Alla rivista militare per l'anniversario dell'indipendenza sfilò per la prima volta in pubblico un reparto dell'arma atomica.
Era un giorno chiaro ma grigio di febbraio ed una luce uniforme batteva sui polverosi palazzi del corso da cui sventolavano le bandiere. Dove io mi trovavo, il passaggio dei formidabili carri armati che aprivano il corteo rombando strepitosamente sul selciato di pietra non ebbe il solito effetto elettrizzante sulla folla. Pochi e svogliati gli applausi all'apparire delle magnifiche macchine irte di cannoni, dei bellissimi soldati che spuntavano dalla sommità delle torrette coi loro caschi di cuoio e di acciaio. Gli sguardi andavano tutti laggiù, verso la piazza del Parlamento, donde la colonna muoveva, in attesa della novità.
Circa tre quarti d'ora durò il passaggio dei carri, gli spettatori ne avevano la testa rintronata. Finalmente l'ultimo mastodonte si allontanò col suo orrendo frastuono e il corso rimase deserto. Ci fu silenzio, mentre dai balconi le bandiere dondolavano al vento.
Perché nessuno avanzava? Anche il rombo dei carri si era già perso nella lontananza tra vaghi echi di remote fanfare e la strada vuota attendeva ancora. Che fosse intervenuto un contrordine?
Ma ecco dal fondo, senza alcun rumore, venne avantì una cosa; e poi una seconda, una terza, e moltissime altre, in lunga fila. Avevano ciascuna quattro ruote gommate ma propriamente non erano né automobili, né camionette, né carri armati, né altre macchine conosciute. Piuttosto delle strane carrette erano, di aspetto inusitato e in certo modo meschine.
Mi trovavo in una delle prime file e potei osservarle bene. Ce n'erano a forma di tubo, di marmitta, di cucina da campo, di bara, tanto per darne un'idea approssimativa. Non grandi, non espressive e neppure forti di quella compattezza esteriore che spesso nobilita le più squallide macchine. Gli involucri metallici che le rivestivano sembravano anzi quasi " arrangiati " e ricordo una specie di sportellino laterale un po' ammaccato che evidentemente non si riusciva a chiudere e sbatteva con rumore di latta. Il colore era giallino con bizzarri disegni verdi che ricordavano le felci, a scopo di mimetizzazione. Gli uomini, a due a due, stavano per lo più infossati nella parte posteriore dei veicoli e ne emergeva solo il busto. Del tutto consuete le uniformi, i caschi e le armi: moschetti automatici di modello regolamentare che i soldati portavano evidentemente a scopo decorativo così come non molti anni prima si vedevano ancora cavalieri armati di sciabola e di lancia.
Due cose fecero subito una grande impressione: l'assoluto silenzio con cui avanzavano gli strumenti, mossi evidentemente da una energia sconosciuta; e soprattutto l'aspetto fisico dei militari a bordo. Essi non erano vigorosi giovanotti sportivi come quelli dei carri, non erano abbronzati dal sole, non sorridevano di ingenua spavalderia e neppure sembravano chiusi in una ermetica rigidità militaresca. Magri erano nella maggioranza, strani tipi di studenti di filosofia, fronti spaziose e grandi nasi, tutti con cuffia da telegrafista, molti con occhiali a stanghetta. E pareva ignorassero di essere soldati, a giudicare dal contegno. Una specie di rassegnata preoccupazione si leggeva sulle loro facce. Chi non badava alla manovra delle macchine si guardava intorno con espressicne incerta ed apatica. Solo i conducenti di certi piatti furgoni a scatola rispondevano un po' all'aspettativa: una sorta di schermo trasparente a forma di calice, svasato e aperto in alto, circondava la loro testa con un effetto sconcertante di mascherone.
Mi ricordo, sulla seconda o terza carretta, un gobbino, seduto un po' più in alto degli altri, probabilmente un ufficiale. Senza badare alla folla continuava a voltarsi indietro per controllare i veicoli seguenti quasi temesse che restassero per via. " Dài, Rigoletto! " gridò uno dall'alto di un balcone. Lui alzò gli sguardi e con un sorriso stentato agitò una mano salutando.
Fu proprio l'estrema povertà dell'apparato mentre tutti sapevano quale infernale potenza di distruzione fosse contenuta in quei recipienti di lamiera – a mettere sgomento. Voglio dire che se i meccanismi fossero stati molto più grandiosi, probabilmente non se ne avrebbe avuto una impressione così torbida e potente. Questo spiega l'attenzione quasi ansiosa della folla. Non c'era un applauso né un evviva.
In tanto silenzio mi parve, come dire?, che un ritmico lieve cigolio uscisse dai misteriosi veicoli. Assomigliava a certi richiami di uccelli migratori, ma di uccello non era. Dapprima estremamente sottile, quindi via via più distinto, scandito però sempre col medesimo ritmo.
Guardavo l'ufficiale gobbino. Lo vidi togliersi la cuffia da telegrafista e confabulare animatamente col compagno seduto più sotto. Anche a bordo di altre carrette notai segni di nervosismo. Come se stesse accadendo alcunché di irregolare.
Fu allora che sei sette cani, dalle case intorno, cominciarono insieme ad abbaiare. Siccome i davanzali erano gremiti di spettatori e quasi tutte le finestre spalancate, gli animaleschi richiami echeggiarono largamente nella via. Che cosa avevano quelle bestiacce? Chi chiamavano in aiuto con tanto furore? Il gobbetto ebbe un gesto di impazienza.
In quel mentre – me ne accorsi con la coda dell'occhio – un oggetto scuro guizzò alle mie spalle. Voltandomi, feci in tempo a scorgere tre quattro topi che, sgusciati dal lucernario di una cantina a fior del terreno, fuggivano precipitosamente.
Un signore anziano al mio fianco alzò un braccio con l'indice teso verso il cielo. E allora vedemmo che al di sopra delle macchine atomiche, nel mezzo della via, si ergevano a picco strane colonne di polvere rossiccia, simili alle trombe d'aria dei tornados ma ferme, verticali, non vorticose. Nello spazio di pochi secondi assunsero una forma geometrica, prendendo maggiore consistenza. Descriverle è difficile: immaginate il fumo contenuto in un alto camino di fabbrica, ma senza il camino che lo racchiuda. Adesso le inquietanti torri di fitto pulviscolo, come fantasmi, si elevavano per una trentina di metri sopravanzando i tetti dei palazzi, e da una cima all'altra vedemmo altrettanti ponti della stessa nebulosa materia colore della fuliggine. Si formò così una intelaiatura di immense rigide ombre che si prolungava a perdita d'occhio in corrispondenza del corteo. E i cani chiusi nelle case continuavano a latrare. Che accadeva? La sfilata si fermò, e il gobbino, sceso dal suo veicolo, risalì di corsa la colonna gridando complicati ordini che parevano in lingua straniera.
Con malcelata ansietà i militari armeggiarono intorno ai loro apparecchi.
Ormai i minareti di nebbia o pulviscolo – evidenti emanazioni dei carri atomici – incombevano altissimi sopra la folla, con rigore di linee quanto mai sinistro. Un'altra frotta di topi balzò fuori dal lucernario dandosi a pazza fuga. Come mai non oscillavano al vento, come le bandiere, questi pinnacoli di malaugurio?
Benché inquieta, la folla ancora taceva. Dinanzi a me, al terzo piano, si aprì di schianto una finestra e vi comparve una giovane donna scarmigliata. Rimase un istante, estatica, a fissare i picchi di inspiegabile nebbia e gli aerei ponti che li congiungevano. Portò le mani ai capelli in atto di spavento e un grido desolato uscì dalla gola: " Madonna! Oh, Madonna! ".
Che voce! Cercando di dominarmi mi trassi indietro. In un ultimo sguardo vidi i militari febbrilmente agitarsi intorno agli apparecchi come se non riuscissero più a dominarli (più tardi compresi che, pur pallidi e brutti, erano anch'essi dei veri soldati). Avrei fatto in tempo? A veloci passi dapprima, attento a non farmi notare, svelto, sempre più svelto, finché mi gettai fuori della calca, infilando una strada laterale.
Udivo alle mie spalle il rombo della folla, finalmente inorridita, sotto l'urto del panico. A trecento metri circa ebbi la forza d'animo di voltarmi indietro a guardare: sopra il nero selvaggio tumulto della moltitudine in fuga, le torri di ombra rossiccia adesso dondolavano, i ponti fra l'una e l'altra contorcendosi lentamente: in uno sforzo supremo, si sarebbe detto. Il loro allucinante moto accelerava sempre più, diventando frenetico. Allora un urlo tenebroso ed atroce tuonò tra le case.
Poi accadde ciò che tutti sanno.