Hugo Regulus, già capitano di corvetta tedesco nell'ultima guerra, pubblicherà nel mese prossimo un libro straordinario (Das Ende des Schlachtschiffes König Friedrich II, Gotta Verlag, Amburgo). I pochi che hanno letto il manoscritto, da principio sono rimasti forse un po' perplessi, tanto i fatti riferiti confinano col regno dell'inverosimile se non addirittura della pura pazzia. Senoncbé, procedendo, si deve riconoscere che la documentazione dell'autore appare indiscutibilmente seria e persuasiva. Tra l'altro è impressionante la fotografia – l'unica a dir la verità ma tale da non poter essere facile frutto di mistificazione – dell'inaudito mostro, creato si direbbe in un delirio di grandezza, dannato dalla fatalità dell'avvilimento di un inglorioso e imbelle esilio, finalmente tratto quando tutto sembrava già dissolversi in degradazione obbrobriosa – alla magnificenza tragica di un destino tanto più eroico ed ambizioso perché nessuno al mondo ne avrebbe dovuto mai sapere nulla.
Se è vero quanto narra il Regulus, questa è la rivelazione del segreto più stupefacente e tenebroso dell'ultimo conflitto. Stupefacente per la vicenda in se stessa, che a prima vista ha dell'incredibile e si distacca stranamente da qualsiasi altro episodio della guerra. Stupefacente forse ancor più per la congiura del silenzio con cui migliaia e migliaia di uomini hanno protetto e proteggono tuttora il segreto; quasi che l'esserne a parte, con la coscienza che nessun altro sa, dia loro una gioia senza prezzo. E sulla necessità, o convenienza, di tacere, sono stati e sono d'accordo uomini ricchi e poveri, potenti e umili, colti e ignoranti, alti ufficiali e oscuri manovali di cantiere, tutti fedeli al patto anche quando la catastrofe li ebbe sciolti da ogni vincolo di disciplina militare. Costoro – dichiara il Regulus, e qui per la verità sorge qualche dubbio – continueranno a tacere anche domani, dopo che il libro sarà stato pubblicato: e se qualcuno li identificherà, negheranno; e se qualcuno li interrogherà, diranno di non sapere niente. Tutti, meno uno.
Tre parti ha il libro. Nella prima il Regulus narra in prima persona come venne a sapere la misteriosa storia. È una specie di meticoloso memoriale che descrive le varie fasi della inchiesta: i primi vaghi sospetti germogliati per cui egli riuscì a collegare vari indizi che apparivano lontanissimi tra loro; le ricerche lungamente infruttuose fino a che il caso lo condusse sul luogo stesso dove la vicenda ebbe la sua origine e dove sconvolte tracce di macerie parlavano ancora di insensati sogni; le testimonianze, se si possono chiamare tali le induzioni tratte da frasi udite nelle nere taverne dei porti quando la notte e la stanchezza smorzano la ostinazione dell'uomo; e poi l'incontro col superstite che nel vaneggiamento dell'agonia parla e parla, buttando fuori il terribile segreto, finalmente!
La seconda parte consiste nel resoconto, purtroppo molto lacunoso, di ciò che avvenne a bordo della nave dal giorno che salpò per la sua prima missione fino al mattino della tragedia sui confini estremi dell'oceano.
Nella terza parte, che ha carattere di appendice, il Regulus risponde a quelli che prevede possano essere i dubbi, le obiezioni, le critiche del pubblico. Cercando soprattutto di spiegare come un fatto di tali proporzioni, che coinvolse le sorti di migliaia, sia potuto rimanere chiuso per tanto tempo sotto una cappa di silenzio. Citando nei minuti particolari, con una insistenza fin sospetta, i " documenti ". E per ultimo tentando di interpretare l'estremo atto del dramma che, nonostante ogni suo sforzo, resta sospeso in una aura sovrumana e chiede a noi un vero atto di fede. Ma, sebbene si stenti a credere, un'avventura tanto disperata poteva forse avere una conclusione meno assurda? Che meraviglia se, affascinate da così pura follia, le potenze delle tenebre, di cui talora si udì narrare nei passati tempi, sono uscite dagli abissi australi per rispondere alla sfida degnamente?
Hugo Regulus, figlio di un armatore di Lubecca, aveva 35 anni allo scoppio della guerra. Ufficiale di marina, aveva lasciato il servizio nel 1936, col grado di capitano di corvetta, per ragioni di salute e per poter aiutare il padre, ormai vecchio, nell'azienda. Richiamato all'inizio delle ostilità, avrebbe potuto essere esonerato date le sue condizioni fisiche. Per patriottismo volle invece prendere servizio e fu assegnato al Ministero della Marina da guerra, reparto " Personale ", dove rimase fino in ultimo.
Non ebbe mai compiti difficili o di responsabilità. Sovrintendeva allo schedario dei sottufficiali e ne seguiva le promozioni, i trasferimenti, le licenze, le mancanze disciplinari e così via. Indirettamente egli aveva così sempre sotto gli occhi un quadro completo ed aggiornato rispecchiante le vicende della Kriegsmarine.
Ebbene – è lui che lo racconta a partire dall'estate 1942 cominciarono ad arrivare nel suo ufficio degli ordini di trasferimento di nuovo genere. Vi si indicavano il luogo o l'unità di provenienza ma per destinazione si dava una formula segreta: " Eventualità 9000 – Missione speciale – Presentarsi all'Ufficio operativo 27 ".
Ordini di questo tipo, con la sigla " missione speciale ", arrivavano di quando in quando e sarebbe stato indiscreto, oltre che sospetto, se gli addetti al reparto " Personale " avessero indagato cercando di sapere di quale impresa si trattasse. Ma fino allora capitavano di raro, a gruppetti di sette otto al massimo. Ed era facile supporre ciò che il segreto nascondesse: o incarichi riservati per conto del Servizio informazioni e controspionaggio, o missioni in territorio nemico, o crociere di sommergibili specialmente delicate per cui si riteneva necessario aggiungere una supplementare garanzia di segretezza a quelle usate come regola per tutte le operazioni belliche.
Questa volta però i destinati alla " missione speciale " non erano sette o otto e neppure una decina. Nel giro di poche settimane i soli sottufficiali trasferiti alla ignota sede assommavano già a quasi 200. Il ritmo di questi strani trasferimenti poi rallentò, prolungandosi tuttavia per mesi e mesi.
Coi colleghi, il Regulus ne parlava poche volte. Talora ebbe la impressione che qualcuno, nel suo stesso ufficio, ne sapesse più di lui; ma che preferisse evitare l'argomento. Quasi fosse uno di quei segreti che è una fortuna non conoscere; perché la paura di lasciarsi sfuggire una parola, di commettere una indiscrezione sia pur minima diventa, per gli iniziati, un incubo, tanto grave è la posta in gioco. E allora uno evita perfino gli amici e non si rilascia mai e, se vive in famiglia, si sveglia di soprassalto in piena notte col terrore di aver parlato in sonno e che la moglie abbia sentito.
Divenne, l' " Eventualità 9000 ", come una porta misteriosa che inghiottiva a centinaia gli uomini; e di là c'era il buio pesto. Una base per nuove armi segrete? Un corso di addestramento in vista di qualche progetto temerario? Un corpo di spedizione per sbarcare in Inghilterra? Finché, nel febbraio 1943, l 'enigmatica chiamata portò via anche il capo di prima Willy Untermeyer, ch'era il braccio destro di Regulus.
Questo Untermeyer era uomo zelantissimo e devoto ma tutt'altro che tempra di guerriero. La sua paura, non del tutto dissimulata, era di dover lasciare il Ministero, dove lavorava da sei anni, per fare il suo turno di imbarco. La stessa sua bravura, la simpatia dei superiori lo avevano finora risparmiato. Ma ecco le sue speranze disilluse e nella forma più temibile. A quelli del reparto " Personale ", che ignoravano ciò che c'era sotto, l' " Eventualità 9000 " era infatti sinonimo di massimo pericolo, di separazione dal consorzio umano, di partenza senza prospettive di ritorno.
Di solito taciturno e timido, capo Untermeyer, alla vigilia del commiato, non riusciva a dominarsi e interrogava ansiosamente i superiori chiedendo una sia pur vaga spiegazione. Ma da ogni parte trovava un muro impenetrabile.
Il capitano di corvetta Regulus lo vide partire con dolore. E l'enigma dell' " Eventualità 9000 ", fino allora a lui estraneo, entrò, per dire così, nella sua vita. La curiosità, il desiderio di sapere ciò che sapere non si deve, questo sentimento così poco militare, divenne un quotidiano assillo. E bastava che un piantone gli consegnasse una busta indirizzata a lui con l'annotazione " riservata " – ciò avveniva parecchie volte al giorno perché gli venisse il batticuore: l' " Eventualità 9000 " non poteva forse aver bisogno anche di lui?
Ma la chiamata per il capitano di corvetta Regulus non arrivò, e i mesi passarono, e decine e decine di altri sottufficiali partirono per la destinazione sconosciuta e per quanto stesse sempre con le orecchie tese e gli occhi aperti, egli non riuscì a raccogliere il più piccolo indizio, né una parola, né un'allusione, né un gesto, né una occhiata, nulla che si potesse in qualche modo riferire al preoccupante enigma. E vennero i bombardamenti, il suo ufficio si trasferì alla periferia di Berlino in sede protetta, poi ci fu la fine della guerra e Regulus riuscì, anche per le sue condizioni di salute, a evitare internamento e prigionia. Ma neppure allora, sfaldatasi ormai l'impalcatura militare e divenuti di dominio pubblico i segreti più gelosi, poté sapere qualche cosa dell' " Eventualità 9000 ". Eppure centinaia di sottufficiali, probabilmente migliaia di marinai, vi erano rimasti coinvolti. Dove erano dunque finiti? Quale che fosse il retroscena del segreto, molti di loro dovevano essere tornati. Come mai nessuno parlava? E perché capo Untermeyer che dal giorno della partenza gli aveva mandato ogni mese, regolarmente, una cartollna in franchigia coi saluti (ma né il testo né il timbro rivelavano la reale provenienza) perché capo Untermeyer non si faceva vivo?
Nacque così nell'ex-capitano di corvetta Regulus la determinazione di risolvere il mistero. Nella conoscenza dei fatti bellici, il segreto militare o l'invalicabile barriera del fronte avevano per anni determinato delle vaste lacune che però adesso le rivelazioni dei protagonisti, da entrambe le parti, andavano via via colmando. Le intimità più recondite dei governi e degli alti comandi venivano giornalmente messe in piazza, quasi con una smania invereconda. Così il panorama del conflitto si completava a poco a poco degli episodi rimasti fino allora sconosciuti. Vita del Fuhrer, armi segrete, congiure di generali, sondaggi per armistizi separati, eccetera, tutto veniva a galla. Tutto, tranne l' " Eventualità 9000 ". Questo l'unico vuoto che continuasse a rimanere tale, e non era un vuoto trascurabile se vi era sparita tanta gente. Nel gigantesco gioco d'incastri che ricostruiva la storia di quegli anni mancava ancora un pezzo e per riempire il buco non c'era che quella formula convenzionale e senza senso; dietro la quale non si scorgeva niente, neppure l'ombra confusa di un fantasma.
Certo, tale lacuna era nota a pochi; solo a coloro che, come il Regulus, ne avevano avuto sentore per motivi di servizio. Il mondo esterno non ne sapeva nulla. Anche inglesi, americani e russi pareva che non fossero al corrente. Perfino i pochi colleghi che il Regulus aveva occasione di incontrare sembrava se ne fossero dimenticati: " L'Eventualità 9000? " rispondevano. " Ah sì, adesso mi ricordo… Una missione speciale vero?… Mah, chissà cos'era… Non ne ho mai saputo niente ". E avevano l'aria di essere sinceri.
Ma il Regulus non disarmò (così almeno egli racconta). Passando il tempo anzi l' " Eventualità 9000 " diventò per lui una specie di mania. Sebbene la sua famiglia fosse stata impoverita dalla guerra, egli non si trovò mai in ristrettezze avendo trovato un posto decoroso in una impresa commerciale di Lubecca. Né il suo lavoro era assillante. Cosicché alle indagini poté dedicare un certo tempo.
Cominciò, nel novembre 1945 a cercare la famiglia dell'Untermeyer di cui aveva conservato l'indirizzo. Andò apposta a Kiel. Trovò il pradre e la moglie del sottufficiale che dopo l'aprile 1945 non aveva più dato notizie. No, non l'avevano mai saputo la sua reale destinazione. No, dopo la sua partenza per la " missione sreciale " non era mai tornato a casa in licenza. No, non avevano la più lontana idea della sua sorte. Però speravano di rivederlo comparire da un momento all'altro. No, non avevano neppure mai udito notizie o ipotesi o dicerie circa l' " Eventualità 9000 ". Fu un sopraluogo completamente negativo. Hugo Regulus confessa che a questo punto si sentì alquanto scoraggiato. Non già veniva meno in lui la corvinzione che sotto ci dovesse essere un mistero – e un mistero di carattere mostruoso ma dubitava di venirne mai a capo. Mancava anche il più sottile appiglio a cui afferrarsi; era impossibile formulare anche una semplice ipotesi; dovunque si volgesse, annaspava nel vuoto inutilmente.
Stava domandandosi se non fosse quasi meglio rinunciare quando fece la sua prima " scoperta ". In realtà era soltanto la interpretazione molto fantastica di una notizia comparsa nel dicembre 1945 sugli Stars and Stripes, il giornaletto pubblicato dai Comandi di occupazione americani. Ma fu un barlume. La notizia era la seguente:
" L'equipaggio di un piccolo piroscafo da carico argentino, il Maria Dolores III, giunto a Bahia Blanca proveniente dalle isole Malvine, raccontava di aver avvistato un serpente di mare 'grande come una collina'. Lo avevano incontrato poco prima del tramonto. Il gigante flottava immobile, controluce, apparentemente addormentato. Concordi, i marinai del mercantile lo descrivevano munito di 'almeno tre o quattro teste e di numerosi tentacoli, o antenne, simili a quelle degli insetti ma di lunghezza spaventevole che si protendevano verso il cielo ruotando lentamente come se cercassero qualcosa'. L'apparizione fu così paurosa che il Maria Dolores III accostò subito in fuori, allontanandosi a tutta forza. Poco dopo le tenebre della notte avvolsero il mostro ormai lontano sull'orizzonte e sempre immobile. "
Poi ci fu, pochi giorni dopo, un'altra notizia interessante. Il pilota di un aereo proveniente dal Sud Africa e diretto a Buenos Aires riferiva di avere visto in pieno oceano – e ne dava la posizione esatta – una isoletta vulcanica di recente formazione. Al passaggio dell'apparecchio l'eruzione era ancora in pieno sviluppo. Infatti il nuovo scoglio era semicoperto da una coltre di vapori innalzatisi per alcune centinaia di metri. E in quel tratto di mare, che si sapesse, non erano mai esistite isole.
Fu per Regulus la luce. La cosa apparsa al Maria Dolores III egli pensò – poteva essere tutto tranne che un serpente di mare, simili mostri non essendo mai esistiti. Non solo: per una specie di chiaroveggenza, mise in rapporto le due notizie diversissime e si chiese: non potrebbero essere due interpretazioni, entrambe assurde, del medesimo fenomeno? Perché escludere che sia il serpente di mare e sia l'isola vulcanica fossero un bastimento gigantesco?
Era ben poco, nulla si può dire. Gratuite fantasticherie su due notizie forse nate da allucinazioni, ingrandite dai corrispondenti dei giornali e poteva anche darsi inventate di sana pianta.
Eppure il Regulus non riusciva a staccarsi da quella idea esageratamente romanzesca: che insomma l' " Eventualità 9000 " fosse una nave da guerra di proporzioni eccezionali, progettata in segreto, costruita in un cantiere segreto, di nascosto varata, armata e messa a punto affinché all'improvviso comparisse sul mare a sterminare con pochi colpi le flotte dei nemici. E forse quelle antenne avvistate dai marinai della Maria Dolores III erano dei cannoni di statura mai vista, ciascuno grande come la ciminiera delle Lederer Stahlwerke che sorgono alla periferia di Lubecca. Ma potevano essere anche armi nuove e tremende, questo anzi avrebbe spiegato meglio tutta quella segretezza, da cui si dipartivano proiettili o raggi di sterminio, così come è nei sogni dei giovanissimi cadetti, quando si addormentano alla sera nel freddo e duro lettino dopo una pesante giornata di studio e di esercizi.
Solo che la nave invincibile non aveva fatto in tempo – tale la supposizione del Regulus – e quando si era trovata pronta alla battaglia, proprio allora su tutti i fronti della terra e del mare si era cessato di combattere, per la prostrazione, la rovina, la totale sconfitta dell'amata grande Germania.
Ciononostante era salpata per la sua prima missione, aveva raggiunto inosservata l'oceano Atlantico approfittando di quei giorni di eccitamento, confusione, frenesia mondiale perché la guerra era finita e non si doveva più morire.
Perciò la nave – fantasticava il Regulus – era andata vagando nelle acque più solitarie come quelle per esempio a levante dell'Argentina. Ma a quale scopo? Con quali speranze? E vivendo di che cosa? Con che nafta accendendo le sue caldaie vaste come le antiche cattedrali gotiche? Cosicché a questo punto l'ex-capitano di corvetta Regulus era ripreso dai dubbi e si metteva perfino a ridere della propria follia.
Ma quella specie di demone non si era arreso dentro di lui e lo spinse anzi a girare per le città dove erano esistiti i più grandi cantieri della Kriegsmarine, oppure nelle località della costa poco conosciute dove la flotta del Reich aveva disposto le sue basi minori.
Vestito male, con un berretto da macchinista, passava le sere nelle bettole più malfamate dei porti, ivi bevendo, fumando, chiacchierando, chiedendo le informazioni più sciocche come per esempio su dove trovare fresche ragazze a buon mercato, eppure ogni tanto faceva quasi casualmente anche domande d'altro genere come potrebbe fare un uomo già avanti con l'età che si trovi fortuitamente in un'osteria di basso rango in una città non sua dopo aver bevuto birra in modo da fluttuare a mezz'aria, con le parole che corrono fuori della bocca di loro spontanea volontà.
Parlava della leggendaria nave – non aveva trovato denominazione più adatta – come se quello fosse un dato di dominio pubblico che non ci fosse nessun pericolo a toccare.
Intorno a lui erano operai, scaricatori, marinai, bottegai, bagasce che dovevano sapere vita, miracoli e morte del loro porto. Mai però che uno mostrasse di capire l'allusione. Mai che uno denotasse per lo meno riluttanza o fastidio, o che invitasse, dichiaratamente o no, il signor Regulus a smettere un interrogatorio così inopportuno.
Sembrava proprio che nessuno sapesse niente di niente, mai sentito parlare di un grandissimo bastimento costruito in segreto, varato di nascosto e così via per la salvezza della patria agonizzante.
Era sul punto di rinunciare alle ricerche quando la fortuna andò appositamente ad aspettarlo, in una birreria di infimo ordine a Wilhelmhaven.
Essa aveva assunto la forma corporea di un facchino o tipo del genere, grigio di capelli, tarchiato, stanco, che si era addormentato in un angolo, dinanzi al suo boccale vuoto.
Hugo Regulus come sempre fece varie conversazioni coi presenti e arrivò con molta astuzia all'argomento che gli si era incastrato nell'animo. Domandò a questo domandò a quello, non capivano neppure a che cosa lui alludesse, mai avevano sentito parlare di una storia siffatta.
Cosicché la sera passò inutilmente e a un certo punto il Regulus si trovò solo nel locale e il proprietario aveva tutte le intenzioni di chiudere, e di fuori, nella notte di minuto in minuto più silenziosa, si udiva un ritmico doloroso cigolio come quello dei velieri alla banchina quando l'onda li fa dondolare.
Allora il facchino grigio di capelli si alzò per uscire ma quando fu sulla soglia si voltò con un curioso sogghigno e disse: " Quella storia, signore, che lei poco fa raccontava, l'ho sentita raccontare anche da un altro. Era uno dell'isola di Rugen ". E scomparve.
Il Regulus gli corse dietro. Ma fuori non c'era anima viva. Guardò a destra guardò a sinistra, niente alla luce dell'unico lampione acceso, come se la terra lo avesse inghiottito.
Ebbene, eccolo nell'isola di Rugen che gira con un cavalletto e una cassettina fingendo di essere un pittore. Mentre dipinge – da ragazzo si divertiva a fare degli acquarelli, dopo tutto può anche recitare la parte – gli piace, si direbbe, scambiare due parole con i paesani, vecchi per lo più, bambini e qualche donna che gli stanno alle spalle per vedere come fa. " A proposito, a proposito " dice " ho sentito dire tempo fa che qui all'isola di Rugen durante la guerra avevano messo su un grande cantiere. " " è vero è vero " dice uno " facevano tutto di nascosto, come se tutti noi non si sapesse! "
Per l'emozione all'ex-capitano di corvetta viene meno il fiato. " E che cosa costruivano? Una corazzata, vero? Era una grande nave da guerra? " L'uomo ride, ridono anche gli altri. " Corazzata? Altro che corazzata. Era lo stadio, lo stadio per 500.000 spettatori, per le grandi olimpiadi del 1948 che dovevano essere la festa dell'umanità, dopo la vittoria di Hitler sul mondo! "
Questa è una amara delusione per chi ha cercato e si è affaticato tanto. " E perché allora costruirlo in segreto? " " Chi lo sa. Forse perché doveva essere una meravigliosa sorpresa, da rivelare improvvisamente al popolo stanco dopo la vittoria. " " E anche voi ci lavoravate? " " Oh, nessuno di noi, qui, di Rugen. Soltanto gente venuta da fuori, migliaia e migliaia, tutti giovani. E noi si diceva: perché mai mandano qui a lavorare allo stadio tutti questi giovanotti che dovrebbero invece essere sul fronte? "
" E a vedere il cantiere vi lasciavano andare? " " Intorno al cantiere filo spinato con corrente ad alta tensione. E sentinelle armate. Poi un bello spazio deserto. Poi ancora un grande muro e altro filo spinato, sul muro le sentinelle che avevano l'ordine di sparare. "
" E dopo, che cosa ne hanno fatto? " domanda l'ex-capitano di corvetta. " Dopo è stato distrutto tutto quanto. Per la rabbia, probabilmente. Ordine di far saltare gli impianti. Per quattro giorni continue esplosioni, si vedevano le vampe di qua, l'isola tremava. " " E adesso? " " Adesso non c'è più niente, solo qualche maceria. " " Ma dov'è? " Allora gli insegnano la strada.
Arriva dunque l'ostinato Hugo Regulus sul posto dove Hitler aveva ordinato di costruire il più grande stadio del mondo per le olimpiadi dell'apoteosi tedesca; proprio nell'isola di Rugen, che idea. Ma il Regulus se ne intende e capisce subito che non si è mai lavorato per lo stadio, il suo animo veramente trema di una commozione straordinaria, alla vista di ciò che lui cerca da tanti mesi. È una specie di avvallamento che finisce nelle acque del mare, e ci sono erbacce, sconvolti macigni, pezzi di muratura e cemento, ferri contorti, pareti infrante, ma soprattutto erbacce e grami cespugli che coprono pietosamente ogni cosa.
Lui calcola la lunghezza della svasatura, circa mezzo chilometro, calcola larghezza, profondità, tutto quanto. Vede resti di rotaie, di gru, di pontoni, di lamiere, di travi, perfino un bossolo di granata affondato completamente nel fango. Inoltre avverte ancora nell'aria un odore caratteristico a lui ben noto, profumo persistente di nave da guerra: nafta, vernice, lamiera rovente, fiato di marinai.
Questa dunque la recondita base dell' " Eventualità 9000 ". Qui è stata costruita una nave di proporzioni mai tentate, in questo bacino è nata, di qui è scesa in mare, e adesso non resta neppure il ricordo, perché tutto è stato fatto in segreto e gli uomini che sanno non aprono mai bocca, deve essere questione di un giuramento sacro che impegna l'onore e la vlta: a meno che non siano tutti morti, migliaia e migliaia sprofondati sotto la superficie della terra. O del mare. Poi vede i resti del filo spinato, del lunghissimo muro di cinta, delle officine, delle baracche, una intera città deve essere vissuta qui per anni all'insaputa del mondo, protetta da chissà quali mascherature, all'insaputa degli stessi pezzi grossi della Kriegsmarine.
Ma adesso non c'è altro che una landa petrosa e abbandonata dove non passa mai nessuno, con in mezzo quella fatale concavità ormai senza senso, e sopra pochi uccelli simili a corvi che girano e girano tendenziosamente mandando lamentevoli strida, e sopra ancora il cielo grigio e immobile del Baltico con quella sua luce diafana che chiama al nord, sempre al nord, e davanti il mare che cammina in eterno, mare duro e potente di colore griglo con lunghe creste bianche le quali compaiono e scompaiono senza motivo e cercandole gli sguardi vanno in là, sempre più in là, fino al lontanissimo orizzonte, interamente disabitato.
Così il mistero dell' " Eventualità 9000 ", diventava ancora più vero e inquietante, Hugo Regulus non poteva tirarsi indietro neanche volendolo con tutte le forze, bisognava inoltrarsi fino in fondo a costo di consumarci l'intera vita che gli rimaneva. Era il maggio del 1946.
Ma subitamente l'enigma tanto difficile e oscuro si aprì quasi da solo. Comparve su un giornale di Amburgo una breve notiziola da Kiel che riferiva un tentato suicidio: in un giardino pubblico era stato trovato un uomo privo di sensi e insanguinato con una grave ferita alla testa. Stringeva ancora una rivoltella nella destra. Era un certo Wilhelm Untermeyer, già sottufficiale di marina, rimpatriato recentemente dal Sud America dove era stato qualche tempo internato. Ignote le cause del suicidio.
Era proprio il capo Willy Untermeyer che aveva lavorato tanto tempo alle dipendenze del Regulus e che era stato portato via dall' " Eventualità 9000 ". Il Regulus lo trovò all'ospedale di Kiel con la testa tutta bendata che parlava, ininterrottamente parlava, e invano i medici gli somministravano dei sedativi. Ogni tanto cadeva in un sonno profondo ma appena sveglio ricominciava a parlare, dicendo cose apparentemente incomprensibili, e perciò tutti erano convinti che delirasse. La ferita – dicevano i medici – era grave, scarse le probabilità che l'uomo sopravvivesse.
In quanto al padre e alla moglie del disgraziato, non sapevano spiegarsi l'accaduto. Willy era tornato già da oltre un mese, più taciturno e chiuso che mai. E di quanto gli era capitato aveva detto poco o niente. Avevo detto soltanto di essersi imbarcato su una nave, che alla fine della guerra questa nave si era autoaffondata, che lui era stato internato in Argentina e che qui se l'era passata discretamente, fin quando lo avevano fatto rimpatriare. Però non aveva spiegato che nave, né dove, né quando, né le circostanze relative. Strano anche che dopo il rimpatrio non si fosse fatto vivo col Regulus a cui era sempre stato affezionato. La moglie una volta gli aveva chiesto: " Come mai non scrivi al comandante Regulus? È venuto qui apposta a cercarti, sarà felice di saperti tornato ". " Sì, sì, gli scriverò " aveva risposto Willy. Ma poi non ne aveva fatto niente.
Capo Untermeyer riconobbe il suo ex-superiore quando costui entrò nella stanzetta d'ospedale? Il Regulus scrive che la cosa è incerta. Tuttavia alle sue domande il ferito rispose quasi sempre a tono. Poche domande in verità perché i medici avevano proibito di interrogarlo. Parlava fin troppo lui da solo, quasi che dentro egli avesse uno spaventoso ingorgo di cose rimaste compresse che adesso volevano sfogarsi; quasi che il colpo della rivoltella avesse aperto un varco e di qui traboccasse fuori ciò che in lui fermentava con dolore da troppo lungo tempo.
Capo Untermeyer, in questi interminabili sproloqui che terminarono soltanto un'ora prima della sua morte, non fece mai un racconto filato. I ricordi lo assalivano dalle più svariate parti senza ordine alcuno, per cui a un episodio ne seguiva un altro che magari si riferiva a parecchi mesi prima.
La storia che il Regulus ne ricavò presentò perciò lacune e sconnessioni. In compenso il Regulus crede che nulla di quanto usciva dalle labbra di Untermeyer fosse frutto di delirio. Per quanto frammentaria, la narrazione è in ogni suo punto motivata e soprattutto risponde in modo esauriente ai maggiori interrogativi che l' " Eventualità 9000 " aveva lasciato. Sia come sia, si tratta dell'unica testimonianza attendibile e diretta su uno degli avvenimenti più meravigliosi del nostro tempo.
A questo punto comincia la seconda parte del libro, la più importante e, purtroppo, la più breve. A ragione, il Regulus non ha voluto, per amplificarla, lavorare di fantasia e neppure coordinare la rotta materia con legamenti e aggiunte che la logica poteva anche autorizzare. Nel trascrivere ciò che disse l'Untermeyer, il suo intervento si limita a disporre i fatti secondo un'ovvia successione cronologica e nel dare forma sintattica alle cose che dalla bocca dell'agonizzante uscirono in frasi monche, espressioni dialettali, balbettii. E ora non resta che ascoltare. Nel cantiere dell'isola di Rugen – detto appunto cantiere 9000 – con una segretezza che avrebbe fatto invidia ai pallidi burocrati degli Uffici Cifra e un impegno di mezzi che sembrava dovesse esaurire il sangue stesso del Paese fino all'ultima estenuata stilla, per cui tutti i presenti avevano una specie di paura quasi che fosse una follia calamitosa; all'ombra di una sterminata tettoia sulla quale ogni mattina degli uomini stendevano ramaglie verdi, sterpi giallastri, blocchi di neve, a seconda delle stagioni; in ermetica clausura di militari e operai; protetta da un giuramento solenne di tutti i partecipanti; fu costruita dal giugno 1942 al gennaio 1945 la corazzata König Friedriech II che doveva essere l'arma segreta del grande Reich per sbaragliare le flotte unite della Gran Bretagna e Stati Uniti e quante altre vi si affiancassero, infelici loro, pace all'anima dei marinai che vi si fossero trovati a bordo poiché non avranno neppure il tempo di rivolgere una breve preghiera al Signore Nostro Onnipossente.
Il dislocamento doveva essere di 120.000 tonnellate e tale infatti riuscì. La velocità, 30 nodi. Duplice protezione antisiluri della carena per cui la nave poteva incassare almeno 30 torpedini prima di vacillare. Propulsione a getto con due eliche ausiliarie. Protezione verticale di 45 centimetri dell'opera viva, di 35 sul ponte corazzato. Quattro torri trinate da 203, 36 complessi da 75 antiaerei. E l'armamento principale consisteva in dodici ordigni senza precedenti, a gruppi di tre, che forse erano cannoni e forse no, capo Untermeyer li denominava Vernichtungsgeschutze e diceva che potevano annientare in pochi secondi qualsiasi unità di superficie in un raggio di 40 chilometri. Lunghezza, circa 280 metri. Equipaggio 2100 uomini. I fumaioli erano tre.
All'ospedale, in un intermezzo di relativa calma, capo Untermeyer si fece portare dalla moglie le sue carte chiuse in una cartella di cuoio e ne trasse, per consegnarla al comandante Regulus, una piccola fotografia del leviatano. Non essendoci nella veduta alcun punto di riferimento, le dimensioni non si possono apprezzare, inoltre si tratta di una mediocre istantanea da inesperto dilettante. Nel complesso la sagoma ripete la linea delle precedenti grandi unità tedesche con la caratteristica prora falcata. Solo che mancano le solite torri dei grossi calibri, al loro posto si vedono delle aste o tubi metallici lunghi almeno una ventina di metri a brandeggio ed elevazioni autonomi, che potrebbero essere cannoni ma anche no. Manca a queste armi, almeno in apparenza, qualsiasi corazzatura protettiva. Essi si dipartono all'altezza della coperta, protendendosi in alto con forte inclinazione (almeno nella fotografia). Il Regulus esclude che si trattasse di armi atomiche, dimostra pure che non potevano essere dei semplici lanciarazzi; e rinuncia a una descrizione tecnica.
Fu varata nell'ottobre 1944, passarono parecchi mesi prima che fosse pronta. Non si sa se eseguì in zona esercitazioni di tiro, e anche troppe altre cose non si sanno di quella vigilia disperata. Ma nessuno dei nemici ebbe mai il sospetto di ciò che si stava preparando nel cantiere 9000 non ci furono quindi mai bombardamenti e i ricognitori di passaggio tiravano via apparentemente soddisfatti.
Poi venne il febbraio, il marzo, l'aprile, la barriera difensiva del fronte scardinata, i russi che premevano su Berlino; ma sebbene i bollettini del Quartier Generale non facessero più mistero della disfatta, a bordo della König Friedrich II gli uomini vivevano tranquilli. Come chi è chiuso nella solida casa di granito mentre di fuori la bufera mugola. Tanto pareva invincibile la nuova grande corazzata, Supremo capolavoro della stirpe tedesca.
Ma perché non si accendevano i fuochi? Che si aspettava ancora? Di veder comparire alle spalle le prime fangose pattuglie sovietiche? Berlino stava per cadere, doveva anzi essere già caduta, una sera il bollettino del Quartier Generale non fu più trasmesso.
Allora gli operai e gli ingegneri sbarcarono dalla corazzata, l'aria sopra i tre fumaioli cominciò a tremolare, segno che le caldaie erano state accese, opposti pensieri e speranze si combattevano negli animi, la pace sembrava terribilmente desiderabile pur nell'obbrobrio della disfatta ma era anche amaro abbandonare così il bastimento meraviglioso senza aver tentato neppure di combattere.
Il comandante dell'unità, capitano di vascello Rupert George, fece suonare dalla tromba l'assemblea generale. Era un uomo alto, biondo, aristocratico, dagli occhi molto chiari, così sensibile e vergognoso dei propri sentimenti che per salvarsi si era dovuto fare una volontà di ferro.
Erano le ore 3 pomeridiane del 4 giugno 1945. Come tutto l'equipaggio fu riunito sulla coperta di poppa, il comandante cominciò a parlare nei seguenti termini:
" Ufficiali, sottufficiali, marinai, devo dirvi poche cose, e gravi.
" Come forse voi stessi immaginate, le forze armate tedesche di terra, di mare e dell'aria stanno cessando di combattere. Entro stasera forse verrà firmato un armistizio. Alle clausole di tale armistizio tutti i militari del Reich dovranno sottostare. "
A questo punto si fermò e con i suoi chiari occhi osservò lungamente gli uomini che stavano dinanzi a lui.
" Ma la nostra sorte è diversa. Per un decreto del comando supremo la corazata König Friedrich II è esentata dall'ottemperare alle clausole di qualsiasi eventuale armistizio. Il documento è nelle mie mani da parecchi giorni e più tardi sarà esposto affinché ciascuno di voi possa controllarlo.
" La corazzata König Friedrich II quindi partirà stasera stessa portandosi in una zona che non posso rivelarvi. Mentre il territorio nazionale sarà interamente calpestato dagli eserciti nemici, noi continueremo a restare libera e indipendente Germania. Noi non attaccheremo più il nemico, siamo però decisi a difenderci. Noi saremo l'ultimo pezzo intatto della nostra patria. " Ho il dovere di farvi sapere che ci aspettano giorni, settimane, mesi, anni forse di duro sacrificio, e può darsi che ci aspetti la morte. Ma a noi, sappiatelo, è stato affidato l'ultimo brandello della devastata bandiera. A noi forse toccherà l'ultimo e più grave combattimento. Il quale ci potrà dare gloria ma non altro perché non ci saranno più speranze. " Nello stesso tempo ho il dovere di lasciarvi completamente liberi. La scelta è a voi soltanto. Chi ritiene chiusa la partita e preferisce seguire la sorte comune del nostro popolo, è libero di sbarcare questa sera stessa esonerato da ulteriori impegni militari. Motivi di notevoie interesse umano e familiare possono giustificare tale scelta, e a me non spetta il sindacarli. " Chi invece sceglie con libera volontà di rimanere a bordo sappia che non andrà incontro a gioie di sorta. Sarà una missione lunghissima, della cui fine non si può prevedere né la data, né il modo. Disagi, solitudine, separazione assoluta dalle vostre famiglie, ignoranza del proprio destino, sono tutto ciò che potete sperare. Vale la libertà tanto sacrificio? A ciascuno di voi tocca decidere. Ascoltate quindi la vostra coscienza. Io da lungo tempo ho già deciso. " Fino a quando potremo conservare questo supremo bene? Quale ultima mèta ci prefiggiamo? Saremo chiamati a una battaglia decisiva? Neppure io lo so, ma anche se lo sapessi non ve lo potrei dire. " Perciò chi rimane a bordo, quando salperemo in direzione dell'ignoto, dia pure uno sguardo d'addio alla terra patria che lasciamo. Può darsi che non la rivedremo mai più. " Tale, pressapoco, il discorso del comandante George. E subito dopo l'assemblea fu sciolta e nessuno capiva bene che cosa stesse succedendo, eppure le parole del comandante erano rintronate con strana potenza negli animi cosicché furono appena 227 gli uomini che chiesero lo sbarco.
La luce di quel giorno non si era ancora spenta interamente che la corazzata König Friedrich II uscì di sotto la gigantesca copertura mimetica che l'aveva per così lungo tempo nascosta e mosse verso l'aperto mare. Immediatamente, a terra, cominciarono a tuonare le cariche esplosive predisposte per distruggere il bacino, il cantiere, le officine e tutto il resto affinché di ciò che era stato fatto non rimanesse traccia comprensibile. E per lungo tempo, da bordo, sempre più lontane, si videro quelle vampe così significative. Laggiù non si sarebbe mai tornati.
La storia a questo punto fa un grande salto e non dice parola su come il bastimento poté uscire inosservato dal Baltico, impunemente scavalcare la Scozia e percorrere l'oceano Atlantico da nord a sud senza incontrare il nemico.
Ritroviamo la corazzata ferma in pieno mare a est del Golfo di San Matteo, ormeggiata a una specie di boa che per lei era stata sistemata, non si sa da chi né come, in corrispondenza di un bassofondo. Ivi quasi duemila uomini intrapresero una assurda vita, separati dal restante mondo che ne ignorava l'esistenza. La vita a bordo proseguiva regolarmente come in qualsiasi porto, solo che qui non esistevano banchine e tracce visibili di terra ferma, bensì la vacuità disperante delle onde. All'alba lavaggio, poi esercitazioni di ogni genere, solo raramente il radar segnalava l'avvicinarsi di una nave o di un aeroplano sconosciuti. Allora il mostro dei mari si copriva immediatamente di una pesante nebbia per mezzo di speciali apparecchiature e i naviganti sempre passarono oltre senza badare troppo a quella strana nube in mezzo all'oceano; e ugualmente fecero gll aerei. (Circa l'avvistamento da parte del Maria Dolores III l'Untermeyer non seppe dare spiegazioni.)
Di tanto in tanto una grossa motobarca veniva messa a mare e si allontanava verso ponente. Dopo non molte ore era di ritorno con nuove provviste di viveri. Il sistema di rifornimento era stato infatti organizzato preventivamente attraverso incontri in aperto oceano con navi provenienti dall'Argentina. Navi tedesche o straniere, e come camuffate? Di preciso non lo si è saputo. Invece della motobarca, alle volte veniva ammainata una piccola cisterna; allora, invece di viveri, era nafta.
Intanto le notizie della catastrofe tedesca si accavallavano alla radio, e a bordo voci discordi e sediziose serpeggiarono, sebbene la semplice vista del comandante George bastasse a risvegliare, nei cuori sofferenti, un senso di venerazione e di timore.
A lungo andare tuttavia neppure la disciplina formale e l'intensa attività di ogni genere bastarono a spegnere il fermento. Discussioni sempre più audaci si accendevano la sera nel quadrato ufficiali e qua e là, nel chiuso dei camerini, avvenivano quasi dei complotti.
Che cosa si stava aspettando? Che cosa si poteva sperare? L'illusione romantica che li aveva sedotti alla partenza ormai era perduta. La solitudine diventava un incubo. L'immobilità esasperante. Che cosa si aspettava? Di essere avvistati come presto o tardi era fatale, e macellati dall'aviazione americana? Di marcire in quell'assurdo esilio?
Voci, dicerie, calunnie, sospetti, favole passavano ormai di bocca in bocca. Qualcuno dubitava che il comandante George fosse pazzo. Girò la voce di una violenta discussione da lui avuta col comandante in seconda Stephan Murlutter, un uomo solido, freddo, con la testa sulle spalle. Si diceva che Murlutter fosse favorevole all'autoaffondamento e alla resa. Dello stesso parere era la maggioranza.
C'erano però anche quelli che parteggiavano per George. Specialmente gli ufficiali più giovani, i guardiamarina, i sottotenenti di vascello. Era giusto – costoro sostenevano che una aristocrazia di pochi espiasse le infami colpe di cui si era macchiata la Germania. Erano i puri, i mistici, gli asceti.
Quanti mesi passarono così? Il tempo precipitava su di loro come succede agli ammalati per cui i giorni, uno uguale all'altro, si confondono, e il passato perde ogni profondità. Venne novembre, si giunse a dicembre, ecco Natale e la invincibile fortezza nata per la distruzione e la battaglia continuava a giacere nell'ignavia. E quella sera – laggiù era piena estate – dalla coperta del bastimento il canto di " Stille Nacht " si allargò patetico sull'immensità nuda dell'oceano, senza trovare un'eco.
Strane leggende nacquero. Si diceva per esempio che con le navi dei rifornimenti clandestini fosse giunta a bordo una donna, anzi le donne erano tre e vivevano nascoste negli alloggi dei sottufficiali. Si diceva che qualcuno, in reparto macchina, lavorasse a sobillare i fuochisti affinché si ammutinassero. Si diceva, anche che fosse prossimo un combattimento. Ma contro chi? Nessuno lo sapeva.
La gente, fino allora disciplinatissima, diede frequenti segni di nervosismo. Cominciarono, senza motivo i falsi allarmi. Le vedette avvistavano apparecchi inesistenti o fumi ch'erano semplici miraggi. Di punto in bianco, anche nella piena notte, si propagava una smaniosa agitazione: i marinai balzavano giù dalle brande, si vestivano, correvano ai posti di combattimento. Si era sentito un " tocco " di radar, si era acceso un bengala all'orizzonte, era passato vicino un sommergibile; queste le voci. Poi si accertava che non era vero niente.
In questa, mentre si delineava lo sfacelo, il comandante George si ammalò. Il maggiore medico Leo Turba diagnosticò una forma tifica. La notizia contribuì al disfattismo.
Dopo otto giorni il comandante George cominciò a delirare. Credeva di essere nella propria casa di Brema, chiamava la moglie, ordinava che gli sellassero il cavallo.
Al nono giorno si riebbe, ebbe un lungo colloquio col comandante in seconda Murlutter; informato dell'eccitazione che si manifestava a bordo, ordinò di accendere per salpare il giorno dopo.
Ciò rianimò sulle prime l'equipaggio, ma lo scoraggiamento si aggravò quando la nave mise la prora a sud, allontanandosi ancora di più dalla Germania.
Finalmente però apparve terra e a questa vista poco mancò che i marinai impazzissero di gioia.
Anche stavolta le illusioni caddero. La costa era la Terra del Fuoco e la gigantesca nave si infilò in una insenatura tortuosa dove gettò l'ancora. Intorno, il più inospitale e selvaggio ambiente. Rocce scabre, ghiacciai immensi, non un filo di verde, torme di pinguini, freddo. Ormai nessuno chiamava più il bastimento col suo nome. Tutti dicevano: la corazzata Tod.
Addì 23 gennaio 1946 morì il comandante George e per la maggioranza fu un sollievo. Il comando infatti passava al capitano di fregata Murlutter che si sapeva favorevole all'autoaffondamento e alla resa.
Gli onori funebri tributati a George furono commoventi. Quando la cassa avvolta dalla bandiera scivolò, sprofondando, in mare, la banda attaccò l'inno nazionale. Molti, coi nervi ormai spezzati, ruppero in singhiozzi.
Passarono altri dieci giorni nell'immobilità tetra del fiordo patagonico. Chissà come, gli allarmi erano molto più frequenti di quando la nave stava ormeggiata nell'aperto oceano; per cui durante la giornata si continuava quasi sempre a fare nebbia, e l'aria era irrespirabile.
Ci si aspettava che da un momento all'altro Murlutter desse l'ordine di salpare verso il nord. E difatti diede ordine alle trombe che suonassero per convocare l'assemblea generale.
Ma per la terza volta i marinai, che già respiravano, furono crudelmente contristati. Quasi che con le consegne estreme, il comandante George gli avesse trasmesso anche la follia, Murlutter annunciò che tutti dovevano prepararsi all'ultima e più dura prova: all'indomani, disse, si sarebbe impegnata battaglia.
Un mormorìo minaccioso attraversò l'esasperata folla di quegli uomini per lo più cenciosi e barbuti. Allora la voce di Murlutter divenne una specie di tuono.
" Ripeto " disse " che domani con ogni probabilità sarà giornata di combattimento. Ebbene, negli occhi vostri leggo una sola domanda: contro chi? Io vi rispondo: non lo so. Ignoro il nome del nemico. Non so che colore abbia la sua bandiera. Ma questo, devo aggiungere, non ha la minima importanza. Ricordatevi: molti di voi usano chiamare questa nave col nome di Tod. La corazzata Morte! Credevate forse di scherzare? " Ed ora ascoltatemi con molta attenzione. Poiché tra voi può darsi che qualcuno, o molti, non si sentano chiamati, io a costoro dico, così come disse il comandante George quando si lasciò l'isola di Rugen, io dico: siete liberi di scegliere. Chi vuole sbarcare, sbarchi pure, ne faremo senza. A loro disposizione metto le imbarcazioni necessarie, con carburante e viveri sufficienti a raggiungere la località abitata più vicina. Unico loro dovere, su cui io non transigo, sarà il dovere del silenzio. Con giuramento pesantissimo essi dovranno impegnarsì a non dire mai una parola ad anima viva, per nessuna ragione, circa la corazzata… circa la corazzata Tod. Io non sono certo un filosofo e non so spiegare bene certe cose ma vorrei dire semplicemente questo: un sacrificio non arriverà mai ai piedi di Dio Onnipotente se non sarà stato consumato in segreto. Una vostra parola indiscreta, e tutto sarebbe sprecato nel modo più miserabile. La maledizione eterna dunque a chi non saprà tacere. " Ma per coloro che restano a combattere, gloria! Gloria a noi, alla corazzata Tod! Gloria alla sventurata patria lontana! "
Il discorso piombò come una violentissima pietra sul cuore afflitto di quegli uomini. E il primo loro pensiero fu: anche Murlutter è impazzito come George. Specialmente le ultime frasi, pronunciate con un ardore cupo e doloroso, dimostravano infatti una pericolosa esaltazione.
Poi il nuovo comandante in seconda Hellmuth von Wallorita diede l'attenti e salutò Murlutter presentando l'equipaggio.
Ma nell'atto che alzava la mano alla visiera, von Wallorita si lasciò sfuggire il monocolo dall'occhio destro. Con uno strano tintinnìo il dischetto di vetro batté sulla lamiera ma anziché rompersi rimbalzò rotolando verso il limite della coperta. Nessuno osò muoversi. Nel pesante silenzio si udì l'esile rumore. Gli occhi seguirono il percorso della lente che accelerava via via la rotazione finché si infilò nel trincarino. Ma invece di fermarsi, ebbe qui un ultimo sobbalzo e piombò in mare.
Al cloc che fece il vetro dentro l'acqua, per le inesplicabili risonanze delle cose, un sentimento di atroce solitudine si impadronì degli uomini esiliati ai confini della terra, quale non avevano provato mai. E gli sguardi, smarriti, andarono con odio alle tetre montagne, alle rupi e ai ghiacciai che assistevano impassibili, sprofondati nel loro sonno eterno.
Chiesero di essere sbarcati esattamente 86 uomini di cui due ufficiali e 12 sottufficiali; tra i quali era Untermeyer.
Molti altri della corazzata sarebbero partiti volentieri per ritornare nel consorzio umano e quindi in patria. Senonché pensavano che quella fuga fosse inutile. All'indomani, la demenza del comandante si sarebbe rivelata tale a lui stesso. L'impossibilità di resistere a lungo in quel selvaggio approdo sarebbe stata più forte di ogni follìa. E la nave si sarebbe finalmente arresa.
Alla presenza del comandante, gli 86 partenti prestarono il giuramento di tacere, quindi col bagaglio personale – era già buio presero posto nella motobarca che si diresse all'uscita dell'insenatura e ben presto fu al largo. Solo allora in alcuni cominciò a risvegliarsi il pentimento, rimorso anzi, quasi che la loro fosse una vile diserzione. Rimorso che col passar dei giorni avrebbe perseguitato l'Untermeyer sempre di più, fino a indurlo a uccidersi.
Per tutta la notte, con mare calmo, la motobarca proseguì per rotta a levante poiché occorreva portarsi parecchio in fuori a evitare l'insidia delle scogliere e ragiungere lo stretto di Le Maire.
L'alba venne col cielo sereno, vaga foschia all'orizzonte, la terra quasi non si vedeva più. A poco a poco gli uomini poterono guardarsi in faccia, riconoscersi sotto le spesse barbe.
" Attenzione, un'unità sconosciuta a poppavia! " grìdò uno all'improvviso. Tennero il respiro. " Ma è la corazzata Tod! Viene per la stessa nostra rotta… Sì, accosta nella nostra direzione… No, no, si allontana… E dove demonio sta andando?… Adesso accosta in fuori… Perdio, va a tutta forza! "
Era una scena impressionante. Lanciato alla massima andatura, il leviatano usciva dalle brume della notte, irto delle sue antenne misteriose, la possente prora a becco fendendo l'acqua con due alti rigurgiti di schiuma. Rapidamente la motobarca andò scadendo.
Quando la corazzata Tod fu quasi al traverso, a una distanza di circa mezzo miglio, sembrò a quelli della motobarca di distinguere, portato dal vento, un caratteristico segnale di tromba. " Senti la tromba?… Sì, la sento… La sento anch'io… Ma sono impazziti!… Suonano posto di combattimento generale! " Poi un urlo strozzato, con dentro un terrore senza nome: " Jesus Maria, guardate laggiù! "
Tutti gli 86 guardarono. E il sangue gli si gelò nel petto. All'estremo orizzonte australe, confusi nella caligine dell'alba, paurose ombre di bastimenti avanzavano in linea di fila. Navi vere o soltanto fantomatiche parvenze?
Esse torreggiavano con inusitate forme di intenso colore nero, e al paragone la gigantesca corazzata Tod sembrava una navicella da bambini. Dovevano essere alte centinaia di metri, dovevano pesare milioni di tonnellate, dovevano essere uscite dall'inferno. Ne contarono due, tre, quattro, cinque, sei, e altre ancora si intravvedevano attraverso la foschia, in un corteggio senza fine. Ciascuna era di sagoma diversa, con strane alberature, torrioni sghembi che dondolavano nel cielo, simili a minareti. A riva, criniera funebre, fluttuava una selva di lunghissimi stendardi. Il tutto – e spiegarne il perché era impossibile – aveva un'aria estremamente antica.
Chi erano? Dai recessi occulti della Terra venivano gli ammiragli dell'apocalisse con le orbite vuote e nere simili a spelonche, per umiliare l'uomo? Angeli o demoni popolavano quelle funebri fortezze? Forse era quello il nemico ultimo a cui alludeva il comandante George?
Ma evidentemente la corazzata Tod precipitava a capofitto verso la propria perdizione. La videro serrare le distanze, accelerare la velocità, quasi temendo che l'occasione le sfuggisse. Intanto i vascelli delle tenebre riempivano ormai tutto l'orizzonte con le loro sinistre architetture.
Il combattimento – raccontò poi capo Untermeyer – durò una decina di minuti. Quelli della motobarca vi assisterono, impotenti e paralizzati dall'orrore.
Videro la corazzata Tod brandeggiare i dodici lunghi colli dei Vernichtungsgeschutze all'elevazione massima, verso gli spettrali simulacri. Poi una triplice vampa, un triplice fiotto di fumo rossiccio che rimase indietro, sospeso sopra le onde. Dalle canne uscirono come tre aste incandescenti che in curvo volo salirono rapidissime ad altezza vertiginosa per poi precipitare sul bersaglio. Sparirono, parve, nel fianco di uno dei neri bastimenti.
" Colpito in pieno! " gridò uno sulla motobarca con un assurdo ritorno di speranza. Difatti nel centro del vascello si aprì una voragine di fuoco, immediatamente i torrioni vacillarono, rimasero qualche istante in bilico, tutto quindi crollò in un frenetico intrico di macerie, e sprofondò nel mare.
Ma quando la corazzata Tod diede fuori la seconda salva, anche il nemico fece fuoco. Barbagli giallastri lampeggiarono contemporaneamente su quattro unità dell'armata misteriosa.
Col fiato in gola, quelli della motobarca aspettarono l'arrivo dei proiettili. Finché uno disse: " Ma non arriva niente. Ma non sono che fantasmi! ".
In quel preciso istante, mentre un terrificante tuono percuoteva gli echi dell'oceano, a proravia della corazzata Tod, dal mare livido, si levò verticalmente una dozzina di smisurate torri fatte di schiuma e d'acqua. Si eressero alte, altissime, sempre più alte, sembrava che non dovessero finire mai. Quanto alte? Seicento o settecento metri? Ciascuna era un cataclisma. Sfogato l'impeto, ricaddero, insaccandosi, tremenda massa in cui la corazzata Tod sparì per un paio di minuti.
Ricomparve intatta, tutta grondante spume, subito emise le terza e quarta salva lanciando altre sei aste incandescenti.
Tre, corte, finirono nel mare. Tre invece si infissero in un bastimento che assomigliava a un carro funebre con sette lunghi fumaioli. Ancora qualche secondo, ed ecco la nave scoperchéata da una violentissima esplosione: accartocciandosi i neri bordi, la ferita spaventosa vomitò fuori le viscere di fuoco. Allora il mare con furiosi sibili ribollì, e si formò un nuvolone di vapore acqueo nel quale disparvero, in un totale rovinio, le strutture della nave scardinata.
Anche ai guerrieri dell'inferno la corazzata Tod teneva dunque testa. Ma a che valevano i suoi magnifici colpi? Una seconda mostruosa selva di colonne d'acqua circondò la Tod scuotendola come fosse stata ùna barchetta. Che proiettili erano? Di che calibro? Grossi come vagoni? Come case? Di che sovrumane artiglierie?
Ora tutti i Vernichtungsgeschutze fecero fuoco in salva sincrona. Dodici fusi ardenti galopparono su per i nembi addensatisi sopra la battaglia. Fulminei ridiscesero. Un terzo bastimento nero fu sventrato e saltò in aria con un cipresso di fiamme e fumo che raggiunse la cupola del cielo.
Ma fu l'ultimo. A un tratto, nel preciso punto dove si trovava la corazzata Tod proruppe un picco d'acqua verticale, dalle pareti lisce e di dimensioni indescrivibili. Simile a un mostro, si drizzò in aria sorpassando l'altezza delle nubi. Qui restò immobile un secondo. Repentinamente tremò, si sciolse in cateratta, schiantandosi sul dorso grigio delle onde.
Quindi, di colpo, il nulla. Impietriti, quelli della motobarca non credevano quasi ai propri occhi. Di colpo dileguati i funerei vascelli dell'abisso, cessate le colonne d'acqua, le vampe, le detonazioni, sparita la corazzata Tod. Come se tutto quanto era successo se lo fossero inventato loro. Niente più c'era sulla vastità uniforme delle acque, non un rottame, un cadavere, una macchia di nafta iridescente. Il nudo oceano e basta (solo restavano nel cielo, a testimoniare, brandelli di catramose nubi). E nell'orribile silenzio, che si spalancò nei loro cuori come una immensa e vuota tomba, l'elica della motobarca borbottava, ritmicamente borbottava.