6 Laura Hartley

Il mio sentimento di colpa aumentò quando John Dyson disse: — Deve avere letto e restituito qualcuno di quei libri. Mi piacereb­be dare un’occhiata a tre o quattro.

— Ma perché? — chiesi, con la sensazione che Bobby stesse di nuovo fissandomi.

— Bobby è turbato per qualche serio motivo — rispose lui. — Se n’è accorta anche lei. È molto cambiato in queste ultime settimane. Forse i libri ci daranno un indizio sulle cause del suo turbamento. In un ragazzo della sua età non è troppo difficile stroncare sul nascere sensazioni o pensieri che potrebbero pro­vocare dei gravi blocchi mentali paralizzando la sua capacità di adattamento alla vita che lo aspetta. Adesso è sulle soglie del­l’adolescenza, e i prossimi due o tre anni saranno un periodo critico. Fra i quattordici e i diciotto basta la minima deviazione per precipitare nell’abisso un giovane, per quanto intelligente possa essere.

Sebbene parlasse per metafora mi balenò vivida nella mente la visione di Bobby che dondolava appeso a una fune su un picco delle Alpi svizzere, con la corda che stava per rompersi e gli altri scalatori, tutti adulti, ormai arrivati in vetta che lo fissavano di­sperati e impotenti. E Bobby che li guardava a sua volta, altret­tanto sbigottito, con gli occhi sbarrati, mentre sotto di lui si spa­lancava l’abisso in cui s’addensavano le ombre della notte.

— Può anche darsi che ci si sia sbagliati completamente sul suo conto — dissi. — Potrebbe trattarsi di una fase passeggera, non diversa da quella provocata da una delle tante malattie della sua età, orecchioni o morbillo, che rendono infelici i ragazzi costrin­gendoli a casa in un giorno di vacanza.

— Bobby non è tipo da prendersela per delle sciocchezze — disse John Dyson. — E, tra l’altro, quest’anno non ha perso un solo giorno di scuola. È una crisi ben più profonda.

— E si aspetta di scoprire cosa sia, sfogliando i libri che ha let­to e restituito? — insistetti. — Non vedo come sia possibile trarne la pur minima…

— Può aver fatto delle annotazioni in margine — disse John Dyson. — Ho visto che alcuni dei suoi testi scolastici sono pieni di appunti a matita. Anzi, uno che ha restituito l’anno scorso era talmente scarabocchiato che, se non si fosse trattato di lui, l’avrei rimproverato aspramente.

Io ero scandalizzata quanto può esserlo solo una bibliotecaria di fronte a una trasgressione così nefanda.

— Non ha mai scritto niente sui miei libri! — protestai. — Non Bobby!

— E perché no? — chiese John. — È noto che l’hanno fatto anche dei professori d’università. Qualche volta il desiderio di ri­battere seduta stante un errore o un’opinione sbagliata dell’autore è irresistibile. Scommetto che le sarà capitato di cancellare più di una volta delle annotazioni in margine.

Naturalmente era vero. Ma è una cosa che non manca di in­dignarmi, e non so perché mi riusciva impossibile credere Bobby capace di sfregiare un oggetto di pubblica proprietà. Tutta­via…

— Va bene — mi arresi. — Vediamo.

Mi alzai, senza guardare verso la sala di lettura, e mi diressi verso i reparti C, D ed E della biblioteca, per cercare quattro dei libri che Bobby aveva restituito la settimana precedente. Dovetti aprirne due e controllare la scheda di restituzione, perché non ri­cordavo a memoria tutti i titoli. Ero sicura che non avrei trovato nessuna annotazione a matita, mentre sfogliavo le pagine, poiché se Bobby avesse avuto l’abitudine di farlo me ne sarei accorta da tempo.

Nonostante quel che Johnny Dyson aveva dichiarato a propo­sito dei testi scolastici, io sapevo che Bobby trattava con cura i li­bri della biblioteca… anzi, sotto questo aspetto era addirittura scrupoloso.

Come aveva detto John Dyson, c’è gente che fa delle note a margine, ma non si tratta certamente di un gesto che si possa pa­ragonare ad atti vandalici quali strappare le illustrazioni o piega­re gli angoli ogni tre o quattro pagine.

E se i commenti a margine erano intelligenti… più intelligenti delle idee esposte dall’autore del libro? In questo caso una bibliotecaria sarebbe stata giustificata se li avesse cancellati, ren­dendo così nullo il piacere che avrebbe potuto trarne il futuro let­tore di quel libro? E non era forse possibile che più di un genio misconosciuto avesse raggiunto la pienezza creativa limitandosi ad annotare in margine i libri di una biblioteca pubblica?

Rimasi lì, ferma, con i quattro libri nell’incavo del braccio, stu­pita per lo strano corso che avevano preso le mie idee. Come mai avevo scelto proprio quel particolare momento per pormi delle domande che di solito non mi sarebbero neppure passate per la testa? Il mio dovere di bibliotecaria, sotto quel riguardo, era evi­dente e non esisteva alcun motivo perché dovessi fare una mon­tagna di un sassolino inesistente.

Mi sembrava addirittura incredibile che mi potesse essere pas­sato per la mente un pensiero simile, mentre mi recavo a prende­re negli scaffali quei quattro libri che, secondo John Dyson, avrebbero potuto illuminarci sulle cause del turbamento che af­fliggeva il suo allievo più brillante.

Poco o tanto che avesse scritto Bobby in margine non contava, e io non dovevo cercar di trovare delle scuse per difendere quel gesto, pensando che fosse ispirato dal genio. Forse Bobby crede­va che fosse così, ma quanto a me…

Per un attimo mi mancò il fiato. Forse Bobby credeva che fos­se proprio così!

Allora, i pensieri che mi affollavano la mente non erano miei? O se lo erano, era stato Bobby a ordinare loro di marciare in rigi­da formazione militare in una zona inesplorata dove la mente di una donna adulta e quella di un ragazzo quattordicenne poteva­no comunicare e affrontarsi in una specie di guerra amichevole e ostile nello stesso tempo? I giovani nutrono sempre un inesplica­bile antagonismo nei confronti degli adulti, per quanto buone possano essere le loro intenzioni, e se Bobby…

Scacciai con fermezza quel pensiero. Quando ci chiedono di fare una cosa assurda — e la richiesta di John Dyson mi sembrava piuttosto insensata — la mente ha la tendenza naturale a svicolare in ordini di idee più assurdi, perché solo così si tengono alla larga le autorecriminazioni.

Ci sarebbe molto da dire sulle annotazioni marginali. Dapper­tutto esistono biblioteche i cui volumi contengono centinaia di annotazioni, tanto che capita sovente, quando sono messe all’a­sta dopo la morte del proprietario, che le offerte salgano alle stel­le perché, a volte, un’immeritata fama letteraria è completamen­te stroncata da qualche brillante commento incisivo, ritenuto un classico nel suo genere.

Fu allora che le parole precise sembrarono echeggiare nei cor­ridoi della mia mente con voce che non poteva essere la mia: “È privilegio del genio adeguarsi a regole da lui stesso create… in moltissimi campi dell’esperienza umana. Bisognerebbe essere grati che le regole non vengano trascurate più sovente, dacché molte di esse paiono del tutto prive di senso”.

Abbassai lo sguardo e m’accorsi che mi tremava la mano. Ma qualche volta basta il peso di quattro grossi volumi per giustifica­re un tremito come quello, e così strinsi le labbra e mi avviai di buon passo verso il banco, dove John Dyson stava tamburellando con le dita sulla base della macchina duplicatrice.

— Bene — dissi. — Ecco qua. Spero che Bobby non venga al banco mentre lei li sta esaminando. Se le interessa il mio parere, è una forma riprovevole di spionaggio.

— Non lo pensa sul serio. Tutt’e due cerchiamo di aiutare Bobby a superare una crisi emotiva, perché possa crescere dritto e resistente come un giovane salice.

Tutte le volte che smette di essere serio e parla in quel modo — ne ho già accennato prima perché mi secca molto — mi riesce dif­ficile perdonarlo. Tuttavia lo perdono, sempre… e poi me ne pento.

Mi sono spesso chiesta perché gli uomini preferiscano farsi aiu­tare da una donna quando intraprendono un compito assurdo. Provano un senso di colpa che credono possa scemare se si assi­curano la tacita approvazione del sesso più sensibile.

Quando John Dyson mi porse due volumi, dicendo: — Esami­ni questi, mentre io penso agli altri — ebbi l’impressione che vo­lesse coinvolgermi nella sua cospirazione.

Stavo per dirgli di sbrigarsela da solo, perché non mi andava di cospirare contro Bobby per compiacerlo. Poi mi ricordai degli strani pensieri che mi erano passati per la testa e, sebbene rifiu­tassi di credere che Bobby potesse esserne il responsabile, scoprii che ero un po’ seccata.

Era una cosa illogica. Ma poiché, per causa di John Dyson, provavo un senso di colpa, decisi che potevo smetterla di critica­re il mio comportamento e di cercare la conferma di quanto già ritenevo certo… cioè che non avrei trovato annotazioni a margi­ne nei due libri.

Il primo era immacolato e stavo lentamente sfogliando il se­condo, Siamo soli nell’Universo?, quando trattenni il fiato e lan­ciai una rapida occhiata a John Dyson, sperando che non avesse colto il mio sussulto di sorpresa.

No, non si era accorto di niente. Stava ancora voltando le pagi­ne del più grosso dei quattro libri, Universi Pluridimensionali, pensoso, con la fronte corrugata.

Il commento a margine era molto breve, scritto con la grafia infantile di Bobby, il che escludeva la possibilità che fosse stata opera di un altro lettore.

Sulla pagina, in alto, di fianco a un paragrafo sottolineato, Bobby aveva scritto: “Chiaroveggenza? Certo. Deve averlo sa­puto… come lo so io”.

Lessi in fretta il paragrafo sottolineato: “E cosa accadrebbe se apparissero in mezzo a noi, come sono realmente, creature così estranee da attirare l’attenzione? Che accadrebbe se una razza dotata di grandissima intelligenza commettesse un così incredibi­le gesto di follia? Ma è improbabile. Possiamo tuttavia essere certi che non perderebbero tempo a mettere in atto con altri mo­di le loro imperscrutabili doti naturali… e ve n’è uno che si po­trebbe rivelare disastroso su scala mondiale. Per una razza come quella sarebbe molto difficile riuscire a contrastare lo stampo ge­nuino della nostra comune umanità, che ci unisce tutti anche se non siamo uguali? Se ci chiedessero di scegliere fra un nemico politico o sociale e un nemico sconosciuto e senza faccia o incre­dibilmente spaventoso si possono avere dubbi sulla nostra scelta? Solo la voce umana ispira fiducia e le fattezze e i gesti di un esse­re umano come noi potrebbero servire come arma per la nostra distruzione. Chi potrebbe sospettare, chi potrebbe sapere che un vicino gentile, o perfino un qualsiasi individuo che non ha nulla di terribile in sé, e ispira la stessa fiducia, POTREBBE NON ESSERE UMANO?”

Non avevo poi sbagliato molto definendo i libri per cui Bobby aveva dimostrato di recente tanto interesse come romanzi di non­fantascienza. Questo non era diverso dai pochi che avevo letto, una specie di prova Rorschach vista come escursione nell’inco­gnito. L’autore era poco noto ed era morto pochi mesi dopo l’ar­rivo del libro in biblioteca. La sua scheda, oltre al riassunto del­l’unico volume che l’autore aveva scritto e dei suoi dati personali, non recava titoli di altri libri. Quel riassunto l’avevo ricavato dal­la presentazione stampata in copertina, e, sebbene la copertina stessa fosse stata poi tolta, ricordo che non avevo trascurato niente e che non avevo tralasciato particolari interessanti.

Nonostante l’autore fosse sconosciuto, il libro aveva affascina­to parecchi lettori, dato che era stato richiesto quindici volte in sei mesi.

Che avesse affascinato anche Bobby era indiscutibile. Ma che cosa significava il suo strano commento: “Deve averlo saputo… come lo so io?”

Saputo cosa? Che gli abitanti degli altri mondi, qualora fossero venuti a invadere e conquistare la Terra, avrebbero rinunciato al loro aspetto mostruoso? No… non era proprio così. Erano mo­stri ma nessuno se ne sarebbe accorto perché sarebbero sembrati dei… cordiali vicini? L’uomo o la donna della porta accanto? Pensai che non potevo essere assolutamente certa di quel che aveva voluto dire l’autore se non leggevo tutto il capitolo. E non potevo farlo perché in qualsiasi momento John Dyson avrebbe potuto alzare gli occhi da Universi Pluridimensionali e accorgersi della mia perplessità.

Dovevo proteggere Bobby o no? E se John Dyson aveva ragio­ne? E se davvero il ragazzo correva il pericolo di un turbamento emotivo in un’età in cui la minaccia poteva essere sventata solo accattivandoci la sua fiducia e dandogli la certezza che quando ne avesse avuto la necessità avrebbe sempre potuto contare sulla guida intelligente degli adulti?

“Doveva saperlo… come lo so io”. Di sicuro qualsiasi psicolo­go infantile avrebbe riconosciuto, in quel commento, un allar­mante indizio che non tutto funzionava a dovere in Bobby.

Verso gli otto o i dieci anni, i ragazzi si fanno delle idee che, in un adulto, sarebbero considerate paranoiche. Ma Bobby era troppo grande ormai per quel genere di illusioni create dall’auto­suggestione. Ciò che avrebbe potuto essere considerato un gioco in un bambino sarebbe stato invece grave in un ragazzo di quat­tordici anni. Un quattordicenne avrebbe dovuto rendersi conto di quale credito faceva alla credulità sostenendo che, in chissà quale modo misterioso, si era imbattuto in un segreto che nessun altro, eccetto forse l’autore di Siamo soli nell’Universo?, condivi­deva con lui.

Presi rapidamente una decisione. Dovevo mostrare a John Dy­son il commento in margine e il paragrafo sottolineato, altrimenti avrei mancato nei riguardi di Bobby, invece di proteggerlo.

Mi rendevo finalmente conto che le preoccupazioni di John Dyson erano fondate. Non aveva spiato senza giustificati motivi nelle preferenze letterarie di Bobby, e gli dovevo delle scuse per averlo pensato.

Accadde tanto improvvisamente che fui colta alla sprovvista. Stavo per allungare una mano verso John Dyson, quando inco­minciarono a tremarmi le dita. Dapprima pensai che si trattas­se di un tremito nervoso — mi capita alle volte, quando devo sfogliare per un’ora e più fasci di schede — e aspettai che ces­sasse.

Invece continuò. E, per di più, una violenta scossa mi corse dalla punta delle dita al gomito. Era proprio come una violenta scossa elettrica, improvvisa e dolorosa, che mi strappò un grido, mentre il libro, che tenevo con l’altra mano, cadeva sul banco.

Il dolore cessò nell’attimo stesso in cui lasciai cadere il libro e quando John Dyson si volse a guardarmi preoccupato, ero già in grado di muovere liberamente le dita senza provare dolore.

Quando vide che mi massaggiavo la mano, mi sorrise.

— Oh, no — disse. — Non avrà i reumatismi alla sua età?

Ero ancora troppo sbalordita per riuscire a rispondere. Lo guardai mentre si chinava a raccogliere il libro, e mi chiesi che cosa avrebbe pensato se gli avessi detto la verità.

Decisi di tacere. Non avrei saputo come spiegare quello che m’era successo, se lui pensava che si trattasse di reumatismi, tan­to meglio. Si possono avere i reumatismi anche a vent’anni, non è una disgrazia. La disgrazia era pensare come avevo pensato io, e cioè che qualcuno non aveva voluto che io richiamassi l’atten­zione di John Dyson su quanto Bobby aveva scritto a pagina ses­santasette di Siamo soli nell’Universo?.

Con mio grande stupore, lui sfogliò rapidamente il volume e me lo restituì con aria delusa.

— Be’, evidentemente mi sono sbagliato — disse. — Bobby non scrive sul margine dei libri della biblioteca. A quanto sembra quelli di scuola non sono altrettanto sacrosanti ai suoi occhi.

“Ma sì che scrive!”, stavo per ribattere, quando mi sentii strin­gere la gola e provai un senso di stordimento. Non riuscivo a spiccicare parola e mi sembrava d’essere sul punto di svenire.

Lo stordimento durò un attimo, ma fu sufficiente perché sen­tissi John Dyson che diceva: — Telefonerò alle sette meno un quarto. Il primo spettacolo comincia alle otto e mezzo e così avremo il tempo di cenare e di arrivare prima che ci sia troppa gente. — Bastò perché mi accorgessi che si era girato e stava an­dandosene senza voltarsi. Lo vidi fermarsi, posare una mano sul­la spalla di Bobby e dirgli qualche parola. Poi raggiunse la porta, si fermò un attimo per sorridermi agitando la mano, e scese i gra­dini che portavano in strada. Lo vidi dalla finestra mentre attra­versava Elm Street, coi capelli scompigliati dal vento.

Non appena lo stordimento passò guardai verso la sala di lettu­ra e vidi che Bobby aveva smesso di leggere. Mi guardava fisso e aveva una inequivocabile espressione di trionfo.

Dopo un momento abbassò gli occhi, e io pensai che volesse ri­cominciare a leggere. Invece chiuse Messaggi dallo spazio: realtà o fantasia?, si alzò e venne verso di me con il libro in mano. Lo posò sul banco davanti a me, e mi sorrise. Nei suoi occhi non c’e­ra traccia di colpevolezza e nemmeno d’imbarazzo.

— Può darsi che voglia riprenderlo — disse. — L’ho quasi ter­minato, ma giovedì ho preso in prestito due libri e credo che sia meglio che legga prima quelli.

Non so cosa m’impedisse di afferrarlo per un braccio e chieder­gli se i libri che aveva portato a casa contenevano delle annota­zioni a margine così indicative che i suoi genitori potevano corre­re il rischio di morire fulminati. Forse non lo feci perché m’accor­si che mi tremavano le mani e lui mi guardava in modo strano. Quando presi il libro mi tremavano ancora. Bobby si rese conto che qualunque cosa gli dicessi poteva compromettere la nostra amicizia. Nei suoi occhi si leggeva chiaramente: “Cerchi di per­donarmi. Ho proprio dovuto farlo”.

Tornò a sorridere, si volse di scatto e se ne andò. Lo vidi uscire dalla porta principale ma non attraversò Elm Street come aveva fatto il suo professore. Questo, per lo meno, non mi sorprese. Stando sul lato in ombra della strada, e proseguendo dritto verso nord, avrebbe impiegato lo stesso tempo per arrivare a casa e, per quanto giovane sia, quando uno è afflitto da sensi di colpa, ha la tendenza a evitare la luce del sole.

Appena cessato il tremito avrei dovuto alzarmi per andare a riporre il libro restituito da Bobby. Ma per un buon minuto non mi fu possibile muovermi, e adesso penso che sia stata la mia completa immobilità a indurre lo sconosciuto seduto accan­to alla finestra della sala di lettura a pensare che era improbabi­le che io guardassi dalla sua parte mentre faceva una cosa tal­mente incredibile al cui confronto il comportamento di Bobby pareva normale.

Il giovane seduto vicino alla finestra si strappava via la faccia!

Lo fece con una tale rapidità che il movimento delle dita si no­tò appena. E mentre, sconvolta, fissavo la finestra, col cuore stretto da una morsa gelida, potei vedere la carne che veniva staccata dagli zigomi, e un liquido lucido nel punto in cui le or­bite erano diventate cavernose come quelle di un teschio.

Non impiegò più di dieci secondi a ricostruirsi la faccia, serven­dosi di un pezzo di carne avanzata per allungare il naso, ampliare il contorno delle mascelle e conferire alle sue fattezze un’aria più matura.

Nessuno degli altri lettori lo stava osservando, altrimenti avrebbe notato l’orripilante trasformazione. Metà gli voltava la schiena, e gli altri erano assorti nella lettura. Aveva scelto con cura il momento, sapendo in anticipo di poter contare su una de­cina di secondi in cui sarebbe stato inosservato.

Come poteva prevedere che io avrei alzato improvvisamente gli occhi su di lui e avrei visto, per pochi spaventosi attimi, una maschera dalle fattezze umane, sotto cui si celava un’entità mo­struosa, venire strappata e riadattata? Come avrebbe potuto pre­vederlo, quando io un attimo prima me ne stavo seduta immobi­le, con gli occhi incollati sul libro restituito da Bobby?

Altrettanto terrificanti furono le parole che presero forma nel­la mia mente mentre gli ricambiavo lo sguardo gelido e ostile: “Non voglio che il figlio del banchiere mi riconosca. Già da un po’ di tempo sospetta la verità, e io lo tengo sotto costante osser­vazione. Adesso lei sa… il che è peggio… molto peggio… molto più di un pericolo. La dovrò uccidere”.

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