12 Laura Hartley

Alternai angosciosi periodi di sonno e di veglia, con la certezza che mi avrebbero ucciso. Nei momenti di lucidità vedevo solo una nuda parete grigia, a tre o quattro metri dal punto in cui ero seduta con le mani legate dietro la schiena, e su quella parete c’era un continuo alternarsi di luci e ombre che si aggrovigliavano senza mai assumere un significato preciso.

Quanto durerà ancora?, mi chiedevo angosciata. La fine arri­verà mentre dormo? E sarò così esausta da non riuscire a muo­vermi né a supplicare i miei carnefici quando mi verranno incon­tro con le loro armi terribili?

E come saranno quelle armi? Come saranno loro? Enormi e informi, fusi con le ombre, privi di viso ma non di vista? E io, co­me sarò io ai loro occhi? Riuscirò a sembrare una creatura così minuscola, atterrita, così pietosa da destare in essi un fremito di compassione? Oppure, e questo è assai più probabile, dovranno uccidermi, distruggermi a causa di quanto ho visto?

Di quanto ho visto… sì. Ora lo so. Una faccia strappata e rifat­ta. Com’erano educati, formali e gentili, i Martin, quando si fini­va per conoscerli! Il “signor” Martin mi parlava anche quando doveva svolgere un compito che certo per lui non era facile. Tra­sformare il muro del ristorante in energia nucleare radiante e far­mi passare attraverso di esso con l’ausilio di un tubo luminoso che avrebbe potuto distruggerci tutt’e due se lui avesse fatto il minimo errore di calcolo, dev’essere stato molto difficile.

Ma questo non gli impedì di confessare quanto già sapevo fin dal primo momento in cui l’avevo visto strapparsi la faccia vicino alla finestra della biblioteca. Lui non era umano… e non lo era nemmeno la signora Martin.

Allora mi aveva avvertito che mi avrebbe ucciso, e quando le parole si formarono nella mia mente avrei dovuto capire e sapere che era inutile lottare quando mi comparve alle spalle, al risto­rante.

Ma l’avvertimento non era stato preciso, ed egli si scusò anche per quello. Il significato delle parole era che loro mi avrebbero uccisa. Ma prima volevano osservarmi da vicino per un certo pe­riodo, per vedere fino a che punto sarebbe giunta la mia dispera­zione e se sarei stata ancora capace di odiarli e di sfidarli. Io avrei dovuto diventare una specie di barometro vivente per dare a loro la possibilità di “misurare” il grado di resistenza che la razza umana avrebbe opposto quando tutte le città e i villaggi della Terra sarebbero stati invasi dai vari Martin. Io ero una fra i primi a scoprire la verità sui Martin di Lakeview, per questo ero impor­tante ai loro occhi. Ma solo per un po’, solo per poco tempo. C’e­ra anche un giovane che dovevano uccidere e lo tenevano sotto osservazione in un’altra stanza grigia dove le luci e le ombre si al­ternavano di continuo sui muri, e i Martin andavano a parlargli di tanto in tanto così come venivano a parlare con me. Era un ven­ditore ambulante di enciclopedie e aveva commesso l’errore di bussare alla porta dei Martin in un momento sbagliato, proprio quando il signor Martin cominciava… be’, a scaricarsi. Succede­va, ogni tanto. Gli pulsavano gli occhi, e questo era il primo sin­tomo. Voleva dire che se non tornava al più presto alla Gower Cavern sarebbe diventato cieco e sordo.

Tutta questa storia avrebbe potuto essere molto divertente, in un certo senso; divertente come una farsa surreale se purtroppo non fosse stata vera. E non c’era niente di farsesco nel ritrovarsi in una stanza — compartimento, meglio — tutta grigia a chiedersi perché continuavo a resistere.

No, non era affatto divertente.

A volte riuscivo a chiudere gli occhi, stringendo forte le palpe­bre e indugiavo su un’altra verità che poteva essere consolante a patto di non evitarla come quasi tutti fanno. Perché dovevo avere paura di morire dal momento che tutti devono morire? Un av­venimento universale può essere davvero così brutto come lo di­pingono? Possibile che la natura, nonostante tutte le crudeltà di cui è prodiga, sia anche capace di attuare una cosa tanto irragio­nevole su una scala tanto ampia? Voglio dire, è possibile che la morte sia davvero così come comunemente la si dipinge? Dev’es­serci qualcosa nella morte, un segreto profondamente nascosto e che non abbiamo ancora scoperto. Ma quando lo scopriremo, forse la morte non sarà più così terribile.

L’unico inconveniente era che quando chiudevo gli occhi a quel modo cominciavo ad appisolarmi, tanto ero esausta, e non c’è nulla di consolante nei sogni che si fanno durante un sonno in­terrotto da periodi di veglia che sono peggio di un incubo.

Non feci molto caso al bagliore che, dapprima tenue, si accese sulla parete, perché le ombre continuavano a muoversi e anche le luci, muovendosi, diventavano a tratti più intense. Per due o tre minuti l’ignorai completamente, o almeno mi sforzai d’ignorarlo. Ero certa che il gioco di luci e ombre veniva proiettato sulla pare­te da mezzi meccanici e costituiva parte dell’esperimento d’osser­vazione che compivano sulla mia mente, come le frequenti visite dei Martin.

Ma la nuova luce era più ferma e continuava ad aumentare di volume e d’intensità. Cosicché, dopo poco fui costretta a consta­tare che la parete cessava d’essere una solida barriera tridimen­sionale perché attraverso essa stava passando una figura circon­data da un alone luminoso.

Atterrita, mi dissi che doveva essere il signor Martin, ricordan­do quanto era successo al ristorante. Prima, non era mai entrato in quel modo nel compartimento e se lo faceva adesso significava che…

Il terrore mi attanagliò il cuore e, per un istante, riuscii solo a fissare l’intruso avvolto di luce, come se non stesse attraversando la parete da solo, ma fosse seguito da un’alta figura con le orbite vuote e una falce in pugno.

In quel luogo e in quel momento, la Morte non poteva che giungere così, come uno scheletro, al seguito di un carnefice cru­dele e spietato che aveva aspetto umano, ma umano non era.

Poi, d’improvviso, l’urlo che mi era stato quasi strappato dalle labbra e che io non sarei mai stata capace di soffocare, quell’urlo che sarebbe continuato fino a diventare puramente animalesco mentre il mio respiro si fermava, fu spezzato con lo spezzarsi del­l’illusione. Lo sentii morire in gola, quel terribile urlo strangola­to, morire in un milione di frammenti mentre quello che m’aspet­tavo di vedere divenne quello che realmente era. Cioè un cupo fantasma irreale creato dalla mia mente. La minuscola forma di Bobby Jackson emerse dalla parete luminosa e al suo seguito non c’era una torreggiante figura che impugnava la falce e lui stesso era a mani vuote e non aveva neppure un tubo luminoso.

Appena mi fu vicino, mi parlò mentre mi liberava dai legami: — Anche una parete solida può esser resa permeabile dalla po­tenza del pensiero puro, signorina Hartley, purché ci si sforzi ab­bastanza. Potrà sembrarvi incredibile, ma è vero. Può farlo an­che lei, o il signor Dyson. Un nuovo tipo di uomo sta nascendo e io sono uno dei primi, ma non il solo. Ce ne sono centinaia… mi­gliaia… e altri nasceranno nelle future generazioni. Geni mu­tanti…

Sembrava che parlasse a se stesso e non a me, e per un mo­mento ebbi la sensazione che il suo trionfo fosse così terribile e completo da sbalordirlo, al punto che solo il suono della sua voce poteva dargliene conferma e indurlo ad accettarlo.

— Abbiamo pochissimo tempo — continuò in fretta. — Lei deve fare esattamente quello che le dirò e non esitare, o tirarsi indietro o dubitare della mia capacità di impedire loro di distrug­gerla. Il signor Dyson la sta aspettando nella caverna e deve rag­giungerlo e uscire all’aperto più presto che può. La guiderò fino a lui e la raggiungerò non appena avrò liberato un giovane che è te­nuto prigioniero come lei. Non c’è niente da temere… basta che abbia completa fiducia in me. Vuole… può farlo?

Era chino su di me, e i suoi occhi erano all’altezza dei miei. Mi sembrò che diventassero più grandi, quando incontrai il suo sguardo.

— Sì, Bobby — risposi. — Posso… e voglio.

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