9 Charles Bellamy

Non mi è piaciuto quello che mamma ha detto allo sceriffo. Non che m’importasse tanto. Comunque, nessuno avrebbe creduto a una sola parola della mia storia, e io non ho il complesso del mar­tire. Tutto considerato, lo sceriffo non era poi così cattivo. Ma a me viene la claustrofobia a sentirmi rinchiuso in una cella. La mamma lo sa, e per questo è venuta alla riscossa.

Era un’idea folle, comunque, ma tutta la faccenda era folle. Quando frequentavo i primi anni d’università, da maggio a otto­bre andavo a vendere i libri di porta in porta. Ma un’occupazione di questo genere non è adatta a un uomo che fra nove mesi con­seguirà la laurea in medicina e ha ricevuto offerte per diventare assistente da parte di un’università dove non vige il principio che uno debba iniziare dal primo gradino della scala accademica e ri­salirla scrivendo articoli per oscuri periodici specializzati che nes­suno legge.

Se gli editori dell’enciclopedia non mi avessero offerto un pre­mio speciale perché avevo lavorato così bene negli anni passati; e se non avessi avuto il dono di persuadere le massaie a comprare qualsiasi cosa, non avrei nemmeno preso in considerazione la proposta. Il guadagno è due o tre volte superiore a quello di un insegnante di corsi estivi. Ma anche così…

Chiunque abbia provato sa che, a ragion veduta, girare per vendere libri non è poi cosa così deprimente e impossibile come comunemente si crede. C’è una cosa da dire in proposito. Sono poche le persone così scontrose e irragionevoli da sbatterti la porta in faccia, e capita di rado di dover infilare il piede nella fes­sura della porta fino a quando non si è riusciti a convincere i padroni di casa che non corrispondiamo per niente al concetto po­polare di come dovrebbe parlare e comportarsi un commesso viaggiatore che spera di fare buoni affari. Se si riesce a non essere troppo impacciati o troppo sfacciati, il successo arride sempre, e qualche volta ha del miracoloso. Non guasta mostrarsi un po’ ti­midi, purché si sia simpatici e gentili.

I venditori di enciclopedie hanno il privilegio di smerciare di porta in porta la “summa” di tutto il sapere umano, elegante­mente rilegato in cuoio e oro.

Da ragazzo ero passato parecchie volte davanti alla casa del vecchio Jonathan Oakham sognando che un giorno o l’altro avrei spinto il cancello di ferro battuto cigolante e arrugginito, e avrei attraversato il prato antistante la casa con la mia borsa in mano.

Il vecchio Jonathan Oakham era un tipo formidabile e se ci fosse stato ancora lui in quella casa, la possibilità di riuscire a fargli acquistare un’enciclopedia in dieci volumi non mi sarebbe passata per la testa. Era infatti notorio che possedesse per lo meno tre enciclopedie, più uno scaffale alto fino al soffitto di altri libri che integravano tutto quello che manca nelle enciclopedie.

Ma ora c’erano nuovi inquilini nella casa, e il loro arredamen­to, mobilio compreso — stavo passando di lì per caso, quando i facchini scaricavano il furgone del trasloco — non mi era parso del tipo di quello di Jonathan Oakham. Niente librerie, non parlia­mo poi di scaffali alti fino al soffitto. Cosa avevo da perdere a cercare di persuaderli a cominciare con un’enciclopedia, intorno alla quale, con gli anni, avrebbero potuto costruirsi una biblioteca? Molti cominciano proprio così, e poco alla volta prendono interesse alla letteratura, alla storia, all’architettura e alla pittura.

Fa piacere sentire che abbiamo contribuito ad allargare gli orizzonti culturali di gente nel pieno della vita, con ancora parec­chi anni utili davanti a sé, e mi sembrava che valesse la pena tentare.

Sul portone c’erano sia un picchiotto di ottone sia un campanello, e io optai per quest’ultimo. Come lo premetti echeggiò uno squillo nell’interno della casa. Aspettai, e poco dopo sentii un rumore di passi che si avvicinavano alla porta.

Poi una catena stridette e finalmente comparve una donna sui trentacinque anni, con l’espressione un po’ seccata. Ma questo non contava. E come potrebbe influire su una visione di assoluta bellezza che viene volteggiando verso di te sulle ali del mattino, mentre il sole fa avvampare di pagliuzze d’oro i suoi capelli? Sembrava che il bellissimo viso ovale fosse incastonato nell’oro. Non posso onestamente asserire che fosse la più bella donna che avessi mai visto. Però era una fra le più belle: su questo non ci sono dubbi.

— Be’? — disse lei, con voce un po’ roca. Ma nemmeno que­sto poteva guastare la sua bellezza. Nulla poteva guastarla.

Per un momento non riuscii a parlare e, per nascondere la mia confusione, mi misi a frugare nella borsa alla ricerca di una circo­lare che spiegava il motivo della mia visita. E perché tutti si per­suadessero che avrebbero fatto un “saggio acquisto” la circolare invitava il potenziale cliente a sfogliare un volume di quella che, senz’ombra di dubbio, era la miglior enciclopedia del secolo. Ma, non so perché, non riuscivo a pensare agli affari. Quello che desi­deravo era continuare a guardarla.

Lei cominciava a perdere la pazienza, e stava per chiudere la porta, quando una voce maschile, brusca e acuta, chiamò dall’in­terno della casa, come se l’uomo non avesse sentito il campanello o volesse dire alla donna di non tardare tanto ad aprire.

Non riuscii ad afferrare le parole, ma lei sì, ne sono certo, per­ché assunse un’espressione allarmata e fece per sbattermi la por­ta in faccia.

Ci riuscì, ma non fu abbastanza svelta da impedirmi di sentire quel che diceva l’uomo che, la seconda volta, parlò con voce più chiara.

— Dove sei, donna? Sono sordo e mi sta calando la vista. Ab­biamo tardato troppo. Loro sapranno quello che devono fare, ma noi dobbiamo raggiungere la caverna prima che sia troppo tardi.

Sono sicuro che qualunque altro commesso viaggiatore, al mio posto, si sarebbe ben guardato dal suonare il campanello un’altra volta e poi bussare, visto che nessuno apriva. Se ne sa­rebbe andato subito, mantenendo intatta quel po’ di dignità che gli restava.

Nel giro di un mese, un commesso viaggiatore assiste involon­tariamente a più di un litigio familiare ed è costretto a sentire pa­role che gli possono sembrare strane e prive di senso. Le capireb­be però se sapesse il motivo per cui è scoppiata la lite. Di regola ha abbastanza buon senso da rendersene conto, ed evita che quanto ha udito interferisca in qualche modo con il suo rapido e dignitoso congedo. Solo Charles Bellamy doveva allontanarsi dalla regola! Forse sono diverso anche sotto altri aspetti, perché non sono mai stato un tipo accomodante, e non sono capace di disinteressarmi delle cose che sembrano strane e misteriose, la­sciando perdere invece di volerle approfondire.

Era probabile che si trattasse di un comunissimo bisticcio fami­liare, nonostante le strane parole e il brusco, inconfondibile esor­dio: “Dove sei, donna?” Quando un uomo nutre rancore nei ri­guardi di sua moglie può accusarla magari anche di farlo diventa­re cieco e sordo, ma non in quel modo brusco e frenetico, e col sottinteso che erano mali a cui si poteva ovviare… E che cosa vo­leva dire poi con quelle altre frasi: “Loro sapranno quello che de­vono fare, ma noi dobbiamo raggiungere la caverna prima che sia troppo tardi”?

Continuai a bussare per un minuto buono e infine rinunciai, persuaso, non so come, che la donna avrebbe riaperto la porta per spiegarsi o addirittura per scusarsi, se ne avesse avuto la pos­sibilità. Non si sbatte la porta in faccia a un visitatore senza dargli alcuna spiegazione, specie quando questi ha ascoltato qualcosa su cui le malelingue cittadine potrebbero avere da spettegolare. Per lei non ero che un venditore di libri, e dare a un uomo, che ha il diritto di essere trattato con cortesia, l’equivalente di uno schiaffone, era una cosa alquanto sciocca da parte di gente appe­na arrivata in città.

Forse la necessità di calmare e rassicurare il marito era così ur­gente da impedirle di occuparsi d’altro? O non sapeva cosa dirmi per dare una spiegazione plausibile alle parole di suo marito che parevano le parole di un matto?

Mi voltai, e stavo attraversando il prato tremante d’ira e di de­lusione, quando vidi il gatto. Era un gattone che portava i segni di molte battaglie; non credo di aver mai visto un gatto così brut­to. I suoi occhi verdi scintillavano al sole, e io avevo la sensazio­ne che seguisse attentamente le mie mosse.

Questo, comunque, non mi fece né caldo né freddo… in prin­cipio. Un cane dall’aria feroce che ti osserva e brontola quando ti vede camminare su un prato che ritiene suo indiscusso dominio, non può essere ignorato. Ma sebbene anche i gatti possano esse­re pericolosi, a volte, è difficile che abbiano scatti d’ira a meno che non li si blocchi in un angolo o li si voglia prendere in braccio quando loro non vogliono essere coccolati.

Non mi preoccupai nemmeno quando, superato il cancello ar­rugginito, mi avviai sul marciapiede e vidi che il gatto mi seguiva. I gatti maltrattati vanno sempre alla ricerca di un nuovo padrone e seguono chiunque mostri di badare a loro. Non avevo motivo di pensare che quel gatto fosse maltrattato, salvo il fatto che la sua eccezionale bruttezza poteva aver indotto un padrone o una pa­drona — sia pur ben disposti — a essere un po’ bruschi con lui qual­che volta. Ma non c’era assolutamente niente di insolito né di preoccupante nel vedersi seguiti da un gatto per un pezzo di stra­da. Infatti, una volta un gatto mi seguì fino a casa e mamma mi proibì di dargli un piattino di latte perché quando i gatti sentono di poter essere accettati si sistemano in casa come ospiti perma­nenti.

Ci mancava anche che quella brutta bestia, che mi seguiva a di­stanza, diventasse ospite permanente in casa mia. Perciò mi co­strinsi a proseguire senza incoraggiarlo in alcun modo a seguirmi. Arrivato alla fine dell’isolato, quando attraversai per raggiunge­re il marciapiede opposto, avevo la sensazione che non fosse scomparso, ma persistetti nella decisione di non voltarmi per averne la conferma. Mi dissi che, se lo ignoravo, probabilmente sarebbe tornato a casa Oakham rassegnandosi a continuare a es­sere maltrattato, se non dalla sua padrona, da tutti i ragazzini del vicinato dotati di un carattere abbastanza crudele da divertirsi a dare la caccia — e a rendere la vita più difficile — a un gatto così grosso e così brutto.

Finalmente mi decisi a voltarmi, per una volta, e vidi che l’ani­male continuava a seguirmi. Ormai mi trovavo a tre isolati di di­stanza dalla casa Oakham e camminavo tanto in fretta che il gat­to doveva aver corso per non lasciarsi distanziare. Questo mi col­pì molto. Un gatto tanto deciso ad accompagnarmi a casa si com­portava più come un cucciolo randagio che come un felino, fer­mandosi quando mi fermavo, e poi correndomi appresso con tut­ta la velocità consentita dalle sue zampe.

Affrettai ancora il passo, dicendomi che era divertente essere pedinato da un gattone in cerca di casa, e che non avevo da preoccuparmi. C’erano ben altre cose che mi davano da pensa­re, compresa la tesi che avrei dovuto finire al più tardi per no­vembre.

Ero appena arrivato all’angolo successivo quando fui colto da un senso di vertigine, che mi costrinse a fermarmi. Qualche volta mi capitano attacchi simili, ma mai uno così forte come quello che mi aveva colto di sorpresa in strada; era certo molto più preoccupante del gatto. Possibile che il dottor Crowles si fosse sbagliato quando, sottoponendomi a una visita di control­lo, in giugno, mi aveva assicurato che ero in ottima forma?

Le vertigini non durarono a lungo. Ma mi avevano fatto pas­sare un momento talmente brutto che mi ricordai del gatto solo dopo aver percorso un altro isolato.

Ero sceso dal marciapiede e stavo attraversando la strada quando mi capitò una cosa ancora più brutta e allarmante del­l’attacco di vertigini. Incominciai a perdere il controllo delle gambe. Diventarono malferme e io non riuscii a proseguire se non barcollando e con la sensazione di perdere l’equilibrio. Ma quella strana sensazione non fu accompagnata da vertigini. Poi mi accorsi che anche le braccia avevano qualcosa d’insolito, perché quando tentai di alzarle per mantenere l’equilibrio — non avevo niente a cui aggrapparmi, ma intuivo che, alzando le braccia, sarei riuscito a reggermi — mi ricaddero inerti lungo i fianchi.

Proseguii vacillando con un rollio così violento che temetti di finire lungo disteso prima di riacquistare l’equilibrio.

Però, non caddi. O, per lo meno, non cadde il mio corpo. Pro­seguii barcollando, e la paura di perdere il controllo di tutti i mo­vimenti m’abbandonò.

Adesso avevo paura di un’altra cosa. Si trattava di un terrore molto più sconvolgente, in quanto mi faceva dubitare della mia sanità mentale. Il mio corpo continuava a procedere, ma io non facevo più parte di esso, ne ero completamente staccato e avevo l’impressione di seguirlo a distanza. Questa distanza aumentava man mano che il mio corpo smetteva di vacillare e si avvicinava al marciapiede ondeggiando appena. Lo guardai salire sulla cordo­nata e allontanarsi lasciandomi dietro di mezzo isolato. Mi trova­vo nel punto dove avevo visto il gatto e i miei movimenti diventa­rono lenti e goffi; inoltre, mentre camminavo mi sembrava che gli artigli — gli artigli, oh Dio! — facessero un rumore stridente sul­l’asfalto.

L’incubo che seguì non ebbe fine se non quando mi ritrovai nella cella della prigione, con lo sceriffo che faceva del suo me­glio per farmi tornare in me. Mi ero già calmato un po’ quando lui m’aveva dato la possibilità di rientrare in possesso del mio corpo, ma lui, questo, non poteva saperlo, e anzi sembrava con­vinto che fossi ancora in stato di shock, il che, sotto un certo aspetto, era vero. Tuttavia riuscii a rispondere a tutte le doman­de che mi rivolse e ricordavo abbastanza di quel che avevo letto a proposito delle amnesie per impedire che mi desse del bugiardo. E sì che moriva dalla voglia di farlo, lo capivo benissimo. Sono certo che non mi credette un momento, quando gli dissi che ave­vo un vuoto di memoria. Ma la venuta di mamma lo spaventò un po’, e io le diedi corda, dal momento che non avevo altra scelta. Se l’università fosse venuta a saperlo, tutta la mia carriera acca­demica avrebbe potuto esserne compromessa, ma il News Chronicle non pubblicò questa parte dell’accaduto, e mamma si decise a rischiare contando sul fatto che l’università si trova in un altro Stato.

Dopo tutto, può darsi che io abbia avuto una specie di vuoto di memoria. Anche adesso non sono del tutto sicuro di quello che successe dopo che mi allontanai da casa Oakham. La mente uma­na è il più grande di tutti i misteri e talvolta può creare illusioni così solide e tridimensionali che sembrano scolpite nel granito. E quello che accadde a me — o che io credetti mi accadesse — non era meno solido, anche se a me sembrava che si fosse verificato in più di tre dimensioni.

Mi sembrò prudente non parlarne allo sceriffo. Ma mi riuscì molto più difficile evitare di raccontare tutto l’accaduto a Bobby Jackson, quando venne a trovarmi nel pomeriggio di ieri. Quel ragazzo ha un certo modo di guardarti, come se fosse in grado di leggerti nella mente, e io finii per fidarmi completamente di lui.

Aveva avuto l’indirizzo dallo sceriffo Anderson, che da più di vent’anni è amico intimo di suo padre, ed ebbi la sorpresa, poco dopo l’una, di veder salire in camera mia mamma per annunciar­mi il suo arrivo. — Hai una visita, Charles. È un ragazzo che dice di avere una cosa molto importante da dirti.

Andai ad aspettarlo in cima alle scale. Un “ragazzo” poteva voler dire tanto un giovane di diciotto anni quanto un bambino, ed io ero curioso di vedere che età avesse. Era molto giovane, non più di tredici o quattordici anni. Non riuscivo a immaginare cosa avesse da dirmi di tanto importante un ragazzetto di quell’e­tà, a meno che non sapesse ch’ero iscritto a varie associazioni universitarie e potevo dirgli come fare per diventare socio di qualche Circolo quando avesse finito le scuole secondarie. A quattordici anni, l’università sembra ancora lontanissima, alla maggior parte dei ragazzi, anche se in effetti la distanza che li se­para è solo di tre o quattro anni.

Lo riconobbi mentre saliva le scale. Ma sicuro! Bobby Jackson, figlio del direttore della banca. Avevo sentito dire che era un ragazzo molto sveglio, a cui si pronosticava una brillante lau­rea sui venti anni.

Dopo averlo salutato lo feci accomodare di fronte a me, da­vanti alla finestra di quello che amo chiamare il mio studio. Fre­quenta l’ottava classe, il che vuol dire che non è molto precoce negli studi, dato che molti dodicenni la frequentano. Ma anche questo non mi stupì, perché molti giovani geni non saltano le classi, e hanno modo di esserne contenti, in seguito.

Comunque, non era venuto da me per parlare dei suoi studi, come scoprii presto.

Anche a lui interessava la casa di Jonathan Oakham, e aveva molte cose da raccontarmi in proposito, e più parlava, più la mia eccitazione cresceva; quando ebbe finito, gli raccontai tutto quel che sapevo.

Gli dissi il motivo che mi aveva spinto ad andare in quella casa, e come fossi rimasto a corto di parole quando la signora Martin mi aveva aperto la porta — lui non era così bambino da non com­prenderne il motivo e non sarebbe stato troppo vecchio neanche se avesse avuto novantatré anni — e di come lei mi avesse sbattuto la porta in faccia, non prima, però, che io avessi sentito suo mari­to chiamarla.

— È sicuro che fosse suo marito? — chiese Bobby Jackson.

— Era la voce di un uomo di mezza età — risposi. — Questa è l’unica cosa di cui posso essere sicuro.

— È proprio sicuro che abbia detto: “Loro sanno quello che devono fare, ma noi dobbiamo raggiungere la caverna prima che sia troppo tardi”?

— Sì, queste sono le parole esatte — confermai. — Non credo che potrò mai dimenticarle.

— E dopo di questo aveva suonato e bussato ancora! Devono essersi spaventati. Abbastanza, probabilmente, per…

Esitò, e io provai la strana sensazione che lui sapesse cosa sta­va passandomi per la mente. Mi parve sicuro che quanto mi avrebbe detto non mi avrebbe spaventato né sorpreso troppo e proseguì: — Io credo che sapessero che quando lei avesse attraversato il prato per andare al cancello avrebbe visto il gatto, che la guardava a sua volta. Ed erano sicuri che lei non avrebbe tro­vato niente di strano vedendo che la bestia la seguiva per strada. I gatti a volte, quando non si trovano bene in una casa, seguono degli estranei con l’intento di trovare una sistemazione migliore. Ai Martin non ci volle molto per attuare…

Esitò ancora una volta, ma io l’invitai a proseguire con un cenno.

— Be’… un trasferimento.

— Dall’uomo al gatto e viceversa. È questo che vuoi dire? — chiesi, con la certezza che lui “sapeva” cosa avrei detto, ancora prima di aprire bocca. — Ma perché, Bobby? Cosa speravano di ottenere?

— Non lo so bene — rispose lui. — Forse la sua distruzione. Quando capitò a me sentii che correvo un terribile pericolo. E non so cosa sarebbe successo se la signora Martin non mi avesse fatto uscire da quella situazione.

— Nel mio caso è merito dello sceriffo — dissi. — Quando die­de un calcio al gatto… — Mi sentii stringere la gola, e non riuscii a dire altro.

Bobby Jackson venne in mio aiuto. — Lo so — disse. — Quel­lo a cui diede un calcio facendolo volare oltre il marciapiede non era un gatto. Tuttavia lei non ha sentito dolore. Ne sono certo. Il trasferimento non era fisico, ma poteva esserlo.

— Non sentii dolore — confermai — però il suo intervento mi salvò.

— Forse perché ci sono dei limiti a quello che i Martin possono fare. Lei era molto lontano da casa Oakham, e uno shock tanto violento…

— E non è invece possibile che l’incantesimo si sia rotto da so­lo? — chiesi. — Che lo sceriffo non c’entri per niente?

— È possibile — disse Bobby Jackson. — Ma è un particolare di secondaria importanza. Quello che conta è che il trasferimento sia stato annullato. E questo prova che distruggerla non era così facile come i Martin avevano sperato.

— Secondo te, il trasferimento non era fisico — dissi, perples­so. — Però lo sceriffo Anderson ha le braccia graffiate, e questa è la prova che un gatto “umanoide” l’ha assalito.

— Ovviamente il trasferimento era fisico fino a quel punto — rispose Bobby. — Ma non in modo tale da farle sentire dolore se le si faceva del male, mentre il trasferimento faceva sì che lei ve­desse e sentisse attraverso gli occhi e le orecchie di un gatto, e la faceva muovere come se fosse davvero diventato un gatto.

— Ero io che facevo muovere le gambe del gatto?

— Sì. Tuttavia sono convinto che il trasferimento fosse in mas­sima parte mentale. Non è una definizione molto buona, ma con­fonde meno le idee che dire “psichico”. Il fenomeno è tanto in­consueto e così estraneo all’esperienza normale. È molto difficile stabilire fino a che punto “fisico” il “gatto” occupava il suo cor­po; oppure fino a quale stadio di trasformazione mentale lei fosse quando guardava il mondo con gli occhi di un gatto. Il gatto sentì dolore quando lo sceriffo lo prese a calci. Ma la sua mente non sentì dolore. Quando la cosa accadde a me, per un attimo ebbi la sensazione di provare, almeno fino a un certo punto, i pensieri e le emozioni di un gatto. Forse il trasferimento non è stabile e non è mai completo. Deve subire variazioni di qualità e d’intensità da un momento all’altro.

— Io so solo che fu un’esperienza agghiacciante — replicai. — Non vorrei che mi capitasse ancora.

— Farò del mio meglio perché non avvenga — disse Bobby. Lo fissai incerto se dirgli quel che pensavo nel timore di offen­derlo.

— Lo so — disse Bobby con un sorriso di comprensione. — Cosa può mai fare un ragazzo della mia età? È questo che pensa?

Lo guardai senza parlare.

— E naturale che pensi così — continuò, senza più sorridere. — Ma mi ha dato una chiave capace, forse, di aprire una porta molto oscura e nascosta. Quando il signor Martin — sono certo che la voce che lei sentì era la sua — gridò: “Dobbiamo raggiun­gere la caverna prima che sia troppo tardi”, sono sicuro che lei ha capito a quale caverna si riferisse.

— Certo — risposi. — Gower Cavern.

— Non è un’unica caverna, ma una serie di antri collegati fra loro, con una superficie totale di quasi un miglio quadrato. Non ci sono altre caverne, nei pressi di Lakeview, né grandi né picco­le. Quindi il campo si restringe molto.

— Non occorre che tu me lo dica — osservai. — Sono nato a Lakeview, e anche mio nonno era di qui.

— Lo immaginavo, ma non ero sicuro. Mi dica… ci è mai an­dato?

Feci un cenno di diniego. — Sembra che siano pochi quelli che vanno a visitare la Gower Cavern. Chissà perché.

— E non le è venuta la voglia, nemmeno da bambino?

— No, mai.

— Io invece ci sono andato spesso. Ma non in questi ultimi anni.

Dopo di che non dicemmo nient’altro d’importante.

Lo accompagnai giù, fino alla porta, senza sapere bene cosa dovevo dirgli al momento di separarci. “Vieni a trovarmi ancora, qualche volta” mi sembrava troppo banale, data la gravità dei fatti di cui avevamo parlato.

Fu lui a risolvere il problema, dicendo semplicemente: — Ad­dio, signor Bellamy. Quello che mi ha detto mi è stato di grande aiuto. Ci terremo in contatto.

Non appena la porta si fu chiusa dietro di lui, risalii in studio e tornai a sedermi vicino alla finestra. Avevo molte e serie doman­de da pormi.

Bobby Jackson aveva detto una cosa che non riuscivo a toglier­mi di mente. Ne aveva accennato una sola volta nel corso del no­stro colloquio, ed era stato riluttante a soffermarcisi sopra. Ma tutt’e due sapevamo che era la cosa più importante tra tutte quel­le di cui avevamo parlato. Perfino le terrificanti supposizioni cir­ca quello che mi era accaduto, dopo essere uscito da casa Oakham, rivestivano un’importanza relativa in rapporto all’oscuro nocciolo del mistero, che era molto più profondo.

“Io sono convinto” aveva dichiarato il ragazzo “che i Martin non sono affatto esseri umani”.

Quando sentii queste parole lo fissai aspettando che si spiegas­se meglio, cosa che ero certo avrebbe fatto se io non avessi detto niente.

Le mie speranze non furono deluse. “Sono convinto che siano solo… corpi” disse. “Forse non sono nemmeno fatti di carne e di sangue, ma di questo non sono sicuro. Corpi a cui è stato conferi­to il potere di pensare e sentire, in modo completamente innatu­rale”.

Io continuai a tacere, e lui cambiò discorso, in un modo che mi risultò anch’esso misterioso. So solo che non mi riuscì di chieder­gli cosa intendesse dire con quel “innaturale”. E sì che ci tenevo a saperlo. Comunque, lo strano blocco mentale che lui era riusci­to, chissà come, a impormi, era scomparso, e io cominciai a pensare in modo serio alla parte che uomini e donne artificiali, morti viventi e Frankenstein, occupano nel pensiero umano.

Questo è uno dei grandi, misteriosi enigmi che non sono mai stati esplorati in profondità, nonostante tutto quello che si è scrit­to sull’incognito nel campo dei racconti fantastici.

Per esempio: perché ci attira e ci turba così morbosamente lo spettacolo di un cadavere che cammina, o di qualche orrore ana­tomico dai piedi deformi, il cui cervello paradossalmente sia in­capace di pensare ma, nello stesso tempo, malevolo? Perché dobbiamo essere tanto spaventati quanto attratti al punto da fis­sare avidamente e a lungo uno spettacolo, sia sulla scena sia sullo schermo, che dovrebbe farci fuggire inorriditi e indurci a tutto pur di dimenticarlo?

Che cosa succede ai meccanismi di difesa che chiamiamo in nostro aiuto quando vogliamo dimenticare le più insostenibili esperienze fatte da svegli al di fuori del mondo dello spettacolo e delle pagine dei libri… qualcuno intrappolato in un edificio in fiamme senza possibilità di scampo, un paralitico che esala l’ul­timo respiro nella corsia di un ospedale, un mendicante cieco, carico d’anni che cammina a fatica in mezzo a un’allegra folla di festaioli?

È perché esiste, sepolto nelle profondità della nostra mente, un “quid” imprigionato che sa cosa significa essere morti o non avere più speranza di scampo ed è perciò capace di identificarsi con i mostri da incubo e con le creature che rivivono dopo essere uscite dalla tomba?

Forse, in un certo senso, noi facciamo esperimenti di laborato­rio su noi stessi; forse recitiamo inconsciamente alla Boris Karloff, stesi in preda a narcosi su un lettino, e con il copione sepolto nella profondità del nostro animo, lentamente e orribilmente ci ridestiamo alla vita mentre i lampi saettano tutt’intorno a noi?

Perché, quando abbiamo letto Giro di vite di Henry James, torniamo più e più volte a rileggerlo, quasi potessimo vedere quel “quid” sepolto rispecchiarsi mostruosamente nella ragnatela di tenebra che lentamente e inesorabilmente si avvolge intorno ai due bambini terrorizzati?

Non potrebbe darsi che le storie di vampiri e di lupi mannari provochino la stessa specie di fascino ipnotico, malevolo come lo sguardo dei serpenti, perché la trasformazione dell’uomo in be­stia fa scattare in fondo alla nostra mente un meccanismo simile?

La resurrezione dei morti non è il più spaventoso e nello stesso tempo il più irresistibile e attraente argomento della letteratura, anche se i grandi maestri di questo genere sono così pochi che es­so non occupa una parte preponderante nella creatività umana, unicamente perché l’immaginare un essere fatto di carne non più viva, riportato alla vita in modo non naturale, ci pone di fronte all’ignoto in un confronto che è tanto inevitabilmente falso quan­to inevitabilmente vero?

Noi siamo tormentati da quell’orrore come certi animali da la­boratorio crudelmente chiusi in un labirinto cieco, pungolati ol­tre il limite della sopportazione da qualcosa che non possono spe­rare di capire, ma al quale sanno di doversi sottomettere.

La resurrezione dei morti può assumere aspetti sottili e dispa­rati travestimenti, e a volte non è neppure necessario che siano i morti a dover essere rianimati per alzarsi dal lettino con aspetto di mostri.

Certo, costruire sembianze umane con materia inanimata, e non importa se la forma esteriore è bellissima, e soffiare in esse la scintilla della vita significa togliere alla mente umana le sue di­fese.

Quando Bobby mi stava seduto davanti, per un momento le mie difese non funzionavano più. C’era in lui qualcosa di straor­dinario, una maturità e una capacità di percezione in assoluto contrasto con la sua età. Esteriormente era un ragazzino spetti­nato con le lentiggini sul naso. Interiormente…

Come ho potuto permettergli di guidare i miei pensieri come ha fatto, talvolta con impazienza, come se seguendo un filo d’i­dee suggerite da lui mi fosse impossibile soppesare al loro giusto valore le informazioni che gli davo, e inserirle in un quadro che gli sarebbe stato utile?

Utile per cosa? Ricordavo altre cose che aveva detto, cose che ora, ripensandoci, mi sembravano tanto strane da essere incredi­bili.

“Può darsi” aveva detto “che si stia evolvendo un nuovo tipo di uomo da quello che noi ci siamo compiaciuti d’immaginare come uno stampo in cui è stata foggiata tutta l’umanità. Che certezza possiamo avere che quello stampo non sia stato rotto? L’esisten­za di questo superuomo in mezzo a noi potrebbe essere l’unica protezione dell’umanità contro le fredde, imperscrutabili intelli­genze di altri mondi”.

“E tu credi che l’umanità abbia bisogno di questa protezione, adesso?” gli avevo chiesto.

“Ne sono certo. Quello che le è successo uscendo da casa Oakham non è stato un episodio isolato. Io stesso ho vissuto un’espe­rienza simile e non dubito che altre ne accadranno, ad altre per­sone. Per ora si tratta di casi rari, forse, e coloro che sanno o so­spettano la verità possono essere stati costretti al silenzio”.

“Uccisi?”

“O fatti prigionieri. Credo che essi procedano con cautela, passo passo, se vogliono persuadere tutti, qui a Lakeview, che i Martin sono esseri umani come lei e me, rispettabili membri di una comunità che non è ostile ai nuovi venuti, purché abbiano solide basi e si sappia chi sono. Per questo devono aspettare e guardarsi intorno. Nei primi stadi di un esperimento come que­sto, molte cose possono andare storte, per cui chiunque venga a scoprire accidentalmente la verità deve esser ridotto al silen­zio”.

“E poi?”

“Se l’esperimento riesce ci saranno molti Martin in tutte le cit­tà e i paesi della Terra. Avranno dei compiti da svolgere e li svol­geranno… e la Terra sarà conquistata”.

Ripensai al momento dell’arrivo di Bobby. Quando l’ho porta­to qui, invitandolo a sedere davanti a me, abbiamo cominciato a parlare. Io lo giudicavo un quattordicenne sveglio, e niente più. Anche quando se n’è andato non avevo la sensazione, che ho in questo momento, che, se esiste un superuomo in mezzo a noi, può darsi che non occorra cercarlo molto lontano…

Il bagliore si accese così all’improvviso sulla parete opposta che sulle prime pensai che il vento avesse sollevato la tenda la­sciando entrare un fiotto di sole abbagliante nella stanza. Ma un raggio di sole non ha la capacità di far dissolvere la parete di una stanza e di far emergere dal bagliore un’ombra scura che stringe in pugno una specie di tubo corto e con l’estremità arro­tondata.

L’omba uscita dal bagliore avanzava verso di me, assumendo via via che si avvicinava forma umana e poi, più lentamente, le fattezze di una donna dagli occhi scintillanti, che puntava il tu­bo verso di me, mentre la luce accecante si diffondeva sul pavi­mento e sul soffitto e nel mio cervello prendevano forma le pa­role.

“Questo è difficile per loro. Le energie che cementano la materia resistono a una manomissione così pericolosa e lo spo­stamento termonucleare è di breve durata. Il mio corpo e la parete attraverso cui sono passata sono stati trasformati in energia radiante da questo tubo. Ma la disintegrazione del tuo corpo non sarà così dolorosa. Non te ne accorgerai nemmeno, e quando riprenderai conoscenza anche la tua struttura atomica sarà tornata normale. Ma non devi muoverti, altrimenti dovrò ucciderti”.

La signora Martin era immobile. Lentamente sollevò il tubo finché non l’ebbe puntato in direzione della mia testa.

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