LA LINGUA DEI NNA MMOY

Il «giardino utopia» di Nna Mmoy gode giustamente della fama di essere assolutamente sicuro. «Un piano ideale per i bambini e gli anziani.» I pochi visitatori che vi si recano, bambini e anziani compresi, di solito lo trovano estremamente noioso e se ne allontanano non appena possibile.

Lo scenario è identico dappertutto: colline, campi, parchi, boschi, villaggi. Una monotonia fertile, bella, priva di stagioni. Il terreno coltivato e quello selvatico hanno un aspetto esattamente identico. Le poche specie di piante sono tutte utili, danno cibo, legna o fibra. Non c’è vita animale, a parte i batteri, alcune creature che assomigliano alle meduse negli oceani, due specie di insetti utili e i Nna Mmoy.

Il loro comportamento è gradevole, ma nessuno è mai riuscito a parlare con loro.

Anche se la loro lingua monosillabica è melodiosa all’orecchio, il translatomat incontra tali difficoltà che non vi si può fare affidamento neppure per le conversazioni più semplici.

Il Nna Mmoy scritto è un sillabario: ciascun suo carattere — delle svariate migliaia che si incontrano — è una sillaba. Ogni sillaba è una parola, ma una parola senza un significato specifico, fisso: è solo un campo di possibili significati determinati dalle sillabe che la seguono, la precedono o le sono vicine. Una parola del Nna Mmoy non ha una denotazione, ma un nucleo di connotazioni potenziali che possono essere attivate, o create, dal suo contesto. Perciò sarebbe possibile costituire un dizionario del Nna Mmoy soltanto se il numero delle possibili frasi fosse finito.

I testi scritti in Nna Mmoy non sono lineari, né orizzontalmente né verticalmente, ma radiali, si allargano in tutte le direzioni, come rami di albero o cristalli in crescita, a partire da una prima parola, o da una parola centrale, che, una volta completato il testo, può poi non corrispondere al centro o all’inizio del discorso. I testi letterari portano questa complessità polidirezionale a tali estremi da assomigliare a labirinti, rose, carciofi, girasoli, frattali.

Qualunque linguaggio parliamo, prima di iniziare una frase abbiamo una scelta quasi infinita di parole da usare. Uno, il, essi, mentre, avevano, allora, per, bisonte, ignorante, da, Winnemucca, in, questo… qualunque parola del nostro immenso vocabolario può costituire l’inizio di una frase nella nostra lingua. Mentre parliamo o scriviamo la frase, ogni parola influenza la scelta della successiva, la sua funzione sintattica di sostantivo, verbo, aggettivo ecc., persona e numero se pronome, tempo, coniugazione e persona e numero se verbo ecc. ecc. E, a mano a mano che la frase si allunga, le scelte successive si restringono, finché l’ultima parola può forse essere la sola che possiamo usare (anche se è una frase molto breve; come esempio si può usare la seguente: «Essere o non…»).

A quanto risulta, nel linguaggio Nna Mmoy non solo la scelta delle parole — sostantivo, verbo, tempo, persona ecc. — ma anche il significato di ogni parola è modificato in continuità da tutte le parole che la precedono o che la potrebbero seguire nella frase (sempre che il linguaggio Nna Mmoy sia composto di frasi).

E così, dopo avere ricevuto solo alcune sillabe, il translatomat comincia a generare una serie di possibili significati alternativi che proliferano rapidamente fino a dare un tale cespuglio di possibilità sintattiche e connotazionali, che la macchina si sovraccarica e si spegne.

Le presunte traduzioni dei testi scritti sono prive di significato oppure — e la cosa risulta ridicola — ne hanno troppi. Per esempio, ho trovato ben quattro traduzioni della stessa frase di nove caratteri:


«Tutti coloro che sono contenuti entro questo spazio sono da considerare amici, così come tutte le creature sotto il cielo.»

«Se non sapete cosa ci sia all’interno, fate attenzione, perché se portate dentro, insieme a voi, l’odio, il tetto vi crollerà sulla testa.»

«Dietro ciascuna porta c’è un mistero. La cautela è inutile. Amicizia e ostilità non sono nulla, sotto lo sguardo dell’eternità.»

«Entra senza paura, o forestiero, e sii il benvenuto. Ora siediti.»


Questa iscrizione, i cui caratteri sono scritti in modo da formare una sorta di cometa con la testa raggiante, si trova spesso sulle porte, i coperchi delle scatole e le copertine dei libri.

I Nna Mmoy sono eccellenti giardinieri, vegetariani per necessità. Le loro arti sono la cucina, l’oreficeria e la poesia. Ogni villaggio è in grado di coltivare, raccogliere e fabbricare tutto quello che gli occorre. C’è del commercio tra gli insediamenti, costituito prevalentemente da cibi cotti, ricette particolari — di cuochi di professione — nel menù vegetariano di quel mondo. I cuochi famosi barattano i loro piatti in cambio dei prodotti grezzi forniti dai giardinieri, più un leggero «plusvalore».

Non si è osservata attività mineraria, ma opali, peri-doti, ametiste, granati, topazi e quarzi colorati si possono raccogliere nel letto di ogni fiume; i gioielli sono poi ceduti in cambio di oro e argento non lavorati o usati. Il denaro esiste, ma ha esclusivamente un valore simbolico e di ostentazione. È usato nel gioco (i Nna Mmoy praticano vari e tranquilli giochi d’azzardo con dadi, gettoni e tessere) e per acquistare opere d’arte.

Il denaro è il mantello viola-perlaceo, trasparente e grosso come l’unghia del pollice, della specie più grossa di meduse locali. Queste «conchiglie» si trovano sulla spiaggia, portate dalle onde, e all’interno del continente sono cedute in cambio di gioielli e poesie, sempre che siano poesie i testi scritti, a fogli singoli, quaderni o rotoli, così belli e accattivanti alla vista.

Alcuni visitatori affermano con sicurezza che quei testi sono opere religiose e li chiamano Mandala o Scritture. Altri affermano con la stessa sicurezza che i Nna Mmoy non hanno religione.

Nel piano di Nna Mmoy ci sono molte tracce di quello che la gente del nostro piano chiama civiltà, termine con il quale, oggigiorno, da noi si intende un’economia capitalista e una tecnologia industriale basata su uno sfruttamento intenso delle risorse umane e naturali.

Rovine di città immense, tracce di lunghe strade e di enormi aree pavimentate, grandi distese desertificate e inquinate in modo permanente, e altre prove di una civiltà progredita e di una tecnologia scientifica aggiornata affiorano dai campi e ai margini dei boschi. Tutti sono molto antichi e paiono privi di interesse per i Nna Mmoy, che li guardano senza reverenza e senza curiosità.

Lo stesso modo con cui guardano i visitatori.

Nessuno capisce il loro linguaggio a sufficienza per dire se i Nna Mmoy hanno storie o leggende dei loro antenati responsabili delle grandi opere e delle altrettanto grandi distruzioni che si incontrano nel loro placido paesaggio.

Il mio amico Laure dice di avere sentito usare dai Nna Mmoy una parola in collegamento con le rovine: nen.

A quanto ha capito, la sillaba nen, modificata in vario modo dalle sillabe che la circondano, può significare tutta una gamma di oggetti che vanno da un’inondazione-lampo a un piccolo coleottero iridescente. Pensa che l’area centrale di connotazione di nen possa significare «cose che si muovono in fretta» o «eventi che accadono in fretta». Pare uno strano nome da dare alle rovine senza tempo, coperte d’erba, che dominano sui villaggi o che servono come loro fondamenta, ai tratti di pavimentazione pieni di crepe e sommersi che adesso costituiscono il fondo, coperto di argilla, di laghi poco profondi, agli immensi deserti chimici dove non cresce nulla, a parte un sottile strato di batteri scuri che si nutrono dell’acqua velenosa che vi si accumula.

Ma, parlando di nomi, non è certo che qualcosa abbia un nome presso i Nna Mmoy.

Laure ha trascorso più tempo di molti altri nel «giardino utopia». Gli ho chiesto di descrivermi qualche aspetto del piano, ho lasciato a lui la scelta, e questa lettera è la sua risposta:

«Mi hai chiesto della lingua. Hai descritto bene il problema, mi pare. Potrebbe essere utile pensarla come segue: Noi parliamo nella maniera «serpente». Un serpente può andare in qualunque direzione, ma solo una direzione per volta, seguendo la propria testa.

Loro parlano «stella di mare». Una stella di mare non ha da andare in giro granché. Non ha testa. Ha molte possibilità a disposizione, anche se non ne sceglie alcuna.

Immagino che le stelle di mare non pensino alle alternative, come sinistra o destra, avanti e indietro; non pensano in termini di cinque tipi di sinistra e destra, cinque tipi di indietro e avanti. O venti tipi di destra e sinistra, indietro e avanti. L’unica alternativa «questa direzione/quella direzione» per una stella di mare potrebbe essere il su o il giù. Le altre dimensioni, direzioni o scelte sono «questo o quello, o quello, o quello, o quello»…

Bene, ciò descrive un aspetto del loro linguaggio. Quando dici qualcosa in Nna Mmoy, quello che dici ha un centro, e l’affermazione va in più di una direzione dal centro… o verso il centro.

In giapponese, a quanto so, una piccola modifica di una parola o di un riferimento cambia completamente una frase, così — non conosco il giapponese, mi limito a improvvisare — se in una parola viene cambiata una sillaba, allora «i grilli cantano in coro alla luce delle stelle» diventa «i taxi sono finiti in un ingorgo all’incrocio». Mi pare che la poesia giapponese usi artisticamente questi doppi significati: un verso di una poesia può essere trasparente, per così dire, a un altro significato che avrebbe se si trovasse in un contesto diverso. Il significato superficiale permette a un significato alternativo di registrarsi nella mente del lettore nello stesso tempo.

Bene, tutto quello che dici in Nna Mmoy è di quel genere. Ogni affermazione è trasparente ad altre possibili affermazioni perché il significato di ogni parola dipende dal significato delle parole che lo circondano. È per questo che probabilmente non si possono chiamare parole.

Una parola nel nostro linguaggio è qualcosa di reale, un suono con una forma fissa. Prendi «gatto». In una frase, o da solo, ha un significato. Un certo tipo di animale. Per riferirti a un gatto, nel parlare usi sempre quegli stessi fonemi e, scrivendo, usi quelle lettere. La parola «gatto» è diversa da ogni altra parola. Come un gatto è diverso da ogni altro animale. «Gatto» è un nome, i verbi sono un po’ più vaghi. Cosa significa, se dici il verbo «aveva», da solo? Non molto. «Aveva» non è come «gatto»: ha bisogno di un contesto, un soggetto e un complemento oggetto.

Nel Nna Mmoy non ci sono parole come «gatto». Ogni parola è come «aveva», ma di più, molto di più.

Prendiamo la sillaba dde. Non ha ancora un significato. A no dde mü as significa più o meno: «Andiamo nel bosco» e in quel contesto dde significa «bosco». Ma Dim a dde mü as significa più o meno: «L’albero sorge accanto alla strada»; qui dde è un albero, a diventa «strada» invece di significare «andiamo» come nella frase precedente, e as significa «accanto» invece «dell’in» di moto a luogo. Ma se lo stesso gruppo di connotativi comparisse all’interno di altri gruppi, cambierebbe ancora. Hse vuy u no a dde mü as med as hro se se: «I viaggiatori sono giunti dal deserto dove non cresce nulla». Adesso dde significa «deserto» e non «albero». E in O be k’a dde k’a la sillaba dde significa «generoso, che dona liberamente», e non riguarda affatto gli alberi, se non metaforicamente. La frase significa, più o meno «ti ringrazio».

Il campo dei significati di una sillaba non è infinito, naturalmente, ma non credo che si possa fare un elenco dei significati possibili o potenziali, neppure un elenco lungo, come la «voce» relativa a una sillaba nei dizionari cinesi. Una sillaba del cinese parlato, hsing o lung, può avere decine di significati; ma è pur sempre una parola, anche se il suo significato dipende in una certa misura dal contesto e anche se occorrono cinquanta diversi caratteri scritti per esprimere i diversi significati. Ciascun diverso significato della sillaba è difatti una parola diversa, un’entità, un sasso nel grande alveo del linguaggio.

A una sillaba del Nna Mmoy corrisponde un solo carattere scritto. Ma non è un sasso. È una goccia nel fiume.

Imparare il Nna Mmoy è come imparare a tessere l’acqua.

Credo sia altrettanto difficoltoso per i Nna Mmoy imparare la propria lingua quanto per noi imparare la loro. Ma, se è solo per questo, hanno tempo a sufficienza, perciò la cosa non ha importanza. La loro vita non inizia qui e corre là, come cavalli su una pista da corsa. Vivono nel punto centrale del tempo, come una stella di mare nel proprio centro. Come il sole nella propria luce.

Quel poco che so della lingua — e non sono realmente certo di nulla, nonostante la mia dotta disquisizione sul dde - l’ho imparato soprattutto dai bambini. Le parole dei loro bambini sono maggiormente simili alle nostre, ti puoi aspettare che significhino la stessa cosa anche all’interno di frasi diverse. Ma i bambini continuano a studiare e quando imparano a leggere e scrivere, a dieci anni circa, iniziano a parlare come gli adulti.

Quando parlavo con gli adolescenti non riuscivo a capire molto di quello che dicevano, a meno che non parlassero con me come si parla con i bambini. Come in genere facevano. Imparare a leggere e scrivere è un’occupazione che dura tutta la vita: sospetto che comprenda non solo l’apprendimento dei caratteri, ma anche l’invenzione di nuovi, e di nuove loro combinazioni, nuove e belle forme di significato.

Sono giardinieri. Laggiù le cose crescono quasi da sole, non c’è bisogno di diserbare, non ci sono erbacce, non c’è da dare insetticidi, non ci sono parassiti. Comunque, sai anche tu com’è, in un giardino c’è sempre qualcosa da fare. Nel villaggio dove abitavo c’era sempre qualcuno che lavorava in giardino o tra gli alberi. Nessuno si rovinava la salute per lavorare troppo, comunque. Poi si raccoglievano tutti sotto qualche albero, nel pomeriggio, e parlavano e ridevano nel corso di una delle loro tipiche, lunghe conversazioni.

Spesso la conversazione terminava quando alcune persone si mettevano a recitare, o qualcuno apriva un foglio di carta o un libro e leggeva qualcosa. A quel punto alcuni si erano già allontanati per leggere da soli o per scrivere.

Ogni giorno molte persone scrivevano — molto lentamente, certo — sui fogli sottilissimi che producono dalla pianta del cotone. A volte portano quegli scritti agli altri del gruppo, nel pomeriggio, e li passano in giro; gli altri li leggono a voce alta. Altre persone vanno nella bottega del villaggio a lavorare su un gioiello: braccialetti e spille e complicate collane, fatte di filo d’oro, opale, ametista e simili. Quando sono finiti mostrano in giro anch’essi, li danno a qualcuno che poi li passa ad altri; nessuno li tiene a lungo.

Nel villaggio girava un po’ di denaro-conchiglia e a volte, se qualcuno ne vinceva un mucchietto giocando a «dieci» con le tessere, offriva al proprietario di un bel gioiello un paio di conchiglie per averlo, di solito accompagnando l’offerta con un mucchio di risate e di quelli che mi sembravano insulti rituali.

Alcuni di quei gioielli sono bellissimi, delicati bracciali fatti di infiniti ghirigori di filigrana d’oro, grosse e pesanti collane a forma di esplosione stellare o di spirali e incatenate tra loro. Varie volte me ne venne regalata una. Fu allora che imparai a dire o be k’a dde k’a. Io la portavo per qualche tempo, poi la passavo ad altri. Anche se avrei voluto tenerla.

Alla fine ho capito che alcuni di quei gioielli erano frasi, o versi di poesie. Forse lo erano tutti.

La scuola del villaggio si trovava sotto un noce. Il clima è molto temperato e privo di variazioni, perciò si può vivere tutto il giorno all’esterno. Nessuno aveva nulla da dire, se mi sedevo con i bambini e ascoltavo. I bambini si riunivano sotto quell’albero tutti i giorni per giocare, e infine l’uno o l’altro degli abitanti del villaggio arrivava e insegnava loro una cosa o l’altra. La maggior parte delle volte si trattava di esercitazioni di lingua, attraverso qualche racconto. L’insegnante iniziava una trama e un bambino la continuava in un certo modo, poi un altro subentrava, e così via, tutti ascoltavano con grande attenzione, pronti a intervenire.

L’argomento era sempre qualcosa che riguardava le attività del villaggio, questioni noiose, ma c’erano sorprese e battute, e un uso inatteso e inventivo di una parola o di un collegamento suscitava soddisfazione e lodi: «Un gioiello!» dicevano tutti.

Di tanto in tanto arrivava un insegnante regolare che faceva il giro dei villaggi e si fermava per un giorno, due o tre, per insegnare a leggere e scrivere. Anche gli adolescenti e qualche adulto venivano a sentire l’insegnante, insieme ai bambini. È così che ho imparato a leggere i caratteri di alcuni testi.

Gli abitanti del villaggio non mi hanno mai chiesto di me o da dove venissi. Non avevano alcuna curiosità di quel tipo. Erano gentili, pazienti, generosi, condividevano con me il cibo. Mi avevano dato una casa, mi lasciavano lavorare con loro, ma non avevano alcuna curiosità nei miei riguardi. O nei riguardi di qualsiasi altra cosa, a quanto vedevo, a parte le loro occupazioni quotidiane: giardinaggio, preparazione del cibo, fabbricazione dei gioielli, scrivere, conversare, ma conversare unicamente tra loro.

Come tutti coloro che mi hanno preceduto, ho incontrato tali difficoltà ad apprendere la loro lingua da dar loro probabilmente l’impressione di essere ritardato. Effettuai i soliti tentativi di imparare la lingua attraverso lo scambio di parole — ti colpisci il petto e dici il tuo nome, poi guardi con aria interrogativa la persona che ti sta davanti, oppure mostri una foglia e dici «foglia» e guardi speranzosamente la persona che hai di fronte -ma, semplicemente, non mi rispondevano. Neppure i bambini.

A quanto posso dire, un Nna Mmoy non ha un nome. Si rivolgono l’uno all’altro con frasi sempre variabili che sembrano significare rapporti sia permanenti sia temporanei di consanguineità, di responsabilità e dipendenza, di stato contingente, di mille altri collegamenti sociali ed emotivi. Io potevo mostrare me stesso e dire «Laure», ma che relazione poteva indicare?

Sospetto che ascoltassero la mia lingua come il farfugliare di un idiota.

Nessun altro nel loro mondo parla; nessun altro è senziente, tanto meno intelligente. Nel loro mondo c’è un solo linguaggio. Hanno riconosciuto in me un essere umano, ma uno con deficienze, dato che non sapevo parlare. Non riuscivo a instaurare un collegamento con loro.

Avevo con me una rivista, una pubblicazione di un’organizzazione americana per la protezione della natura, che leggevo all’aeroporto. Un giorno la tirai fuori e la porsi al gruppo di conversazione. Nessuno mi fece domande sul testo né lo guardò con interesse. Sono certo che non l’hanno riconosciuta come scrittura — un paio di dozzine di caratteri neri, ripetuti interminabilmente in linea retta — nulla che assomigliasse sia pur lontanamente ai loro meravigliosi arabeschi, alle foglie di felce e ai disegni sovrapposti e incatenati. Ma guardarono le fotografie. La rivista era piena di fotocolor di animali, specie in pericolo. I coralli e i pesci delle barriere coralline, le pantere della Florida, i lamantini, i condor della California. La rivista passò da un abitante del villaggio all’altro e anche le persone degli altri villaggi chiedevano di vederla, quando venivano in visita per conversare e fare baratti.

La mostrarono all’insegnante, una donna, quando tornò nel corso del suo giro, e lei mi fece domande sulle fotografie, la sola volta che un Nna Mmoy mi fece una domanda. Penso che la sua domanda fosse: «Chi sono queste persone?»

Nel loro mondo, devi sapere, non ci sono animali a eccezione degli abitanti. A parte piccole e innocue mosche o farfalle, che servono a impollinare le piante o a eliminare i corpi morti. Tutti i vegetali sono commestibili. L’erba è un cereale nutriente. Ci sono cinque generi di alberi, e tutti danno frutti o noci. Un solo tipo di sempreverde, usato per la legna, che fa anch’esso noci commestibili. Un solo cespuglio — onnipresente — un arbusto di cotone che produce fibra da filare, radici commestibili, foglie utilizzate per il tè. A parte gli indispensabili batteri, nel mondo non ci sono più di venti o trenta specie tra gli animali e le piante. E tutti, batteri compresi, sono «utili» e «innocui» per gli esseri umani.

La vita laggiù è un prodotto dell’ingegneria genetica. Deriva da un progetto. È davvero un’utopia. Tutto quello di cui gli esseri umani hanno bisogno e nulla d’inutile. Pantere, condor, lamantini… a che servono? La Guida planaria di Roman dice che i Nna Mmoy sono «i resti degenerati di una grande e antica cultura». Rornan vede le cose al contrario.

Quel che è degenerato, sul loro piano, è la rete della vita. La «grande e antica cultura» ha preso un tessuto vasto, ricco, complesso in modo incalcolabile, simile a quello della vita che riveste il nostro mondo, e lo ha ridotto a un frammento miserabile.

Sono certa che questa terribile povertà risalga all’epoca delle rovine. I loro antenati, con tutte le risorse della scienza e le migliori intenzioni, li hanno derubati di ogni cosa.

«Il nostro mondo è pieno di malattie, nemici, rifiuti e pericoli», si saranno detti quegli antenati, «microbi ostili e virus che ci infettano, erbacce velenose che crescono rigogliose attorno a noi mentre noi moriamo di fame, inutili animali che portano malattie e veleni e che competono con noi per il cibo e l’acqua. Questo mondo è troppo duro perché ci vivano gli esseri umani, troppo duro per i nostri figli», si saranno detti, «ma noi sappiamo come renderlo più dolce.»

E così hanno fatto. Hanno eliminato tutto quel che non era utile. Hanno preso uno schema grande e complesso e l’hanno semplificato alla perfezione. Una stanza dell’asilo nido, dove i loro figli potevano stare al sicuro. Un parco tematico, dove la gente non ha nulla da fare, tranne divertirsi.

Ma i Nna Mmoy hanno battuto in astuzia i loro antenati, almeno in parte. Hanno trasformato nuovamente il disegno in qualcosa di infinitamente complicato, infinitamente ricco, e privo di qualunque impiego razionale. L’hanno fatto con le parole.

Non hanno alcuna arte della rappresentazione, decorano con la loro bellissima scrittura — e solo con essa — i loro vasi e tutto ciò che producono. L’unico modo con cui imitano il mondo consiste nel mettere insieme parole, ossia lasciando che le parole interagiscano tra loro in una complessità fertile, sempre diversa, per formare figure e schemi che non sono mai esistiti prima, bellissime forme che durano per breve tempo e creano altre forme a cui lasciano il passo.

Il loro linguaggio è la loro ecologia, esuberante e infinitamente proliferante. Tutta la giungla che hanno, tutta la natura selvaggia, è la loro poesia.

Come ho detto, le fotografie della mia rivista sono risultate interessantissime per loro: le foto di animali. Le hanno guardate con quello che mi pareva desiderio e incomprensione. Io dissi loro i nomi, e mentre li pronunciavo indicavo la parola scritta. Ed essi ripetevano: Pan dhedh. Kon dodh. La ma tino.

Sono le sole parole della mia lingua che abbiano mai ascoltato, a cui abbiano riconosciuto un significato.

Suppongo che da quelle parole abbiano capito quanto ho capito io dalle parole che ho appreso del loro linguaggio: ben poco, e probabilmente sbagliato.

A volte mi recavo nelle antiche rovine vicino al villaggio. Una volta trovai un muro che era venuto alla luce quando un abitante del villaggio aveva usato il luogo come cava di pietre. Cera un bassorilievo, consumato dal tempo, e quando lo studiai, pian piano capii che cosa fosse. Una processione di persone, e nella processione c’erano anche altre creature. Era difficile capire che cosa fossero. Animali, senza dubbio. Alcuni avevano quattro zampe, uno aveva grandi corna, o forse ali. Può darsi che fossero animali veri, o immaginari, o divinità in forma di animale. Cercai di interrogare l’insegnante, ma lei si limitò a rispondere: «Nen, nen».

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