4 Bobby Jackson

Avevo commesso due sbagli nello stesso giorno, ma se confron­tati con quello che avevo realizzato, non c’era da essere scon­tenti.

Il primo errore risaliva a sei mesi prima ma, quando il signor Dyson mi trattenne in classe per rivolgermi alcune domande a cui non era facile rispondere, assunse una nuova dimensione. L’erro­re iniziò allorché adottai un atteggiamento sbagliato nei riguardi del signor Dyson, all’inizio dell’anno scolastico. L’ambivalenza è sempre pericolosa e qualche volta può essere disastrosa. Io non avrei dovuto cercare di nascondere il mio Q.I. comportandomi come uno scolaro mediocre, senza lode e senza infamia. Ma, an­che possedendo un Q.I. elevato, questo può essere molto diffici­le, specie quando si deve ingannare un giorno dopo l’altro un in­segnante perspicace come il signor Dyson.

Non saprei dire esattamente perché sentivo di doverlo ingan­nare. Lo ammiravo e lo rispettavo e avrei dovuto capire che non era tipo capace di tradire la fiducia. Ma suppongo che la circospezione fosse talmente radicata in me che a volte non potevo fa­re a meno di comportarmi in modo sciocco. E il signor Dyson adesso può pensare che io abbia recitato con lui una specie di commedia delle congetture. Quando mi ha messo alle corte con le sue domande ho assunto un’aria seccata, e questo è stato senz’altro il culmine della mia follia.

Il mio secondo sbaglio avrebbe potuto essere ancora più grave. Quando il fulmine saettò in classe mi spaventai al punto da la­sciarmi sfuggire delle frasi senza senso che devono averlo indotto a indagare, sia pur furtivamente, se nella mia mente non alber­gassero per caso i germi della pazzia.

Allora ero sicuro, e lo sono anche ora, di essermi trovato in gravissimo pericolo di morte, e non solo per colpa di un fulmine capriccioso. Il rombo del tuono è stato udito per un vastissimo raggio e il cielo si è oscurato un po’. Ma questo cosa prova? Non era certo un normale temporale estivo. E se tutte le domande che avevo fatto in giro la settimana prima, e la visita in casa Martin, e le cinque volte che avevo deciso di seguire il signor Martin, se tutto ciò li avesse indotti a… Uccidermi con un fulmine che non è scaturito da una nube temporalesca ma è stato creato artificial­mente? Ho fatto di tutto per convincermi che non è possibile. Ma continuo a pensarci e se ci pensa anche il signor Dyson, dopo tut­to quello che avevo detto sui dischi volanti, che per me esistono, anche lui forse è in pericolo. Però non credo d’averlo convinto. Anzi, ne sono sicuro. Era turbato perché pensava che io non avessi il cervello a posto. L’ho capito da come m’ha guardato quando mi sono girato e sono uscito dall’aula.

Piantare il germe del sospetto nella sua mente era l’ultima cosa che avrei dovuto fare. Perciò ho negato di aver detto quelle paro­le che a lui devono esser sembrate completamente senza senso. Qualunque cosa pensasse di me, adesso non importava molto, purché stessi ben attento a non tradirmi una seconda volta. Lui ha detto che la paura può giocare strani scherzi alla mente e in­durre la gente a dire cose senza senso.

Due disgraziati errori… ma sul piatto della bilancia pesava molto di più quello che ero riuscito a ottenere. Non solo ero riu­scito a seguire non visto il signor Martin per cinque volte, ma ho scoperto il posto in cui lo si può reperire fra le dodici e la una di lunedì, mercoledì e venerdì.

Le abitudini metodiche degli “umani” devono essergli sembra­te molto importanti per dare di sé l’immagine che aveva deciso di dare perché, a quanto mi risulta, da due mesi, il lunedì, il merco­ledì, il venerdì, a mezzogiorno preciso si presenta al Caffè e Ta­vola Calda di Betsy Winstock.

Il locale si trova in Wilmot Street ed è il secondo del genere in città. Per caso conoscevo una delle cameriere e questo mi è stato di gran vantaggio. Non prevedevo difficoltà, infatti, nel rinnova­re un’amicizia che avevo trascurato per parecchio tempo.

Ero sicuro che la signorina Enslow mi avrebbe accolto cordial­mente con un bel sorriso, e le mie speranze non furono deluse. Non appena entrai nel locale e andai a sedermi davanti al banco che corre parallelo a una fila di otto tavoli con il ripiano di vetro accostati uno all’altro mi disse: — È un pezzo che non ti fai vede­re, Bobby. Ho sentito la tua mancanza.

Si protese sul banco, per stringermi la mano.

— Attenta, signorina Enslow, mi farà venire delle idee sba­gliate — dissi.

Sorrise arricciando il naso, convinta che io, da studente, avessi preso una cottarella per lei. Sapevo che non dimostravo un gior­no di più dei miei quattordici anni. Ma non ho mai conosciuto una cameriera di tavola calda che non riesca a far dimenticare, se vuole, l’età dei suoi ammiratori dagli otto agli ottant’anni.

Naturalmente non c’era niente di male in tutto questo, e dal momento che la vita in una città di mezza tacca diventa spesso e volentieri monotona, io provo sempre un senso di gratitudine quando una persoma attraente come la signorina Enslow aggiun­ge qualche anno alla mia vera età, anche se lo fa per scherzo.

Dieci minuti dopo posava davanti a me una fetta di torta di mele e mi versava una seconda tazza di caffè. — Lo vuoi mac­chiato e con due zollette di zucchero, vero, Bobby?

Io assentii, imbronciato. Stavolta il signor Martin non era arri­vato puntuale — era mezzogiorno e un quarto — e incominciavo a temere che avesse interrotto le sue abitudini perché si era accorto che io mi esponevo volontariamente al pericolo al solo scopo di vedere fino a che punto lui sarebbe arrivato. Una tavola calda al centro di Lakeview, in una splendida giornata di settembre, non era il posto più adatto per eseguire un secondo esperimento con tuoni e fulmini ed era dunque probabile che ci avesse pensato e avesse preferito aspettare un’occasione migliore.

Non pensate che fossi coraggioso fino alla temerarietà. Ero an­dato lì, per provare a me stesso che i miei timori erano infondati e che il fulmine era stato un capriccioso fenomeno dovuto al tem­porale, e nient’altro. Speravo che il signor Martin non si fosse ac­corto che l’avevo seguito di nascosto per una settimana e avevo fatto un sacco di domande in giro. Per me era della massima im­portanza sapere se la mia visita in casa Oakham lo aveva indotto a credere che c’ero andato perché sospettavo di lui, e quindi do­vevo essere sorvegliato. Poteva anche darsi che la signora Martin non gli avesse fatto la mia descrizione e che lui non fosse in grado di riconoscere in me il ragazzetto sventato che si era dondolato sul cancello e aveva procurato senza motivo tanti fastidi a sua moglie. Se lei non aveva visto in me una minaccia non avrei do­vuto preoccuparmi, né di lei né di lui.

— Mi sembri diverso stamattina — disse la signorina Enslow, come se le avessi attaccato il mio malumore. — Dov’è andato a finire lo spirito irlandese che ti sprizzava da tutti i pori?

Sapeva benissimo che non ero irlandese, più di quanto non lo fosse lei ma, se ciò la divertiva, che diritto avevo di guastare il di­vertimento?

— Sarà perché cresco e divento più serio — dissi. — Però è strano… nessun altro se n’è accorto.

Lei mi guardò con aria pensosa. — È vero, Bobby. Hai sempre dimostrato più dei tuoi anni e preferisco parlare con te che… be’, che con chiunque altro.

— È perché tutt’e due sappiamo come va il mondo — dissi. — Pochi lo sanno.

— Continua a parlare, Bobby — disse lei. — È meraviglioso sentirti dire una cosa simile. Ammiro, più di tutti, quelli che san­no come va il mondo. Ma non credo che tu l’abbia detto in quel senso.

Veramente, non sapevo nemmeno io cosa avevo voluto dire. Ma parlare mi evitava di pensare e di preoccuparmi troppo, e quando lei mi chiese: — Che cosa sappiamo, io e te, Bobby, che gli altri non sanno? — decisi di darle corda.

— Non ho detto “nessuno” — le rammentai. — Ho detto “po­chi”. Noi due non siamo le sole persone in gamba di Lakeview. Però sappiamo sempre come comportarci. E a volte non è facile.

— Capisco cosa vuoi dire, Bobby — disse lei arricciando il na­so. — Ci vuole esperienza. Una volta non sapevo niente degli uo­mini. Ma dopo aver parlato con te…

— Non parlavo per scherzo — le dissi. — Tutti hanno dei se­greti che si sforzano di tenere nascosti. Ma se ti trovano simpa­tico e si fidano di te, qualche volta ti lasciano dare una sbirciatina, non senza averli prima messi nella luce migliore. Per arriva­re alla verità bisogna fare le somme da soli. Non ci sono altri si­stemi.

— Adesso mi fai paura — disse lei, scherzando. — Cosa sai di me, Bobby? Mi sono tradita spesso?

— Oh, la stupirebbe saperlo.

— Bene, dimmi. Ho il diritto di sapere la verità su me stessa.

— La sa… altrimenti non avrebbe tanta paura che io possa avere indovinato un segreto che nasconde a tutti fin da quando aveva… be’, la mia età. Non che ci sia niente di male — aggiunsi, per rassicurarla — però la induce a pensare di essere diversa da­gli altri e a nessuno piace essere così diverso.

— Non so di cosa stai parlando — disse lei. Ma dal rossore che le salì alle guance si capiva che mentiva.

— Io invece credo di sì — dissi. Rimescolai il caffè, perché tut­to lo zucchero si era depositato sul fondo, e le sorrisi al di sopra della tazza. — Fin da bambina ha sempre cercato di andare per la sua strada senza badare agli altri — continuai. — È sempre stata solo lei stessa. Se ne sta in disparte e si diverte a guardarsi, e sor­ride alle sciocchezze che fa la gente, ma sempre con indulgenza. Lei è lei e loro sono loro, e sa, nel suo intimo, che quanto le suc­cede non è né più né meno importante di quello che succede agli altri. Sa che non è possibile cambiare la gente o il mondo e ha de­ciso da un pezzo di non tentarci nemmeno. Se altri ci si provano, e qualche volta con successo, a lei non fa né caldo né freddo. Non c’è niente di male in questo, e sbaglia ritenendolo una colpa.

Capii di aver detto troppo. La signorina Enslow mi stava guar­dando come se per incanto fossi penetrato nel suo cervello e avessi potuto vedere l’intreccio di pensieri e di emozioni che si agitava nella sua mente.

A volte riesco a farlo — ma non così naturalmente — e non vado certo in giro a gridarlo ai quattro venti. Non avevo detto altro che la verità sul suo conto, ma adesso cominciava a sospettare di me. Era un’anima candida e gentile, e son certo che soffriva le pene dell’inferno quando doveva ammazzare una mosca; ce n’e­rano tre adesso, che ronzavano intorno al banco, e il proprietario si aspettava che lei le schiacciasse. Ma il solo fatto che il Caffè e Tavola Calda Betsy Winstock era, in ordine di popolarità, il se­condo del suo genere a Lakeview, significava che avevo piantato i semi del sospetto in un terreno pericoloso. Senza volere si sa­rebbe lasciata sfuggire qualcosa sul mio conto che poteva dan­neggiarmi, ogni volta che la conversazione fosse caduta su “quel ragazzino precoce, quel Bobby Jackson, sapete. Il figlio del ban­chiere”.

Per un momento lei continuò a fissarmi in silenzio come se avessi sciorinato sul banco una dozzina di medaglie vinte a scac­chi, e frugassi in tasca alla ricerca della pipa e di un foglietto di appunti su cui avevo scritto delle equazioni matematiche che avevo promesso di risolvere per la Commissione dell’Energia Ato­mica.

Per uno strano motivo che non sono mai stato capace di pene­trare a fondo, alla gente non piace di sentirsi dire la verità nuda e cruda sul proprio conto, anche quando è lusinghiera. Perciò non mi meravigliai quando disse: — Bobby, tu hai una testa troppo matura per la tua età. Vuoi un’altra tazza di caffè?

La mia età? Avrei voluto farle notare che solo un momento prima mi aveva praticamente fatto capire che per lei non avevo età.

Ma ormai l’avevo sbalordita anche troppo, e il male era fatto. Con quel “Vuoi un’altra tazza di caffè?” in realtà mi aveva detto: “Bobby, per favore, lascia perdere e non insistere con queste fol­lie. Io devo servire anche gli altri clienti”.

Mi girai a guardare e li contai: erano sette. E solo tre erano già serviti. Mi riuscì subito antipatico il tipaccio muscoloso in giacca di cuoio seduto in fondo al banco. La sua faccia dai lineamenti grossolani aveva una pelle che sembrava cuoio, e lui stava guar­dandomi come se il ritardo della signorina Enslow nel servirlo fosse dovuto a me… e in fin dei conti non aveva torto.

I clienti al banco erano tutti così impazienti che per poco non notai il signor Martin. Era seduto sull’ultimo sgabello, vicino al tipo in giaccone di cuoio, e teneva la faccia sepolta nel menu. Evidentemente era entrato e si era seduto dopo che io avevo guardato in giro per la terza volta. Mi convinsi che non si deve contare sulla puntualità di nessuno, tantomeno su quella del si­gnor Martin. Gli schemi di comportamento di creature che non sono umane sono imprevedibili e il fatto di non averci pensato prima mi sconvolse perché avevo commesso un altro imperdona­bile errore.

Lo scambio di battute con la signorina Enslow era stato abba­stanza innocente, ma perché avevo insistito fino a tradirmi in mo­do così plateale?

La osservai mentre prendeva l’ordinazione del signor Martin. Con mia sorpresa, lui mise da parte il menu e indicò la macchina del caffè. Se non voleva altro che un caffè perché aveva sprecato due minuti buoni a esaminare il menu? Non aveva trovato niente di suo gusto o gli bastava il caffè per nutrirsi e aveva letto il menu a mio solo beneficio?

La signorina Enslow annuì, e andò a versargli una tazza di caffè bollente, per poi allontanarsi, dalla mia parte, a prendere altre ordinazioni.

Quello che accadde poi fu così sorprendentemente impensabi­le da sembrare fatto apposta, anche se non lo credo. Con mio grande stupore, il signor Martin di colpo perse, o fece finta di perdere, la sua calma olimpica, il suo assoluto controllo, e “per­mise” alla sua mano di tremare violentemente mentre portava la tazza alle labbra.

Ma la tazza non arrivò mai a destinazione, perché gli cadde schizzando di caffè bollente i calzoni del tizio in giacca di cuoio.

Esistono uomini così irascibili ai quali incidenti come quello possono provocare uno scoppio, un’esplosione di violenza indici­bile. Il gigantesco omaccione balzò in piedi bestemmiando, affer­rò il signor Martin per le spalle e lo sollevò di peso dallo sgabello.

Continuò a scuoterlo finché non lo mandò a sbattere con tutta la sua forza contro il juke-box sistemato contro la parete oppo­sta. Normalmente l’unica conseguenza sarebbe stato un gran ru­more di vetri rotti, seguito dalla caduta di un malconcio signor Martin. Invece accadde qualcosa di molto diverso.

Ci fu sì, un frastuono di vetri infranti, ma il signor Martin non crollò sul pavimento. Continuò ad arretrare barcollando con una lunga scheggia di vetro che gli sporgeva dal petto. L’afferrò cer­cando di strapparla via, piegato in due, e il suo assalitore arretrò a sua volta, con aria terrorizzata, mentre l’ultimo frammento di vetro cadeva con un tintinnio dal juke-box sfondato.

Era chiaro che l’omaccione non aveva voluto commettere in­tenzionalmente un gesto così terribile, e quando la signorina Enslow cominciò a strillare, girò sui tacchi, si precipitò verso la por­ta e scomparve.

Non dimenticherò mai l’espressione del signor Martin quando riuscì a svellere dal petto quella baionetta di vetro, che continuò poi a stringere in pugno. Aveva l’espressione di chi è terrorizzato perché non riesce a capire, e continuava a strofinare la mano li­bera avanti e indietro sul petto, finché non la fermò in un punto, come se volesse frenare un fiotto di sangue.

Tre uomini balzarono in piedi e corsero verso di lui, ma egli si raddrizzò bruscamente e fece cenno che non si avvicinassero.

— Sto bene — disse con voce sorprendentemente alta e calma. — Benissimo. Il vetro si è incastrato nel portafogli e mi ha appe­na sfiorato. Vi prego di non chiamare la polizia e di non far niente che dia pubblicità all’accaduto e lo faccia finire sui giornali. Sono sicuro che il proprietario del locale se ne avrebbe a male. Lo conosco bene…

Era una richiesta così strana e insolita che nessuno fu capace di ribattere. Tutti continuarono a fissarlo stupiti e increduli e non si mossero quando lui tornò a chinarsi per deporre per terra la baionetta di vetro e drizzarsi di nuovo.

Durante quella manovra aveva continuato a guardarmi. Men­tre poi si avviava alla porta si fermò una sola volta, per chinarsi sul banco a bisbigliare qualcosa alla signorina Enslow. Poi uscì, e lo vidi un momento, dalla vetrina, avviarsi sotto il sole con passo misurato, le spalle erette. E mi lasciò con la testa piena di dubbi.

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