3 John Dyson

I ragazzi difficili! Il motivo non è noto ma certo che al giorno d’oggi non c’è scuola dove non ci sia qualche ragazzo difficile. In­vece a me piace pensare che, nascosta in una vallata verde e pie­na di pace, con picchi bianchi che scintillano in lontananza, c’è una scuola dove s’impara per il puro piacere d’imparare e l’inse­gnante è considerato una guida, un consigliere, un amico.

Chissà, forse un giorno prenderò un bastone di frassino e m’avvierò per le colline alla ricerca di quella scuola. Sia ben chia­ro, comunque, che non mi ritengo una vittima di un’ingiustizia né che voglio tornare indietro nel tempo e tanto meno auspico dra­stici mutamenti del sistema educativo.

Quando raccoglieranno le mie ceneri in un’urna, qualcuno, convinto del contrario, potrebbe servirsene per una difesa postu­ma in un articolo intitolato “Come le delusioni della scuola me­dia hanno frantumato le speranze dei nostri migliori insegnanti”.

Un simile necrologio non mi piacerebbe e, nella specifica cir­costanza, non sarei in grado di rispondere.

In effetti non mi sono mai considerato né un insegnante parti­colarmente buono, né particolarmente cattivo. Mi piacciono i bambini. Cerco di far del mio meglio per capirli e, nel mio lavo­ro, al pragmatismo professionale, unisco quel po’ di saggezza che sono riuscito a raccattare qua e là nel corso degli anni.

Per lo più sono un autodidatta. Otto anni fa ho seguito i corsi per corrispondenza di un’università e sono riuscito ad afferrare l’ultima laurea in psicologia pedagogica che conferivano in quella sessione. Come poi riesca nel mio lavoro, questo è un problema che non ho ancora risolto; comunque agli assertori del detto che saggezza e conoscenza sono rami gemelli della stessa robusta quercia, io propongo di farsi un intero anno scolastico cercando di convincere dei quattordicenni a moderare i loro impulsi ag­gressivi sviluppando al tempo stesso la propria creatività.

Non posso dire che Bobby Jackson sia un ragazzo difficile, in quanto il suo comportamento in classe non mi ha mai creato delle difficoltà. Ma quando deve svolgere a casa un compito che tiene occupati i ragazzi fino a notte (un paio di volte al mese, controvo­glia, divento un tiranno a questo proposito) ho sempre la sensa­zione che a lui basti un’ora per svolgerlo, e bene. E non solo i suoi compiti a casa sono scrupolosamente esatti e ordinati, ma sembrano anche volutamente “faticati”.

Non saprei definire con esattezza cosa voglio dire con quel “fa­ticati”, ma me ne accorgo invariabilmente. Se un ragazzo è uno schianto in matematica o eccelle in inglese, nei compiti a casa, avendo più tempo a disposizione che in classe, può dare il meglio di se stesso, senza tensione, senza patire. E l’insegnante “sa” quando un suo allievo “fatica”. E io so che Bobby non “fatica”.

Tutte le volte che incontro lo sguardo di Bobby Jackson, mi sembra che dica: “Vedi! Non riesci a trovare niente da ridire in tutto quello che faccio. Però sei convinto che ti inganni, e ti tor­menti per questo. Ma perché ti preoccupi tanto?”

A volte sono lì lì per cedere alla tentazione di chiamarlo alla cattedra e dirgli, da uomo a uomo: “Via i guantoni, Bobby. Io ti sono amico e tu lo sai. Ma mi nascondi qualcosa e questo non va bene, guasta i nostri rapporti. Non c’è niente di male se ricorri a delle scorciatoie dal momento che impari e riesci bene. Ma ti ser­vi di questo come di un motivo di antagonismo fra noi due. È co­me se tu giocassi una partita contro di me e io, onestamente, sen­to di meritare un trattamento migliore”.

Ma a che servirebbe?

Nonostante Bobby Jackson sia solo un ragazzino di quattordici anni, sempre spettinato, che non dimostra più della sua età, può chiamare in appoggio una riserva di dignità e riserbo degni di un grande dirigente coi capelli bianchi. Mi par di vederlo mentre, con un sorriso triste, mi fa capire, scuotendo la testa, che lui non porta i guantoni, e che io non ho modo di provare l’esistenza del sia pur minimo antagonismo fra noi due… almeno da parte sua.

Accettare quanto è impossibile cambiare, a volte, è una cosa che si fa a malincuore, ma sicuramente è il principio della saggezza, come potrebbe dirvi qualunque filosofo con la luna di traverso.

Tutto questo mi riporta al compito svolto a casa da Bobby. Il tema che ho dato ieri era piuttosto insolito, nel suo genere. Il programma spaziale è un argomento che un insegnante non può ignorare, anche se preferirebbe dedicare i suoi momenti liberi al­la lettura della poesia elisabettiana o a Walden Pond, lasciando sullo scaffale libri tecnici.

Così decisi di vedere come se la sarebbe cavata la classe se avessi proposto loro un immaginario viaggio insieme a me su Marte, a bordo di un’astronave abbastanza grande da ospitare tutta la classe. “Con me” invece che da soli, perché quando si dà ai ragazzi un tema che è un po’ una sfida, l’insegnante è sempre presente, e aleggia nello sfondo o come un consigliere amichevo­le, o come una nemesi persecutrice alla ricerca di errori di sintas­si o grammaticali. Talvolta si accendono dei conflitti perché loro non riescono a decidere fino a che punto sarò tollerante e com­prensivo nel correggere i compiti. Quando capita, mi concedono il beneficio del dubbio e assumono l’atteggiamento dello “stare­mo a vedere”.

Ero sicuro che almeno un terzo dei temi avrebbero meritato l’insufficienza e rimasi piacevolmente sorpreso nello scoprire che invece erano tutti discreti. Evidentemente l’idea di andare nello spazio, a esplorare mondi sconosciuti, rende nove ragazzi su die­ci più attenti e fantasiosi, allarga i loro orizzonti e li rende capaci di brillare, sia come oratori in classe sia come scrittori. In effetti nove o dieci composizioni erano così buone da rafforzare la mia convinzione che, allorquando ci soffermeremo a considerare l’ef­fetto dell’Era Spaziale sul pensiero umano, dovremo rivedere tutto il nostro ordine di idee.

Ma per quanto alcuni temi fossero eccellenti, quello di Bobby fu l’unico che lessi tre volte, con sempre crescente ammirazione, prima di segnare un bel dieci.

Stavolta aveva superato se stesso, s’era abbandonato total­mente alla fantasia con la volontà precisa di sbalordirmi. E c’era riuscito. Sotto un certo aspetto, nonostante la dovuta ammirazio­ne, la lettura del tema non fece che rafforzare la mia opinione nei suoi riguardi. Qualunque sia il valore che un insegnante attribui­sce a se stesso, la presenza in classe di uno studente al quale piace giocare a scacchi con lui è tanto un ostacolo quanto una trappola. I quattordicenni imitano quello che non riescono a capire e basta una minima espressione a tradire il pensiero dell’insegnante.

Non era difficile immaginare quello che avrebbero pensato. “Se Bobby Jackson riesce a incastrarlo e a mandarlo in bestia con le sue domande pazze, perché non possiamo riuscirci anche noi?”

Ovviamente le domande di Bobby erano tutt’altro che pazze. Ma come si poteva pretendere che si rendessero conto che la maggior parte delle cose di cui parlava alzandosi dal banco erano al di fuori della loro comprensione?

Questa volta dovevo essere ancora più cauto del solito per riuscire a mantenere la calma esteriore. Bobby aveva fatto una descrizione classica di come doveva essere Marte. Aveva ana­lizzato tutti gli aspetti delle fotografie scattate dalla sonda spa­ziale inviata su Marte nel 1965 riempiendo le lacune con una lo­gica che, almeno a mio vedere, era irrefutabile, e così facendo s’era lasciato indietro un bel pezzo gli esperti che veleggiavano ancora nel limbo.

Aveva descritto esattamente il paesaggio che il primo astro­nauta destinato a metter piede su Marte avrebbe visto, e la de­scrizione non era cervellotica: si capiva che il ragazzo sapeva di cosa parlava. Se quell’astronauta fosse stato lui, la descrizione non avrebbe potuto essere migliore.

Dieci per Bobby, dunque, e mentre leggevo e classificavo il suo tema capii dalla sua espressione che sapeva cosa mi stava passando nella mente.

“Benone, giovanotto” dissi tra me. “Appena finita l’ora avre­mo una spiegazione a quattr’occhi. Sei troppo brillante per esse­re vero. Però sei vero e il paradosso deve essere risolto, altrimen­ti io finirò col prendere tranquillanti otto volte alla settimana”.

Aspettai finché il grande orologio sulla torre del supermercato di Piazza Anderson suonò le tre (suona invariabilmente pochi se­condi prima della campanella della scuola), e non appena i ragaz­zi cominciarono a uscire incrociai lo sguardo di Bobby Jackson e gli feci segno di restare al suo posto.

Non ci guardammo più finché l’aula non fu così silenziosa che si sentivano le fronde degli alberi scosse dal vento frusciare con­tro i vetri delle finestre. Era una burrascosa giornata d’autunno, e mi sembrava di vedere gli altri scolari giocare al mondo nel cor­tile della scuola, con lo spensierato abbandono di piccoli selvaggi che hanno avuto il permesso di arrampicarsi sugli alberi della fo­resta e di cacciare in libertà.

Non so il motivo di questo paragone, né perché li immaginassi intenti a quel gioco, so solo che mi sembravano dei primitivi, se li confrontavo con Bobby Jackson. E Bobby in quel momento mi stava guardando come se avesse letto tutti i libri della biblioteca di Elm Street e si stesse chiedendo come avrei reagito se mi aves­se manifestato l’intenzione di scriverne qualcuno anche lui, tanto per riempire gli scaffali.

Finsi di dover sistemare le carte sulla scrivania per un paio di minuti. Quindi lo chiamai: — Bobby — dissi — devo dirti che il tuo tema mi ha piuttosto sbalordito. Non ho voluto discutere con te davanti alla classe, forse è stato sciocco da parte mia, ma… be’, mi sembrava sleale lodare solo uno di voi dal momento che tutti i temi sono talmente superiori alla media abituale che non mi sono ancora riavuto dallo shock.

Mi sentii fiero di me nel vedere con quanta rapidità si alzò per venire alla cattedra con l’aria di avere compreso appieno. M’ero mostrato affabile quel tanto che era necessario e gli avevo gettato l’esca preliminare adatta. Confessargli che gli altri studenti mi fa­cevano stupire quando superavano se stessi era una cosa che ca­piva e condivideva. Quando un insegnante si scopre fino a quel punto corre un certo rischio.

Ma io ero sicuro che con Bobby quel rischio era minimo. La sua intelligenza e la sua assennatezza gli consentivano di rispetta­re una confidenza e di rendersi conto che anche un insegnante può dimostrarsi comprensivo senza che questo pregiudichi la sua dignità o metta in discussione l’ordine della gerarchia scolastica.

— Le è piaciuta la conclusione del mio componimento? — mi chiese tutto premuroso e senza la minima traccia di antagonismo nella voce.

— Mi è piaciuta moltissimo — risposi. — Verso la fine hai dato briglia sciolta alla fantasia, ma non è un male.

Aveva un’espressione talmente compiaciuta che mi sentii col­pevole di aver fatto ricorso a una strategia complessa per trattare con lui. Dovevo fargli capire che non l’avevo trattenuto solo per fargli i complimenti.

— Bobby — dissi, protendendomi verso di lui e fissandolo ne­gli occhi. — Vorrei che, almeno una volta, fossi completamente sincero con me. Quanto tempo hai impiegato per completare la tua analisi marziana? Due ore… tre?

La sua risposta non fu così spontanea come avevo sperato. Spinse ancor più avanti la mascella e sentii nella sua voce una sfu­matura di antagonismo.

— Non guardavo l’orologio — disse — ma credo di aver impie­gato circa quattro ore.

— Ma è tutta farina del tuo sacco — insistetti. — O hai consul­tato qualche libro mentre svolgevi il tema?

— Non sempre occorre farlo — disse lui, in tono di sfida.

— Può darsi di no, Bobby — dissi. — Un astronomo di Monte Wilson dotato di una memoria formidabile può scrivere una rela­zione su Marte accurata ed esauriente come la tua senza consul­tare testi specializzati e controllare dati. Ma, alla tua età, un simi­le livello intellettuale è rarissimo.

— Posso aver fatto qualche piccola svista — ammise, in tono difensivo. — Non ho affatto una buona memoria, signor Dyson. Dimentico sempre le cose.

— Vorrei poterti dire che questa spiegazione è sufficiente, ma non è così — dissi. — Puoi fare degli errori e avere delle di­strazioni, ma essere comunque un genio. E poi c’è memoria e memoria. A quanto dicono lo stesso Einstein era capace di di­menticare l’ombrello e molto spesso usciva in pieno inverno senza soprabito.

Ebbi la sensazione che Bobby si rendesse conto di difendersi troppo emotivamente, perché, a questo punto, fece un brusco tentativo per rintuzzare la mia sfida svalutando la propria com­posizione in modo più generico.

— Ci ha chiesto d’immaginare quello che avremmo provato trovandoci a bordo di una nave spaziale diretta su Marte e che cosa avremmo visto all’arrivo. Senza voler essere “scientifico”, mi è sembrata una buona idea ricorrere alle foto prese dalla son­da marziana. Penso anche che avrebbero dovuto suscitare più scalpore di quanto non si sia verificato. Sotto un certo aspetto… la trasmissione di vere fotografie di un altro pianeta attraverso una distanza così enorme è una conquista che sta alla pari col prossimo sbarco sulla Luna.

Su questo punto ero d’accordo con lui. Tuttavia mi limitai a un cenno d’assenso, ed ero lì lì per ricordargli che non aveva rispo­sto alla mia domanda quando decisi invece di sfidarlo in modo più aperto.

— Bobby? — chiesi — perché l’hai fatto?

— Fatto cosa, signor Dyson?

— Perché hai cercato di farmi capire fino a che punto sei intel­ligente? So che capisci cosa voglio dire. In caso contrario… sa­rebbe inutile dilungarmi in spiegazioni.

Mi guardò per un momento in silenzio e io mi accorsi che il col­po era andato a segno. Una cosa è sapere che l’atteggiamento de­liberatamente adottato nei riguardi di un amico — o di un nemico — è stato giustamente interpretato, un’altra è constatare che que­sta consapevolezza viene usata come sfida verbale.

Capii che aveva infilato di nuovo i guantoni allorché disse: — Non sono poi così brillante, signor Dyson. No davvero.

— Non sono d’accordo — replicai — e sai cosa penso?

Fece per rispondere, ma io proseguii tanto in fretta che a lui non restò che fissarmi con occhi sempre più sfavillanti di antago­nismo. — Penso tu abbia paura che io scopra fino a che punto sei diverso dagli altri studenti e che questo mi prevenga nei tuoi con­fronti. Perciò non ti piace dare spiegazioni sui compiti di casa e quando ti interrogo in classe rispondi alle mie domande con po­che parole. Parli un po’ di più quando la tua curiosità prende il sopravvento e vuoi sapere se le mie idee collimano con le tue. Non riesci a trattenerti dal farlo, ma poi te ne penti. Riesco sem­pre a capire quando rimproveri te stesso perché ti sembra d’avere detto troppo.

Mi accorsi che era ancora ben deciso a non cedere di un palmo. Decisi, quindi, di compiere una piccola ritirata strategica. — Be’… lasciamo stare, per adesso. Ti ho chiamato per parlare del tema. Mi sembra che siamo d’accordo sul fatto che le tue conclu­sioni denotano vivace intelligenza e fantasia.

Il che era verissimo. Nelle ultime pagine aveva dato libero sfo­go all’immaginazione. Perché non incoraggiarlo a parlare libera­mente dell’ultima parte del componimento?

Stavo combattendo una piccola guerra psicologica con Bobby e se un insegnante vuole scoprire esattamente cosa pungola un allievo eccezionale nulla è più illuminante di un test associativo libero.

— Sicuramente tu sei andato un po’ oltre a quello che avevo in mente quando discutemmo il tema — dissi. — A quanto pare, per te Marte è un mondo totalmente morto e la vita quale noi la conosciamo non può mai essersi evoluta su un pianeta tanto simi­le alla Luna. Ma tu speculi sulla possibilità che possa esser servito da base per centinaia di migliaia d’anni, a dischi volanti originari di altri sistemi. Ma non puoi certo crederci. Prendere sul serio una simile possibilità…

— Non solo Marte — m’interruppe Bobby prima che potessi proseguire. — Anche Venere, e forse tutti gli altri pianeti. Que­sto, perlomeno, elimina uno degli ostacoli che impediscono a tanta gente di prendere sul serio i dischi volanti… in realtà si trat­ta dell’ostacolo maggiore. Potrebbero aver attraversato lo spazio fra stella e stella in un passato remoto e non essere costretti ad andare e tornare continuamente.

— Oppure sono appena arrivati — dissi.

— Sì… anche questo è possibile — concesse Bobby. — Ma co­munque sia, servendosi dei pianeti del sistema solare come base, avrebbero un sicuro punto d’appoggio.

— Ho detto che non ti rimprovero certo per aver dato libero sfogo alla fantasia, Bobby. Lo sviluppo del talento immaginativo è molto importante nei componimenti. Più avanti, ho intenzione di assegnarvi temi più scientifici per saggiare la vostra competen­za tecnologica nell’utilizzazione dei dati che vi fornirò… almeno in parte. Ma questa volta non ho badato se vi siete lasciati tra­sportare dalla fantasia. Però vedo che tu hai preso molto sul serio quelle fandonie sui dischi volanti… a quanto pare ci credi seria­mente, e questo mi turba un po’.

— Secondo lei sono tutte fandonie, signor Dyson? — ribatté. — Quasi tutti i giorni vengono segnalati avvistamenti di Ufo…

— E con questo? — chiesi. — Ci sono molte spiegazioni plau­sibili per quello che i testimoni oculari asseriscono d’avere visto. Sin da quando avevo la tua età, e anche meno, ho visto in cielo luci o forme luminose di tutti i generi. Non ho mai creduto che si trattasse di Ufo. Ci sono aurore boreali, rifrazioni di riflettori, ri­flessi dei fanali d’auto in corsa sulle nuvole basse… luci insomma che possono muoversi, apparire e sparire, ondeggiare e assumere forme ottiche di ogni genere, anche quelle che si attribuiscono ai dischi volanti.

— Ma c’è il caso di chi ha visto un insieme di Ufo che si muo­veva a velocità incredibile, in formazione di volo militare — dis­se Bobby. — E alcune fotografie, non molte, sono inconfutabi­li.

— Fino a che punto, Bobby? Dimentichi come sia facile foto­grafare. Le esposizioni doppie hanno una facoltà quasi miracolo­sa di mostrarci fantasmi che fanno capolino dietro la spalla di qualcuno. È capitato anche a me di scattare l’istantanea di qual­che gruppo di amici e poi dimenticare di avvolgere la pellicola, col risultato che ognuna delle persone ritratte aveva un doppio astrale. Se si tratta poi di fotografie di paesaggi, la cosa è più faci­le e dà risultati ancora più sorprendenti — aggiunsi, nella speran­za di trascinarlo in una discussione che scoprisse le sue difese. — Servendosi di filtri speciali e giocando sulle luci e sulle ombre si può rendere spettrale e misterioso qualsiasi angolo campestre, con strane luci in cielo. Quello che mi sorprende, piuttosto, è il modo grossolano con cui sono state contraffatte fotografie di di­schi volanti. In molte di queste i cosiddetti Ufo non sono che stu­pidi puntini luminosi sparpagliati nel cielo.

— È impossibile truccare una foto che riesca a superare un’approfondita analisi tecnica — disse Bobby, e io sapevo, natural­mente, che aveva ragione. — Una semplice doppia esposizione non ingannerebbe nessuno, tantomeno un esperto.

— Spero che tu non creda negli ometti verdi, Bobby — dissi.

— Non si vede perché debbano essere piccoli e verdi — ri­spose.

Era, in pratica, un’ammissione che lui prendeva sul serio tutta la faccenda. Non avevo previsto che si spingesse tanto oltre, e per un momento non seppi cosa dire.

— È un errore mostrarsi troppo scettici, signor Dyson — con­tinuò lui. — Quando tanta gente…

— Un momento, Bobby — lo interruppi. — Non molta. Non ingannarti su questo punto. Ti sei mai chiesto quali sarebbero i sentimenti della stragrande maggioranza della gente se fosse con­vinta davvero di essere osservata e spiata giorno e notte da visita­tori provenienti da un altro mondo? Ipotizzare che ciò sia possi­bile, può anche non essere dannoso, ma averne l’assoluta certez­za, accettare la cosa come parte integrante della vita…

Lo guardai con aria accusatrice, nella speranza che si rendesse conto di quanto mi fosse difficile credere che poteva aver parlato dei dischi senza aver preso in considerazione quell’aspetto del problema.

Forse invece l’aveva fatto, e l’aveva taciuto, per non scoprirsi troppo.

— Capisci, Bobby? — continuai. — Ammettere che lassù nel cielo c’è qualcuno, irraggiungibile e sconosciuto, che ci osserva, ci costringerebbe a vivere in uno stato di continua incertezza, con la terrificante sensazione di essere completamente alla mercé di una intelligenza sconosciuta dotata di talenti imperscrutabili; un’intelligenza capace di individuare il minimo cambiamento nel­la nostra vita quotidiana. Come potremmo vivere in modo nor­male con questa specie di incubo sopra la testa? E poi…

I vetri delle finestre vibravano in continuità, e il sole era nasco­sto dietro nuvole cariche di pioggia. C’è qualcosa di tetro in un’aula vuota dove un insegnante rimane solo con i suoi pensieri. La presenza di Bobby avrebbe dovuto servire ad alleviare un po’ quella tetraggine. Invece no. Perché, mi chiesi, gli ho chiesto di restare, quando alla fine della conversazione Bobby è più che mai un enigma per me?

Ebbi la sensazione che non sarei venuto a capo di niente, che lui avrebbe segnato un punto a suo vantaggio e che sarebbe usci­to dalla scuola con un cenno di sfida, forse perfino seccato con me per averlo trattenuto oltre l’orario, col temporale che si ad­densava e lui che, non avendo l’ombrello, si sarebbe inzuppato tutto. Questo se avesse piovuto. Mi augurai che non piovesse.

Bobby stava osservandomi con aria interrogativa, come se non riuscisse a capire perché mi fossi interrotto nel bel mezzo di quel­lo che stavo per dire. Prolungai per un momento il silenzio, risi­stemando i fogli del suo componimento come se fosse un mazzo di carte: questo perché capisse bene che non mi lasciavo metter fretta da lui.

— È già abbastanza brutto vivere con la minaccia della guerra termonucleare — continuai. — E cosa credi che succederebbe se tutta l’umanità si convincesse d’essere sottoposta a una sorve­glianza non umana? Chi più avrebbe fiducia nei progetti per il fu­turo, chi potrebbe ingannarsi pensando di poter continuare la so­lita vita: amare, creare, odiare e, sì, anche morire? Dove finireb­bero la libera scelta, il libero arbitrio, le libertà materiali e spiri­tuali del genere umano?

— Non credo che tutto si fermerebbe, signor Dyson.

Se la fine del mondo fosse giunta in quel momento la fiduciosa asserzione di Bobby non avrebbe potuto essere demolita più istantaneamente. Il rombo del tuono fu come l’esplosione di una decina di bombe tutte insieme, e il bagliore del lampo fu il più violento che avessi mai visto. E non svanì quando si spense il fra­gore del tuono, ma saettò nell’aula.

Un paio di ramificazioni si ruppero e sfrecciarono verso il soffitto percorrendolo un paio di volte senza che la loro incande­scenza diminuisse. Il resto si trasformò in un fulmine globulare che avanzò roteando verso Bobby, restando sospeso per un terri­bile momento sopra la sua testa.

Fu allora che tutto parve fermarsi, il vento che aveva fatto vi­brare i vetri della finestra, il battito violento del mio cuore, e lo stesso Bobby. Non solo era terrorizzato. Nella sua rigidità c’era un che d’innaturale, e innaturale era anche il pallore del suo viso.

Sembrava trasformato in una statua di pietra incapace di muo­versi e di gridare. Solo gli occhi si muovevano, guardando verso l’alto, sebbene fossero abbagliati dalla radiosità della palla di fuoco che, come un’aureola abbagliante, stette sulla sua testa per un lungo, eterno minuto. Poi scomparve. Non si allontanò, sce­mò riducendosi a un puntino luminoso, e svanì in uno sbuffo di fumo con un lieve sfrigolio, come la fiamma di una candela spen­ta tra le dita bagnate.

Bobby tornò lentamente alla vita. Negli occhi dilatati si leg­geva un immenso terrore che non svanì con la scomparsa del fulmine. Tremava violentemente ed era così vicino a un collasso che se non mi fossi alzato prontamente a sorreggerlo sarebbe caduto ai piedi della cattedra.

Aprì e richiuse le labbra, e il flebile sussurro che riuscì a emet­tere somigliava al singhiozzo di un bambino terrorizzato sperdu­to in un bosco. Poi fu scosso da un violento brivido e pronunciò alcune parole distinte. Bobby chiedeva aiuto con tutto il suo infi­nito terrore, con tutta la sua disperazione e io non potei fare altro che annuire e ancora annuire in un altrettanto disperato tentativo di rassicurarlo.

— Loro devono averlo saputo… ci stavano osservando. Non era un fulmine… — sussurrò Bobby.

Ma io non sapevo cos’altro avrebbe potuto essere. Non esiste nulla di più capriccioso del comportamento di una potente carica elettrica quando l’atmosfera funziona da conduttore. Un fulmine può distruggere un piccolo oggetto di metallo, zigzagare in tutte le direzioni e risparmiare un imponente complesso di macchine. C’è anche gente che è stata “colpita” dal fulmine e, pur avvolta in un’acceccante bagliore, non ha riportato il minimo danno.

No, non erano le parole di Bobby a turbarmi tanto, ma qualco­sa di diverso. Le sue parole mi avevano stupito e allarmato, ma non in rapporto a quello che era successo. Il fulmine poteva essere trascurato, considerandolo alla semplice stregua di un’insolita manifestazione dell’assoluta imprevedibilità delle scariche elettriche temporalesche. Ma non potevo assolutamente trascurare la reazione emotiva di Bobby.

Per un momento si era trovato in grave pericolo e poteva dirsi fortunato di essere vivo. Passato lo spavento, avrebbe dovuto es­sere sopraffatto dal sollievo. Invece il suo terrore aumentava sempre più, e l’aveva indotto a pronunciare parole di cui non riu­scivo a capire il senso.

Che lo spavento gli avesse sconvolto la mente? A chi aveva al­luso con quel “loro”? Fuori si era fatto molto buio, e io m’aspet­tavo che da un momento all’altro cominciasse a piovere. Perché non aveva aspettato lo schianto di un altro tuono prima di dire che era successo qualcosa di anormale?

Tremava tutto e stringeva forte il mio braccio, come se si aspettasse di sentir suonare le trombe del giudizio universale. Se fosse scoppiato un incendio nell’aula, non avrebbe potuto essere più atterrito.

— Bobby — lo pregai — cerca di dominarti. Stai bene, non hai niente da temere…

Trascorsero parecchi minuti prima che dai suoi occhi scompa­risse quell’espressione di terrore. Continuava a fissare la finestra e, sebbene non potessi esserne sicuro, avevo la sensazione che sperasse, sebbene con paura, che un improvviso scroscio di piog­gia ponesse fine all’incertezza.

Piovesse e tuonasse pure! Era l’unico modo questo di ridurre entro uno schema normale il fulmine che col suo comportamento imprevedibile aveva quasi ucciso un ragazzino spaventato. Se fosse rimasto un fenomeno isolato sarebbe stato più inquietante, anche se lampi e tuoni senza pioggia non sono un fenomeno poi tanto insolito.

Non piovve, e dopo alcuni minuti la luce aumentò. Ma ormai non me ne preoccupavo più, perché in Bobby era sopravvenuto un grande cambiamento. Era riuscito a vincere la paura e mi guardava come se si vergognasse di essersi lasciato spaventare da una cosa così trascurabile come un incontro faccia a faccia con la morte.

Mi ricordai quello che aveva detto e, senza cercare di nascon­dere il mio turbamento, gli chiesi: — Cosa significa “Loro devo­no averlo saputo… ci stavano osservando?” L’hai detto prima.

Mi fissò come se per la prima volta udisse quelle parole e le trovasse sgradevoli.

— È impossibile che l’abbia detto, signor Dyson — mi rassicu­rò. — Dovete avere frainteso. Certo ero spaventato, e se ne sarà accorto. Ma non ricordo di avere parlato.

Dunque non ricordava e forse era vero. Però mi sembrava im­probabile. Forse preferiva non ricordare.

— Hai detto anche che non è stato un fulmine — dissi. — Cosa te lo fa supporre?

— Non ricordo di aver detto nemmeno questo, signor Dyson.

— Capisco. Allora, credi che sia stato un fulmine.

— Ma certo. Che altro potrebbe essere stato? Il cielo si era oscurato come se stesse per piovere. Capita spesso che lampeggi a ciel sereno, d’inverno. Solo uno schianto di tuono, e un fulmine abbagliante.

— Lo so — convenni. — Sembra che sia proprio sopra di noi, e fa tanto chiasso da svegliare un morto. Per un momento si ha l’impressione che la casa crolli, poi ci si ricorda che è di­cembre… è questo che hai pensato, anche se adesso non siamo in dicembre?

Speravo che non stesse all’erta e dicesse ancora qualcosa di ir­razionale. Ma non cadde nella trappola.

— Non esattamente. Ho creduto che un fulmine avesse colpito un albero giù nel cortile. Ma quando è entrato in classe ero trop­po spaventato per riuscire a pensare.

— Certo, Bobby. Possiamo ben dire che oggi è stata una gior­nata memorabile. Per un momento hai corso un gravissimo peri­colo. Immagino che te ne sia reso conto, e che non ti sia accorto di quello che dicevi. In preda a un grande spavento, la mente può giocare strani scherzi.

Cinque minuti dopo sedevo solo alla cattedra, e mi chiedevo se oltre a preoccuparmi per l’eccezionale intelligenza di Bobby do­vevo preoccuparmi anche delle sue reazioni emotive. L’avevo congedato senza insistere e senza che lui tentasse ulteriormente di convincermi che non ricordava quello che aveva detto.

Forse le mie preoccupazioni erano esagerate. Ma se Bobby, nonostante l’intelligenza, correva il pericolo di diventare strano o squilibrato, era mio obbligo, in qualità d’insegnante, di scoprire i sintomi del male.

Alcune volte la vita può diventare complicata e, in questo caso, i comportamenti delle persone sono di difficile interpretazione. Tutto questo mi dava da pensare, e coinvolgeva la mia sfera emotiva. E quando si ha un lavoro impegnativo e manca il tempo di meditare sui problemi seri e giungere a una conclusione in me­rito, si soffre di conseguenza.

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