5 Laura Hartley

Gli aspetti più toccanti e indicativi dell’esperienza umana sono spesso fuggevoli, cosicché la mente conscia li percepisce prima che svaniscano, come increspature provocate dal vento sul mare calmo, o come una foglia sospinta a spirale verso l’alto, che ben presto si perde nell’immensità del cielo.

Forse è per questo che sono diventata bibliotecaria… non solo perché fin dal giorno che incominciai a muovere i primi passi mi sentii irresistibilmente attratta dai libri, ma perché mi piace gui­dare gli altri verso quelle fuggevoli rivelazioni della bellezza e della saggezza che si trovano sovente fra le pagine di un grande libro così come si trovano nei boschi d’autunno o su un’abbaci­nante spiaggia quando le onde si frantumano in spuma.

Un’occhiata alla sala di lettura il sabato mattina, quando non c’è un posto libero e un terzo dei lettori sono ragazzi e ragazze al di sotto dei vent’anni, è una ricompensa sufficiente per una don­na che si avvia alla trentina e che, agli occhi di quei ragazzi, è quasi una vecchia zitella.

Sopra ogni cosa godevo nel guardare Bobby Jackson, l’unico ornamento veramente brillante di quello che, per me, era un gruppetto di ragazzi con cui non era facile ragionare e che talvol­ta mi facevano arrabbiare.

Di regola i ragazzi minori di quindici anni stanno di sopra, nel­la sala di lettura destinata appunto a loro. Ma già a dodici anni Bobby era riuscito a persuadermi a fare un’eccezione per lui.

Non mi sono mai pentita di avergli accordato quel privilegio temporaneo — avrei potuto anche stampigliare “permanente” sul­la sua tessera, perché ambedue sapevamo che non gli avrei mai revocato il permesso — in quanto la luce che si accendeva nei suoi occhi allorché trovava qualcosa di nuovo o di meraviglioso nelle pagine di un libro, mi dava la sensazione di stringere fra le mani una pepita d’oro che avevamo scavato insieme.

Mi accorgevo sempre quando aveva uno di quegli improvvisi barlumi di verità o di bellezza che si aprivano e si chiudevano in un attimo, e l’eccitante eventualità che tutto il suo avvenire potesse essere influenzato da qualcosa che aveva letto in una biblioteca dove io ero incontrastata regina, mi dava un senso di orgoglio.

Ogni tanto mi avvicinavo a lui, posandogli una mano sulla spalla, e gli chiedevo: — Come va stamattina, Bobby? — e lui mi rispondeva in modo da farmi sentire ancor più profonda­mente la sensazione che avevamo scoperto insieme qualcosa di importante.

Quel sabato mattina non c’era niente d’insolito nella sala di lettura, se si eccettua il fatto che Bobby era talmente assorto nel libro che mi aveva richiesto da non accorgersi quando andai alla finestra per calare a metà la veneziana.

Tornando, mi fermai accanto a lui per dire: — Non dovresti leggere col sole che ti batte sul libro, Bobby. Ti rovinerai la vista.

— Sapevo che avrebbe abbassato la veneziana.

— Davvero? — replicai. — Dai molte cose per scontate, Bob­by. Se non avessi guardato per caso dalla tua parte…

— Si sarebbe alzata comunque per andare ad abbassare la ve­neziana.

I misteri non svelati, anche se trascurabili, hanno la facoltà di ridurre la mia efficienza quando devo svolgere il monotono com­pito di inserire ed estrarre le tessere dal duplicatore, e le parole di Bobby m’indussero a chiedergli subito una spiegazione.

— Come facevi a saperlo? — domandai.

— Era facile — disse lui, e io ebbi la sensazione che non avesse nemmeno badato alla mia domanda tanto era assorto nel libro che stava leggendo. Ma non mi bastò quella risposta.

— Ti ho chiesto come facevi a saperlo — replicai bruscamente. — Non come sia stato facile. Non mi dirai che sai leggere nel pensiero, Bobby.

— Basterebbe che volessi.

— Che volessi… cosa?

— Il sole… negli occhi — borbottò lui con impazienza, come se non vedesse l’ora di vedermi andar via. — Le ho detto di…

D’un tratto si raddrizzò, depose il libro e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, quella mattina. Ebbe un sussulto e una vampa di rossore gli imporporò le guance.

— Mi scusi, signorina Hartley — balbettò. — Non sapevo cosa dicevo.

Naturalmente lo sapeva benissimo, invece. Ma capita a volte di essere tanto assorti che non ci si rende conto appieno di quan­to ci viene detto. Di solito si risponde a orecchio, ma non in mo­do illogico. In realtà, più che altro, si cerca di sintonizzare la pro­pria mente cercando di eliminarne quella specie di interferenza statica, e salgono alle labbra parole che in altre condizioni non si pronuncerebbero.

— Ti aspettavi che abbassassi la veneziana perché mi avevi detto di farlo — insistetti. — Hai detto proprio così, e adesso de­vi spiegarti, perché non capisco.

Nella sala c’erano adulti e tre giovani e ormai l’attenzione di tutti era fissata su noi due. Io parlavo a bassa voce, ma questo non bastava a giustificare il peggior delitto che un bibliotecario può commettere: infrangere la regola del silenzio da lui stesso ri­gorosamente fatta rispettare.

— Non… era quello che intendevo dire — spiegò Bobby. — Solo speravo che avrebbe abbassato la veneziana e sapevo che l’avrebbe fatto, se mi fossi alzato a chiederglielo. Così ho ritenu­to inutile dirglielo. È come… be’, qualche volta quando ci si tro­va su un autobus affollato e si fissa intensamente il passeggero che sta davanti… e quello si volta. Sembra che la gente senta…

— Dunque hai fatto un piccolo esperimento di percezione ex­trasensoriale — dissi.

— Se vuole chiamarlo così — fece lui. — Io non sarei del pare­re. È molto attenuato.

Attenuato! È caratteristico di Bobby dare delle definizioni si­mili, che servono solo a rendere ancora più oscura e vaga la que­stione. Quando una persona riesce a far fare qualcosa a un’altra limitandosi a fissarla, significa che ha comunicato telepaticamen­te con lei. Certo, nelle parole di Bobby c’era una mezza verità. È un esperimento talmente semplice che molti lo hanno tentato, e sono rimasti stupiti nel constatare che spesso funziona.

A questo livello, la telepatia è data per certa. Ma quel che Bobby apparentemente non capiva era che stava cercando di na­scondermi i suoi poteri telepatici, e di convincermi che erano normali, trascurabili.

Non so perché fossi tanto turbata per quel che Bobby pensava di aver fatto. Era sciocco, non aveva senso, e in fondo non ero arrabbiata con lui. Ma non posso sopportare che uno prima di­chiari una cosa e poi cerchi di negarla, proprio come aveva fatto lui.

— Hai dichiarato di avermi “detto” d’attraversare la stanza e abbassare la veneziana — ripetei. — Non si tratta solo di una co­sa che tu speravi facessi in risposta a un tuo vago desiderio.

Prima che lui potesse rispondermi, una voce che mi fece sob­balzare — sebbene la riconoscessi — mi sussurrò all’orecchio: — Sta dando il cattivo esempio, dea. Non sempre il silenzio è d’oro. Ma qui si ritiene che sia sacro, e che venga offeso in modo tanto grave dalla divinità tutelare…

Tutte le volte che John Dyson mi parlava con quel tono mi rammaricavo di non avere a portata di mano un secchio d’acqua gelata da rovesciargli in testa.

Non ero arrabbiata con lui più di quanto non lo fossi con Bob­by. Ma che cosa si può fare quando una persona che ti piace insi­ste nel presumere che tu sia sempre di umore allegro, espansivo e socievole, e disposta a danzare in una sala da ballo che esiste solo nella sua mente? E che diritto aveva di farmi sussultare a quel modo avvicinandosi silenziosamente sulle suole di gomma e fa­cendomi scivolare un braccio intorno alla vita, ignorando com­pletamente quello che avrebbe potuto pensare uno dei suoi al­lievi?

Non appena mi sentì irrigidire con aria di rimprovero, staccò subito la mano, ma non prima che tutti i presenti fossero stati sfa­vorevolmente colpiti dall’inopportunità di quel gesto.

Se l’avessi visto entrare sarei rimasta al banco, e nessun ordine telepatico di Bobby mi avrebbe indotta ad alzarmi. Seduta, col banco fra noi due, mi sarei sentita al sicuro, sebbene lui abbia le braccia lunghe.

Adesso il male era fatto, e io ero sicura che le tre vecchie pet­tegole del tavolo vicino — in primis la signorina Hargrave — non avevano più il minimo dubbio che fra noi due ci fosse “qualcosa”. Se fosse stato vero non me ne sarebbe importato più di tanto. Quando le chiacchiere sul nostro conto contengono più verità che menzogna, la cosa migliore è assumere un’aria sicura e indi­pendente. Si ha un bel dire che la nostra vita privata è una cosa che riguarda soltanto noi, e sostenere le proprie posizioni svento­lando bandiere di sfida. Ma quando le dicerie sono completa­mente false, sfida e indipendenza falliscono prima di nascere. Come ci si può difendere contro qualcosa di cui non ci si sente colpevoli nemmeno se fosse vera? Lo si può fare, certo, ma senza convinzione. L’unica cosa che fa rabbia è la malignità del pette­golezzo in sé.

“Tempo stasera” pensai “e sarò sulla bocca di tutti”. A discol­pa di John Dyson bisogna dire che secondo me non aveva la mi­nima idea che il suo gesto potesse fornire l’occasione alle lingue pettegole di mettersi in movimento. Tutti gli uomini, praticamen­te, si comportano qualche volta in modo puerile e irresponsabile. Però lui avrebbe avuto molto da imparare da Bobby Jackson.

A quattordici anni, Bobby era in grado di dare un luminoso esempio di autocontrollo al suo trentaduenne mentore. Era pro­prio quel che stava facendo ora, fingendo di trovare tanto inte­ressante il libro da non riuscire a staccar gli occhi dalla pagina.

— Salve, Bobby — disse John Dyson, come se lo vedesse solo in quel momento. Era una trascuratezza che avrebbe potuto irri­tare un allievo brillante come lui, ma Bobby si limitò ad alzare gli occhi dal libro e a sorridere.

— La signorina Hartley e io stavamo parlando delle percezioni extrasensoriali — disse. — Io credo che ci sia del vero… perché a volte s’indovina quel che pensano altre persone.

Forse sbaglio, ma mi parve di vedere un’ombra di stupore ne­gli occhi di John Dyson.

— È interessante, Bobby — disse — cosa ti fa…

Io l’interruppi posandogli una mano sul braccio. — Abbiamo bisbigliato anche troppo. Lei stesso ha appena detto che do il cat­tivo esempio.

— Ho anche detto che una dea ha dei privilegi — mi ricordò. — E anche se non fosse una dea, il privilegio sussisterebbe ugual­mente. Nell’antichità, l’oracolo dei templi di Apollo era sempre una donna, e godeva di tali privilegi che poteva parlare finché vo­leva. E poiché qui lei è la sacra custode, oltre che la dea…

— Non sono una dea e non ho alcun privilegio — tagliai corto. — Mi vergogno di me stessa, dovrebbe vergognarsi anche lei. L’unico scusabile è Bobby, perché sono io che l’ho indotto a par­lare.

Naturalmente parlavo un po’ sul serio e un po’ per scherzo, e lui, poi, era tutt’altro che serio. Ma questo non impediva che mi sentissi turbata e seccata. Le incongruenze mi turbano sempre, e giudicavo perlomeno strano quel modo di parlare di John Dyson in presenza di Bobby. Come si poteva pretendere che il ragazzo rispettasse la regola del silenzio in biblioteca se il suo professore la prendeva sottogamba al punto da scherzarci su e da indurre perfino me ad ascoltarlo, per un momento?

Considerava Bobby così diverso dai suoi compagni che il deco­ro, che un insegnante dovrebbe sempre mantenere, poteva esse­re messo da parte completamente, senza rischi? La distanza che si presume debba dividere un insegnante dai suoi alunni s’era co­sì accorciata nei confronti di Bobby da non funzionare più come barriera e da consentire fra loro due un cameratismo da adulti?

Ma come mai m’era venuta un’idea simile? Avevo la sensazio­ne che mi si fosse insinuata nel cervello senza che lo volessi e vi rimase a lungo, come se non volesse scomparire.

Mi voltai bruscamente, e tornai al banco, sicura che il sussurrìo avesse infastidito tutti i presenti, compreso uno sconosciuto — certo di passaggio a Lakeview — che mi aveva salutato con un sor­riso quando avevo attraversato la stanza per abbassare la vene­ziana. La sua faccia mi sembrava vagamente familiare e probabil­mente l’avevo già visto. Ma di una cosa ero certa, il suo sorriso si era trasformato in cipiglio.

John Dyson mi seguì al banco. Mi sistemai con la macchina duplicatrice fra noi e, per fargli capire che ero molto occupata, co­minciai a sistemare le schede dall’A all’H contenute nel cassetto che avevo estratto dallo schedario di metallo prima di commette­re l’errore d’ingaggiare una battaglia verbale con Bobby Jackson.

Quello sciocco scambio di battute mi riecheggiava nella mente, ed ero molto più padrona di me di quanto non lo fossi stata la se­ra prima quando John Dyson m’aveva stretta fra le braccia e ave­va premuto le sue labbra sulle mie davanti alla porta di casa mia, una porta di stile georgiano restaurata, illuminata dalla lunetta. Un appartamento a pianterreno con una porta simile è una rarità a Lakeview, ma avevo avuto l’impressione che l’architettura non gli interessasse per niente, in quel momento.

Rimase a guardarmi in silenzio, mentre facevo scorrere le schede, poi si protese sul banco e spinse da parte il cassetto.

— L’argomento della discussione con Bobby doveva essere molto interessante — disse. — Perché non vuole parlarne?

— Se vuole saperlo — risposi — mi riesce difficile dimenticare quel che lei ha fatto un momento fa. È imperdonabile. Tutti sa­ranno convinti che non è venuto qui per prendere un libro.

— Ha ragione — disse lui. — Adesso sanno che a Lakeview esiste per lo meno un uomo che non la considera solo una gentile bibliotecaria… Chissà perché nessuno ci ha pensato prima.

— Solo perché abbiamo pranzato qualche volta insieme — dis­si — si arroga il diritto di entrare in biblioteca e abbracciarmi tut­te le volte che le viene in mente. In un’epoca tumultuosa come la nostra una bibliotecaria di vecchio stampo, gentile con tutti, può suscitare dei sentimenti di gratitudine, ma non fino a questo pun­to! Il suo modo di fare non può ingannare nessuno. Lei dice che è proprio quel che vuole, e io so perché. Il suo ego maschio è lusin­gato dal fatto di avere scoperto in me qualcosa che altri non han­no notato.

— Andiamo…

— Non ha pensato — proseguii imperterrita — che quel che crede di aver scoperto può anche non esistere? Io sono un topo di biblioteca e nessuna strabiliante acconciatura riuscirà mai a na­sconderlo.

— Adesso sta dicendo delle madornali sciocchezze — dichiarò lui. — Che se ne renda conto o no, lei è una donna molto attraen­te. È solo la polvere che si solleva dagli scaffali e che l’avvolge che impedisce agli altri di vederla come è.

— La biblioteca è pulitissima e lo sa — dissi. — Perderei subi­to il posto se lasciassi che la polvere si accumulasse sui libri, an­che se certuni non sono mai richiesti.

— Be’… la pensi come vuole — si arrese lui. — Io la trovo bel­lissima. Una vera dea che sorge dalle onde avvolta in sette veli misteriosi.

Come si può ragionare con un tipo così? Feci ancora un tenta­tivo. — Spero che quanto è successo ieri sera non le abbia fatto pensare che la dea ha i piedi d’argilla. Era un bacio di commiato, né più né meno. E mi ha meravigliato constatare che l’ha preso tanto sul serio.

— Per me è stato una specie di… be’, di esplosione — disse lui. — Ha fatto crollare tutta la mia timidezza. E quando la timi­dezza è crollata e tutte le difese spianate, come si suol dire, spes­so si agisce in modo sciocco e irresponsabile. Ecco perché ora le chiedo scusa se l’ho abbracciata per un istante. Non avevo la mi­nima intenzione di metterla in imbarazzo.

— Che strano modo di parlare di un bacio! — dissi. — Un’esplosione. Io credevo che i baci fossero teneri.

— Abbiamo cercato, ma non credo che ci siamo riusciti.

— Adesso mi fa venire la sensazione che sia io a dovermi scu­sare. Forse è meglio metterci una pietra sopra.

— Impossibile — disse lui. — No, mi ha ancora detto se mi perdona o no.

— Purché mi dia la parola d’onore che non lo farà più.

— Mai di domenica… o nelle ore di biblioteca — rispose lui. — Prometto.

Dalla mia espressione, ero sicura che sapeva d’avere riportato una piccola vittoria. Ma doveva essere altresì certo che sarebbe durata, perché aspettò un minuto prima di dire: — E adesso, for­se mi racconterà perché stava discutendo di telepatia con Bobby Jackson.

— Bobby aveva il sole negli occhi — spiegai — e perciò mi ero alzata per andare ad abbassare una veneziana. Mentre tornavo al banco, mi sono fermata accanto a lui per dirgli di stare attento a non rovinarsi la vista, e lui… be’, mi ha detto che sapeva che sa­rei andata ad abbassare la veneziana. Non credo che si rendesse conto di quel che diceva, tanto era assorto nel libro che stava leg­gendo. Gli ho chiesto come lo sapesse e la sua risposta mi ha fat­to saltare la mosca al naso.

— E che cosa ha detto, Laura? — volle sapere John Dyson. Io l’osservai sorpresa, chiedendomi perché mi avesse interrotta con tanta impazienza. Evidentemente giudicava molto importante quello che Bobby aveva detto.

— Ha asserito di avermi detto di andare alla finestra e sapeva che l’avrei fatto… perché aveva comunicato telepaticamente con me. Dopo di che abbiamo cominciato a discutere, ma mi è sem­brato molto colpito e sorpreso come se, involontariamente, aves­se detto qualcosa che non doveva.

— Capisco — disse John Dyson. — Temo che Bobby cerchi di nascondere molte cose, e non solo a lei. Non riesco a capirlo fino in fondo e sì che gli sono simpatico e si fida di me come della sua famiglia. E dico molto, perché adora suo padre.

La sua aria preoccupata mi colpì. Era molto serio, adesso, co­me se le sue ultime parole fossero scaturite da una zona della sua mente rimasta fino allora nascosta.

— È da un po’ che Bobby ha qualcosa che lo preoccupa — dissi. — Crede che quanto ha detto mi giunga nuovo?

Lui sembrò sollevato nel sentirmi parlare così. — No, non del tutto. Lei è un’ottima osservatrice, e Bobby frequenta spesso la biblioteca. Quanto? Tre o quattro volte la settimana?

— Per lo meno.

— E di solito rimane a lungo?

— Qualche volta tre o quattro ore — risposi. — Specie il saba­to mattina.

— Che genere di libri legge? — chiese John Dyson.

— Prima leggeva libri di storia, biografie, trattati scientifici, e qualche volta romanzi: Faulkner, Hemingway, Bellow. Anche H. G. Wells e Poe, e Jules Verne. Di poesia, Shelley, Baudelaire, e ancora Poe. Niente di giovanile, nemmeno L’ultimo dei Moicani. Secondo lui, Cooper aveva uno stile ridicolmente pue­rile, e una volta trascrisse tre pagine di Calza di cuoio per fare un esempio di come avrebbe dovuto essere scritto. Se avesse riscrit­to tutto il libro, sono certa che l’avrebbe migliorato. Ma non è poi un’impresa troppo difficile. Non credo invece che riuscirebbe a migliorare un solo paragrafo di Moby Dick, nonostante le frasi oceaniche. O Henry James, nonostante i suoi periodi lunghi inte­re pagine.

— E adesso?

— Da circa un mese solo libri di…

— Di cosa, Laura?

— Li si potrebbe definire romanzi di “non fantascienza” — ri­sposi. — Abbiamo una sessantina di titoli che corrispondono al genere, e tutti recenti. Sono romanzi nel senso che si tratta di opere di fantasia a contenuto drammatico. Non pretendono di essere dei trattati scientifici. Speculano con la fantasia su quello che potrebbe succedere se… se qualcuno premesse il bottone sbagliato a Cape Kennedy e il mondo finisse domani. Non sono romanzi veri e propri perché mancano d’intreccio, di conflitto di caratteri e di soluzione finale. In massima parte aderiscono a una premessa rigidamente prestabilita.

— Se ne ricorda qualcuno?

— Be’… Siamo soli nell’Universo?, Riesame del fattore della distanza cosmica, Universi pluridimensionali, Viaggi spaziali, ol­tre la velocità della luce, Gli osservatori silenziosi, Gli Ufo e l’ipo­tesi fondamentale del tempo, Spazio tangenziale e abitanti di altri mondi, Singolari mutazioni fisiche nell’atmosfera esterna terre­stre. Per lo più sono pubblicati da piccole case editrici e pochissi­mi vanno al di là della prima edizione.

— Prende a prestito anche libri da portare a casa, no?

— Oh, certo — risposi. — Sette o otto la settimana. Negli ulti­mi quindici giorni ha letto tutti quelli che l’interessavano. Ne sta leggendo uno anche adesso.

Guardai verso Bobby, che teneva gli occhi incollati su “Mes­saggi dallo spazio: realtà o fantasia?” Ebbi la sensazione che mi stesse osservando e avesse abbassato gli occhi appena in tempo per non incontrare il mio sguardo. Se era davvero capace di leg­germi nel pensiero — cosa che mi rifiutavo di credere — si sarebbe sicuramente accorto che lo avevo tradito: una cosa trascurabile, lieve forse, ma ciononostante tradimento…

Ho sempre creduto che un bibliotecario che rivela a un estra­neo curioso i titoli dei libri che un altro prende in prestito con­travviene all’etica della sua professione, come un avvocato o un medico troppo chiacchierone. Ma John Dyson non era un estra­neo e tutti e due eravamo preoccupati per Bobby… il che può scusarci, ma forse no.

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