessato di muoversi, non riuscii a smettere di pensare come sarebbe stata bella se l’avessi incontrata in un bosco d’au­tunno, e lei mi avesse guardato col sole che le brillava nei capelli, senza avere paura di me, e senza che sospettassi che quella sua straordinaria bellezza era stata creata per nascondere un mecca­nismo inumano dotato di un cervello artificiale gelido e spietato.

Quello che ero stato costretto a fare avrebbe potuto essere più insopportabile se avessi avuto più tempo per soffermarmi sul suo aspetto attuale, su come giaceva davanti a me rattrappita, morta e stranamente rimpicciolita, fissandomi con gli occhi che non ve­devano più. Ma mentre io stavo chinandomi per esaminare il tu­bo sfuggito dalle mani di Martin, altri quattro sbucarono oltre la svolta della caverna.

Vedendoli, il signor Dyson gridò e fece un balzo indietro, il che mi procurò quei pochi secondi che mi erano necessari per ri­prendermi dalla sorpresa che avevo provato riconoscendoli e per distruggere anche loro.

Fred Halstrom, il meccanico del garage, fu il primo ad arretra­re verso la parete della caverna. Samuel Thompson, il professore di ginnastica, era un uomo dalla costituzione atletica, nel fiore degli anni, ma questo non gli impedì di morire con la stessa rapi­dità del signor Martin. Clifford Andrews non si era occupato che di libri per tutta la vita, e la posizione rattrappita che assunse im­mediatamente sembrava naturale, in lui. Ma non c’era niente di naturale nel modo con cui si mise a barcollare ruotando su se stesso, con le mani strette al petto finché cadde, scosso da un tre­mito convulso. Theodore Murch, l’uomo in grigio di Lakeview, ci mise due minuti a cadere, arretrando verso la parete della ca­verna come aveva fatto Fred Halstrom, finché non cadde di schianto in ginocchio.

Mi sentii sopraffare da uno stordimento così forte che temetti per un momento di restar privo di conoscenza. Lo sforzo mi ave­va consumato quasi tutte le energie fisiche, sebbene fossi rimasto sempre immobile, senza neppure alzare un braccio.

Il signor Dyson si accorse che barcollavo, perché non perse tempo a sorreggermi e mi lasciò andare solo quando incominciai a stare meglio.

Ansimava, e io sapevo che quel che io ero stato costretto a fare lo aveva colpito profondamente. Lui ignorava che i Martin non erano esseri umani. E se avessi cercato di dargli delle spiegazioni anche a proposito degli altri sarebbe rimasto così sbalordito e in­credulo che non mi avrebbe certamente prestato fede.

Mi domandavo che cosa avrebbe pensato se gli avessi detto: “Questi quattro uomini che giacciono davanti a noi non sono realmente Thompson, Andrews, Murch e Halstrom. Sono stati creati in modo da somigliare, anzi da essere dei sosia perfetti, di quei quattro, perché la loro controparte umana rappresenta un tipo caratteristico di Lakeview. Tipi che spiccano senza essere ec­centrici, tanto che nessuno si sarebbe stupito di avere uno di essi come vicino di casa.

“Una volta afferrata l’importanza di questo, la mossa successi­va non è difficile da capire. In tutte le città e i paesi della Terra ci sono molti Andrews, Thompson, Halstrom e Murch, o i loro equivalenti. Quindi, una volta deciso di attuare l’esperimento, sarebbe meglio incominciare con dei tipi caratteristici, simpatici, semplici, accettabili e facilmente riconoscibili.

“Vede, signor Dyson, per quanto possa sembrare paradossale, sono i tipi qualunque, incolori, quelli che vengono sospettati più facilmente quando fanno o dicono qualcosa di appena un po’ in­solito. Per evitare i sospetti è necessario tanto conformarsi quan­to non conformarsi ai modi comunemente accettati della società, in maniera però individuale. Il signor Martin era individuabile nella sua conformità ed è per questo che loro pensavano che il ti­po scelto per lui sarebbe stato probabilmente quello che avrebbe avuto successo. Era il primo: ma fra un mese o fra un anno un Andrews, un Thompson, un Halstrom o un Murch non umani avrebbero probabilmente sostituito il loro equivalente umano a Lakeview.

“Chi poteva sapere, chi poteva sospettare che il professore di ginnastica della scuola media di Lakeview, o l’equivalente del­l’uomo in grigio di Lakeview, o il tranquillo, simpatico ometto appassionato di libri fossero meccanismi inumani dotati di cervel­lo artificiale e corpi ingegnosamente fabbricati?”

D’un tratto mi resi conto di aver fatto un grosso sbaglio. Avrei dovuto dire tutto al signor Dyson. Aveva riportato uno shock co­sì terribile che se io avessi tentato di evadere le domande che si­curamente m’avrebbe fatto, qualunque blocco avessi imposto al­la sua mente sarebbe stato l’equivalente di una lobotomia pre­frontale. L’avrei privato della sua personalità, cosa che non ave­vo il diritto di fare.

Dovevo parlargli, e avrebbe deciso lui se credermi o no.

Sapevo di dover essere conciso. Versavamo in pericolo morta­le, e dovevamo affrettarci a raggiungere la grande caverna in cui confluivano tutte le altre, prima che fosse troppo tardi. Quella caverna era aperta, in alto, e ci sarebbe stata molta luce, ma non del tipo di cui il signor Dyson aveva così disperatamente bisogno.

Dover oltrepassare i corpi esanimi di cinque uomini e una don­na che non erano stati umani, e procedere oltre come se niente fosse, sarebbe stata una cosa impossibile, per lui, se non mi fossi affrettato a spiegargli tutto.

Parlando, continuai a fissarlo. Avevo acceso la lampadina, do­po avergli fatto spegnere la sua, perché gli tremava forte la mano e io volevo che l’imbocco, oltre la svolta, fosse sempre ben illu­minato. Ma la luce era sufficiente perché potessi seguire il gioco delle espressioni sulla sua faccia.

Dapprima era incredulo, poi, man mano che parlavo, mi ac­corsi che cominciava a credermi.

Non so se riuscii a convincerlo del tutto. Era difficile stabilire, dalla sua espressione, fino a che punto accettasse le mie parole, e fosse in grado di sopportare la realtà delle cose.

Quando ebbi finito, rimase immobile per un momento, con gli occhi fissi sui corpi stesi a terra. Cadendo, la signora Martin ave­va dimenticato che la bellezza e la grazia devono sempre andare di pari passo in una donna, e ora non era più tanto bella e nemmeno tanto “umana”. I capelli le coprivano la faccia nasconden­done le fattezze. Le forme, prima tanto graziose, si erano inflaccidite, come se il meccanismo avesse cominciato a scaricarsi pri­ma che lei finisse di muoversi e avesse così dato inizio a quella se­rie di cambiamenti che distruggono le illusioni.

Quando finalmente il signor Dyson alzò gli occhi per guardar­mi, non dubitai più: mi credeva, era perfettamente in sé ed era riuscito ad accettare quello che gli avevo detto. Almeno, quasi tutto. Sarebbe stato impossibile il contrario, in quanto quello che aveva visto con i propri occhi suffragava la veridicità delle mie parole, e faceva sì che non dubitasse più della vera natura dei sei corpi.

A questo punto, tolsi del tutto il blocco mentale che gli avevo imposto. Leggendo il dolore e il tormento nei suoi occhi, temetti sulle prime di aver commesso uno sbaglio.

— Tu sai dov’è Laura — disse. — Ma questo vuol dire che la puoi salvare?

— Nulla è certo fin quando non si è fatto — gli risposi. — Ma ora le loro menti sono assopite. Non credo che sappiano che sia­mo qui, né che abbiano modo di saperlo fino al risveglio. Non so­no infallibili, e sebbene i Martin mi tenessero sotto stretta sorve­glianza, ci sono molte cose che non hanno nemmeno cominciato a sospettare, sul conto di Bobby Jackson. Erano i Martin che sor­vegliavano la caverna e li avvertivano.

— Ci sono molte cose che io ignoro, sul conto di Bobby Jack­son — dichiarò lui, con tale disperata foga che non potei fingere di non averlo sentito. Ma stavo già incamminandomi, e pensai che era meglio proseguire nel buio, sicuro che adesso non si sa­rebbe rifiutato di accompagnarmi.

Загрузка...