59. LA NOTIZIA

Il maestro Arturo Saracino, di 37 anni, già nel fulgore della fama, stava dirigendo al teatro Argentina la ottava Sinfonia di Brahms in la maggiore, op. 137, e aveva appena attaccato l'ultimo tempo, il glorioso " allegro appassionato ". Egli dunque filava via sull'iniziale esposizione del tema, quella specie di monologo liscio, ostinato e in verità un po' lungo, col quale tuttavia si concentra a poco a poco la carica potente di ispirazione che esploderà verso la fine, e chi ascolta non lo sa ma lui, Saracino, e tutti quelli dell'orchestra lo sapevano e perciò stavano godendo, cullati sull'onda dei violini, quella lieta e ingannevole vigilia del prodigio che fra poco avrebbe trascinato loro, esecutori, e l'intero teatro, in un meraviglioso vortice di gioia.

Quand'ecco egli si accorse che il pubblico lo stava abbandonando. È questa, per un direttore d'orchestra, l'esperienza più angosciosa. La partecipazione di chi sta ascoltando per inesplicabili ragioni viene meno. Misteriosamente, egli se ne accorge subito. Allora l'aria stessa sembra diventare vuota quei mille, duemila, tremila arcani fili, tesi fra gli spettatori e lui, da cui gli vengono la vita, la forza, l'alimento, si afflosciano o dissolvono. Finché il maestro resta solo e nudo su un deserto gelido, a trascinare faticosamente un'armata che non gli crede più.

Ma erano almeno dieci anni che aveva smesso quella terribile esperienza. Ne aveva perso anche il ricordo e perciò adesso il colpo era più duro. Stavolta poi il tradimento del pubblico era stato così repentino e perentorio da lasciarlo senza fiato.

" Impossibile " pensò " non c'è motivo che sia colpa mia. Io stasera mi sento perfettamente in forma, e l'orchestra sembra un giovanotto di venti anni. Dev'esserci un'altra spiegazione. "

Difatti, tendendo allo spasimo le orecchie, gli parve di percepire nel pubblico, alle sue spalle, e intorno, e sopra, serpeggiare un sommesso brusìo. Da un palco proprio alla sua destra giunse un esile stridore. Con l'estrema coda dell'occhio intravide due tre ombre che in platea sgusciavano verso un'uscita laterale.

Dal loggione qualcuno zittì imperiosamente, imponendo il silenzio. Ma la tregua fu breve. Ben presto, come per una fermentazione incoercibile, il sussurro riprese, accompagnato da fruscii, sussurri, passi furtivi, stropiccii clandestini, spostamenti di sgabelli, porticine aperte e chiuse.

Che stava succedendo? All'improvviso, come se in quell'istante lo avesse letto su una pagina stampata, il maestro Saracino seppe. Trasmessa probabilmente dalla radio poco prima e portata in teatro da un ritardatario, era giunta una notizia. Qualcosa di spaventoso doveva essere accaduto in qualche parte della terra, e ora stava precipitando su di Roma. La guerra? L'invasione? Il preannuncio di un attacco atomico? In quei giorni, erano lecite le più rovinose ipotesi. E sgusciando fra le note di Brahms, mille pensieri angosciosi e meschini lo assalirono.

Se scoppiava la guerra, dove avrebbe mandato i suoi? Fuggire all'estero? Ma la villa appena costruita, in cui aveva speso tutti i suoi risparmi, che fine avrebbe fatto? Sì, come mestiere, lui Saracino era fortunato. In qualsiasi parte del mondo, con la sua celebrità, di fame non sarebbe sicuramente morto. E poi i russi, per gli artisti hanno notoriamente un debole. Ma a questo punto, con orrore, si ricordò che due anni prima egli si era alquanto compromesso firmando, con tanti altri intellettuali, un manifesto antisovietico. Figurarsi se i colleghi non l'avrebbero fatto sapere alle autorità d'occupazione. No, no, meglio fuggire. E sua mamma, oramai vecchia? E sua sorella minore? E i cani? Precipitava in un pozzo di sgomento.

Del resto, che fosse giunta una informazione di catastrofe fulminea, non c'era ormai più ombra di dubbio. Con la minima decenza imposta dalla tradizione del teatro, il pubblico stava scandalosamente disertando. Saracino, alzando gli occhi verso i palchi, notava sempre più numerosi vuoti. A uno a uno, se ne andavano. La pelle, i soldi, le provviste, lo sfollamento, non c'era da perdere un minuto. Altro che Brahms. " Che vigliacchi " pensò Saracino, che aveva dinanzi a sé ancora dieci minuti buoni di sinfonia, prima di potersi muovere. " Che vigliacco " si disse però subito dopo, misurando l'abbietto panico, da cui si era lasciato impossessare.

Tutto infatti andava disfacendosi, dentro e dinanzi a lui. I cenni, ormai puramente meccanici, della bacchetta, non trasmettevano più nulla all'orchestra la quale inevitabilmente si era a sua volta resa conto della dissoluzione generale. E fra poco si sarebbe giunti al punto decisivo della sinfonia, alla liberazione, al grande colpo d'ala. " Che vigliacco " si ripeté Saracino, nauseato. La gente se ne andava? La gente stava fregandosene di lui, della musica, di Brahms per correre a salvare le loro esistenze miserabili? E con questo?

Improvvisamente capì che la salvezza, l'unica via di scampo, la sola utile e degna fuga era, per lui, come per tutti gli altri, stare fermo, non lasciarsi trascinare via, continuare il proprio lavoro fino in fondo. Una rabbia lo prese al pensiero di ciò che accadeva nella penombra alle sue spalle, che stava per accadere pure a lui. Si riscosse, alzò la bacchetta gettando a quelli dell'orchestra una spavalda e allegra occhiata, d'incanto ristabilì il flusso vitale.

Un tipico arpeggio discendente di clarino lo avvertì che erano ormai vicini: stava per cominciare lo stacco, la selvaggia impennata con cui la ottava Sinfonia, dalla pianura della mediocrità scatta verso l'alto e con gli accavallamenti tipici di Brahms, a potenti folate, si leva verticalmente, fino a torreggiare vittoriosa in una suprema luce, come nuvola.

Vi si buttò dentro con l'impeto moltiplicato dalla collera. Scossa da un brivido, anche l'orchestra si impennò, oscillando paurosamente per una frazione di secondo, quindi partì al galoppo, irresistibile.

E allora il brusìo, i sussurri, i colpi, i tramestii, i passi, il viavai tacquero, nessuno si mosse né fiatava più, inchiodati tutti restarono, non più paura ma vergogna, mentre dalle argentee antenne delle trombe, lassù, le bandiere sventolavano.

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