IL SEMOLINO DI ISLAC

Bisogna ammettere che il metodo inventato da Sita Dulip non è del tutto attendibile. A volte vi ritrovate su un piano diverso da quello dove intendevate recarvi.

Se quando viaggiate vi ricordate di portare con voi una copia della Guida Planaria Tascabile di Rornan, potete informarvi sul luogo d’arrivo, dopo esservi giunti, anche se lo stesso Rornan non è del tutto attendibile. Ma l’Enciclopedia Planaria in 44 volumi non è facile a trasportarsi e, del resto, soltanto chi è morto è immancabilmente attendibile.

Ero arrivata su Islac senza averne intenzione, quando avevo ancora scarsa esperienza, prima di avere preso l’abitudine di infilare in valigia il Roman.

L’Hotel Interplanario del luogo aveva la sua copia dell’Enciclopedia, ma mi fu riferito che era dal legatore, perché gli orsi avevano mangiato la colla della legatura e i libri si erano sfasciati.

Sul momento pensai che gli orsi di Islac dovevano essere ben strani, ma non volevo fare domande. Mi limitai a controllare attentamente il corridoio e la mia stanza, nel caso ci fosse un orso in agguato. Era un albergo molto bello e i clienti erano simpatici, così decisi di accettare quanto mi era accaduto e di passare su Islac un giorno o due.

Avevo cominciato a guardare i volumi della libreria della mia stanza e a provare il leggomat incorporato, e non pensavo più agli orsi, quando vidi sgattaiolare via un animaletto, che finì dietro il mobile. Andai a spostare la libreria e diedi un’occhiata allo sgattaiolatore. Era scuro e peloso, ma aveva una coda lunga e sottile, che mi ricordava il fil di ferro. Misurava quindici o venti centimetri, più la coda.

Non mi sarebbe piaciuto condividere la camera con quel tipo di ospiti, ma, ancor meno mi sarebbe piaciuto andare a lamentarmi con un estraneo — per lamentarsi con piena soddisfazione bisogna rivolgersi alle persone che conosciamo di più — perciò spostai la pesante libreria in modo che coprisse il buco della parete dove si era rifugiato l’animaletto e scesi per la cena.

L’hotel aveva una cucina di tipo familiare e tutti gli ospiti sedevano alla stessa lunga tavolata. Era un gruppo allegro, venuto da piani diversi. Col translatomat si poteva facilmente conversare a due a due, anche se le conversazioni dei vicini finivano per sovraccaricare il circuito.

La mia vicina di sinistra, una rosea signora di un piano chiamato Ahssì, mi raccontò che lei e il marito venivano spesso a Islac. Allora le domandai se sapeva qualcosa sulla storia degli orsi.

«Certo», mi rispose, con un sorriso. «Non sono pericolosi. Ma che piccole pesti! Rovinano i libri, leccano le buste e s’infilano sotto le coperte!»

«S’infilano nel letto?» domandai.

«Sì, sì. Erano animali da compagnia, capisce?»

Il marito si piegò per parlarmi da dietro la moglie. Era un bel signore, dalla faccia rosea. «Orsacchiotti», mi disse nella mia lingua, sorridendo. «Peluche.»

«Orsacchiotti di peluche?» chiesi io.

«Sì, sì», rispose, ma a quel punto dovette ricorrere alla sua lingua. «Gli orsacchiotti sono piccoli animali da compagnia per i bambini, vero?»

«Sì, ma non sono vivi.»

Mi guardò allarmato. «Animali morti?»

«No, animali di pezza, pieni di paglia, giochi…»

«Giusto, giusto. Giochi, animali da compagnia», confermò, con un sorriso e un cenno d’assenso.

Volle parlarmi della sua visita al mio piano; era stato a San Francisco, che gli era molto piaciuta; finimmo per parlare di terremoti anziché di orsacchiotti di peluche. Si era trovato in mezzo a un terremoto di grado 5,6: «Esperienza affascinante, molto gradita», lui e la moglie risero con piacere al ricordo. Davvero una coppia simpatica, con una disposizione ottimistica verso il mondo.

Al ritorno nella mia stanza spinsi la valigia contro il fianco della libreria, per bloccare meglio il foro nel muro, e andai a dormire augurandomi che gli orsi non avessero un’uscita di servizio. Nessuna creatura s’infilò nel mio letto, quella notte, ma mi svegliai molto presto perché subivo ancora gli effetti del cambiamento del fuso orario dopo il volo da Londra a Chicago, dove l’aereo che doveva portarmi a casa era in ritardo e mi ero potuta permettere la vacanza. La mattina era incantevole, la giornata si annunciava calda, il sole era appena sorto.

Mi alzai e uscii a prendere aria e visitare la città di Slas sul piano di Islac.

Sarebbe potuta passare per una qualsiasi grande città del mio piano di esistenza, niente di straordinario, a parte lo stile architettonico caotico/confusionale — molto più spinto che da noi — e le dimensioni degli edifici. Voglio dire che noi mettiamo nel centro della città, lungo le strade più belle, gli edifici grossi e importanti, e quelli piccoli e umili in periferia, in qualche quartiere povero o nelle bidonville.

In quel quartiere residenziale di Slas, le case grandi erano mescolate alle piccine e alcune di queste erano poco più che capanne.

Quando mi allontanai nell’altra direzione, verso il centro, trovai la stessa anarchia nella scala degli edifici commerciali. Una massiccia costruzione di quattro piani, con la facciata di granito, giganteggiava su un edificio di dieci piani, largo tre metri e con soffitti alti non più di un metro e mezzo: un grattacielo per le bambole. A quell’ora, però, cominciavano a esserci molti islai per strada e le persone mi sorpresero ancor più degli edifici.

Erano straordinariamente diversi come taglia, colore e forma. Una donna che doveva essere alta due metri e mezzo passò davanti a me, spazzando la strada: era la spazzina e ripuliva il marciapiede dai rifiuti, con grazia ed efficienza. Portava anche un piumino per spolverare o qualche attrezzo del genere: se l’era infilato nella cintura, dietro la schiena, come le penne di uno struzzo.

Poi mi passò davanti un uomo d’affari — collegato alla rete dei computer attraverso un auricolare, un piccolo altoparlante e il video nella lente sinistra degli occhiali — il quale continuava a dare ordini mentre studiava i rapporti di mercato. Mi arrivava alla cintola o poco più.

Quattro ragazzi passavano sul marciapiedi opposto al mio; non avevano nulla di strano, a parte il fatto di essere esattamente identici. Poi giunse un ragazzino che trotterellava in direzione della scuola, con lo zainetto sulle spalle. Trotterellava davvero, a quattro zampe, graziosamente, con le mani infilate in guanti o zoccoli di cuoio che le proteggevano dalla pavimentazione della strada. Era pallido, con gli occhi piccoli e un muso al posto della faccia, ma era adorabile.

Un caffè con i tavolini sul marciapiedi, accanto a un giardino del centro, aveva appena aperto. Non sapevo cosa consumassero gli islai a colazione, ma morivo di fame e avrei mangiato qualunque cosa.

Puntai il mio traduttore verso la cameriera, una donna dall’aria stanca, di una quarantina d’anni, che non aveva niente di straordinario, a parte la bellezza dei capelli, biondi, folti e raccolti in allegre treccine.

«Per favore», le dissi, «mi spieghi che cosa mangiano i turisti a colazione.»

Lei rise, poi mi rivolse un sorriso gentile e bellissimo, e rispose, servendosi del translatomat: «Be’, questo deve dirmelo lei. Noi mangiamo cledif, con la frutta o senza».

«Allora, cledif e frutta, per favore», le chiesi.

Poco dopo, la donna mi portò un piatto di frutta dall’aspetto delizioso e una scodella di un semolino color giallo chiaro, senza grumi, con la densità della crema pasticcera, tiepido. Dalla descrizione, sembrerebbe disgustoso, invece era molto buono: leggero ma saporito, capace di riempirti lo stomaco, e leggermente stimolante come il latte macchiato. La donna attese accanto a me, per vedere se fosse di mio gusto.

«Mi dispiace, ma mi sono scordata di chiederle se è carnivora», si scusò. «I carnivori mangiano a colazione un trancio di cullis, oppure cledif con rigaglie.»

«Va benissimo quello che mi ha portato», le assicurai.

Nel locale non c’era nessuno, e lei mi aveva trovato simpatica; anch’io la trovavo di mio gradimento.

«Posso chiederle di dov’è?» mi domandò, e fu così che cominciammo a parlare. Si chiamava Ai Li A Le. Presto mi accorsi che non soltanto era una persona intelligente, ma che era dotata di un’ottima istruzione. Era laureata in patologia delle piante, ma era fortunata, mi disse, di avere trovato lavoro come cameriera. «Dopo il Bando», spiegò, con un’alzata di spalle. Poi, nel notare che non capivo a cosa si riferisse, stava per spiegarmelo, ma ormai erano arrivati alcuni clienti — a un tavolino un omaccione taurino, a un altro due ragazzine, minute come uno scricciolo — e lei dovette andare a prendere le ordinazioni.

«Volevo spiegarglielo», si scusò, e aggiunse, con un sorriso gentile: «Be’, se torna oggi pomeriggio alle quattro, posso sedermi a parlare con lei».

«Verrò», le promisi, e quel pomeriggio fui di nuovo da lei.

Dopo aver passato qualche ora nel parco e nella città, tornai all’hotel per il pranzo e per schiacciare un pisolino, poi presi la monorotaia e ritornai in centro.

Non avevo mai visto una tale varietà di persone come tra i passeggeri della vettura: c’erano tutte le forme, le dimensioni, i colori, la quantità di capelli, peli e piume (quella che mi era parsa una coda, nel caso della spazzina, era davvero una coda) e anche fogliame, pensai, osservando un giovanotto alto, magro e dalla pelle verde. Quelle che aveva sulle orecchie erano davvero foglie? Lo sentivo sussurrare, al soffio del vento caldo pomeridiano che entrava nella vettura dai finestrini aperti.

La sola cosa che gli islai avessero in comune, purtroppo, era la povertà. Un tempo, senza dubbio, la città era prospera: in un passato non molto lontano. La monorotaia era un prodigio di ingegneria e di design, ma la vettura era vecchia, la gomma del pavimento era logora e la vernice scrostata. Gli edifici antichi sopravvissuti, che mantenevano le proporzioni a cui ero abituata, erano ricchi ma fatiscenti, e soffocati da giganteschi edifici moderni, da case di bambola e altre costruzioni che sembravano stalle, scuderie o conigliere: un guazzabuglio terribile, costruito in economia, dall’aspetto fragile e in pessimo stato.

Anche gli islai erano male in arnese, quando non erano vestiti di veri e propri stracci.

Alcuni dei più pelosi o dei più piumati portavano solo la pelliccia o le piume. Il ragazzo verde portava un perizoma per pudore, ma tronco e braccia, coperti di un’epidermide ruvida, erano nudi. Quella nazione aveva profonde e severe difficoltà economiche.

Ai Li A Le sedeva a un tavolino del cledifab vicino a quello dove lavorava lei. Mi sorrise e mi invitò a sedere; io mi accomodai al suo tavolino. Si era fatta servire una tazzina di cledif freddo con spezie; ne ordinai una anche per me.

«La prego, mi racconti del Bando», le chiesi.

«Una volta assomigliavamo a voi», mi rispose.

«E che cosa successe?»

«Be’», cominciò, con una leggera esitazione. «A noi piace la scienza. Ci piace anche l’ingegneria. Siamo bravi ingegneri. Ma forse non siamo altrettanto bravi come scienziati.»

Per riassumere il suo racconto, il forte degli islai erano la fisica pratica, l’agricoltura, l’architettura, l’urbanistica, l’ingegneria e le invenzioni, mentre il loro debole erano le scienze biologiche, la storia e la teoria. Avevano i loro Edison e i loro Ford, ma nessun Darwin e nessun Mendel. Quando i loro aeroporti cominciarono a essere come i nostri, se non peggio, scoprirono il viaggio interplanario. Su qualche altro piano, un centinaio di anni fa, uno dei loro scienziati scoprì la genetica applicata. La riportò a casa e tutti ne rimasero affascinati. Ne impararono subito i principi. O forse non li impararono (abbastanza) bene, prima di cominciare ad applicarli a tutte le forme viventi che avevano a loro disposizione.

«Iniziarono con le piante», mi spiegò. «Cambiare i vegetali perché dessero più frutti, o perché resistessero a virus e batteri, o per uccidere gli insetti e così via.»

Annuii. «Anche noi ne facciamo un mucchio», commentai.

«Davvero? Allora, anche lei…» Tradì un leggero imbarazzo, come se non sapesse come formulare la domanda che l’incuriosiva. «Da parte mia», confessò infine, timidamente, «sono mais.»

Controllai il display del translatomat. Uslu: mais, granturco. Anche la funzione dizionario mi confermò che l’uslu di Islac e il mais del mio piano erano la stessa pianta. Conoscevo la strana caratteristica del granturco: non ha una forma selvatica, solo un lontano antenato che non gli somiglia affatto. È in tutto e per tutto il risultato di una lunga selezione operata dagli antichi agricoltori e raccoglitori. Un vecchio miracolo genetico… ma cosa aveva a che fare con Ai Li A Le?

Ai Li A Le con i suoi meravigliosi, folti capelli color dell’oro, color del grano, che scendevano a trecce dall’alto della nuca…

«Solo il quattro per cento del mio genoma», precisò lei. «Ho anche lo zero virgola cinque di pappagallino, ma è recessivo. Grazie a Dio.»

Io stentavo ancora ad assorbire quanto mi aveva detto. Penso che abbia avuto la risposta dal mio silenzio carico di stupore.

«Erano assolutamente irresponsabili», disse con severità. «Con tutti i loro programmi e le loro politiche per migliorare ogni cosa, sono stati degli imbecilli. Hanno lasciato libere di mescolarsi tra loro tutte le forme. In dieci anni, il riso è stato spazzato via. I ceppi ottimizzati sono diventati sterili. Le carestie sono state terribili… Le farfalle, una volta c’erano le farfalle. Voi le avete?»

«Sì, qualcuna», risposi.

«E i deletu?» Una sorta di lucciola canterina oggi estinta, disse il mio traduttore. Scossi la testa, con aria pensosa.

Anche lei scosse la testa con aria pensosa.

«Io non ho mai visto una farfalla o un deletu. Solo fotografie. I cloni insetticidi li hanno uccisi. Ma gli scienziati non hanno imparato la lezione… affatto! Si sono messi a migliorare gli animali. A migliorare gli uomini! Cani che parlano, gatti che giocano a scacchi! Esseri umani che erano invariabilmente geniali, non si ammalavano mai e vivevano cinquecento anni! E hanno fatto tutto questo, oh, certo, come l’hanno fatto! Ci sono cani parlanti dappertutto, e sono scocciatori insopportabili, parlerebbero per ore di sesso, di cacca e degli odori! che hanno annusato negli angoli. ‘Odore’, ‘Cacca’, ‘Sesso’, e: ‘Mi vuoi bene?’, ‘Dimmi che mi vuoi bene’, e: ‘Quanto bene mi vuoi?’

«Non sopporto i cani parlanti. Il mio barbone gigante, Rover, non dice mai una parola, povero caro. E gli uomini! Non riusciremo mai a sbarazzarci del premier. È un Salubre, un maledetto PAGA. Ormai ha novant’anni e ne dimostra trenta e continuerà a dimostrarne trenta e a essere il primo ministro per altri quattro secoli. È un ipocrita che fa il santarellino, un prevaricatore avido, gretto, stupido e malvagio. Proprio il tipo adatto a mettere al modo figli, per cinquecento anni… e il Bando non lo riguarda.

«Con questo, non voglio dire che il Bando sia stato uno sbaglio. Occorreva fare qualcosa. La situazione era davvero terribile, cinquant’anni fa. Quando hanno scoperto che gli hacker genetici si erano infiltrati in tutti i laboratori, che metà dei tecnici erano fanatici bio-ingegneristi e che la Chiesa dei Figli di Dio aveva tutti quei laboratori, nell’emisfero orientale, e che metteva volutamente in circolazione tutte quelle mescolanze genetiche… naturalmente, gran parte dei loro prodotti non erano vitali. Ma molti lo erano… Quegli hacker erano davvero bravi. Gli uomini-pollo, ne ha mai visti?»

Non appena mi disse il nome, compresi di averli visti: persone piccole e tozze, che correvano in cerchio, in mezzo agli incroci, starnazzando per lo spavento. Per non investirle, si formavano enormi ingorghi.

«Se penso a loro, mi viene voglia di piangere», disse Ai Li A Le, con l’aria di chi ha voglia di piangere.

«Il Bando, allora, ha impedito ulteriori esperimenti?» domandai io.

Lei mi rivolse un cenno d’assenso.

«Sì. In realtà hanno fatto saltare per aria i laboratori. E mandato i bio-ingegneristi nel Gubi a rieducarsi. E messo in prigione i padri della Chiesa dei Figli di Dio. E buona parte delle Madri, mi pare. E fucilato i genetisti. E distrutto tutti gli esperimenti in corso. E i prodotti, se erano ‘troppo lontani dalla norma’.»

Si strinse nelle spalle. «La norma!» ripeté, aggrondata, anche se il suo viso solare non era fatto per aggrondarsi. «Non abbiamo più una. norma. Non abbiamo più specie. Siamo un semolino genetico. Quando piantiamo il mais cresce un trifoglio repellente per le erbacce che puzza di cloro. Quando piantiamo una quercia, cresce un cespuglio di quercia velenosa, ma è un cespuglio alto quindici metri, con un tronco di tre. E quando facciamo l’amore non sappiamo se nascerà un bambino, un puledro o un anatroccolo, o addirittura un albero. Mia figlia…» Qui si interruppe, dovette battere gli occhi e stringere le labbra prima di continuare.

«Mia figlia vive nel Mare del Nord. Mangia pesce crudo. È bellissima. Nera, col pelo che sembra seta, snella ed elegante. Ma l’ho dovuta portare sulla costa, quando ha compiuto due anni. L’ho dovuta mettere in quelle acque gelide, in mezzo a quelle enormi onde. E lasciarla nuotare via, lasciare che fosse quello che è. Ma anche lei è umana! Lo è, è umana!»

A questo punto piangeva, e piangevo anch’io.

Più tardi, Ai Li A Le continuò e mi spiegò come il Collasso del Genoma avesse portato a una profonda depressione economica, peggiorata dagli Articoli di Purezza del Bando, che limitavano gli impieghi statali e l’iscrizione, agli albi professionali a coloro che risultassero umani al 99,44 per cento, eccettuati naturalmente i Salubri, i Moralmente Corretti e gli altri PAGA (Prodotti d’Alterazione Genetica Approvati dal Governo di Emergenza). Per questo lei doveva lavorare come cameriera. Era mais per il 4 per cento.

«Una volta, il mais era la pianta sacra di molte popolazioni, nel luogo da cui provengo», le dissi, senza sapere bene che cosa stessi dicendo. «È una pianta bellissima. A me piace tutto quello che si fa con le sue pannocchie e la sua farina: polenta, focacce, pane di mais, tortillas, mais bollito, fiocchi col latte e con la zuppa, paste di meliga, grissini, tagliatelle di mais, whisky di mais, pannocchie arrostite e persino il pop corri, se non è troppo unto. Tutti cibi ottimi, tutti gustosi, tutti sacri. Spero che non le dia fastidio, se parlo di mangiare il mais!»

«Santo cielo, no!» mi rispose Ai Li A Le, sorridendo. «Di cosa crede sia fatto il cledif?»

Qualche minuto più tardi le chiesi degli orsacchiotti. Il termine non le era noto, naturalmente, ma quando le descrissi l’animale della mia libreria mi rivolse un cenno d’assenso.

«Ah, certo! Gli orsi dei libri. All’inizio, quando i progettisti genetici si riproponevano di migliorare tutto, deve sapere, hanno ridotto le dimensioni degli orsi, per farne animali da compagnia per i bambini. Come se fossero giocattoli, bambolotti impagliati, con la differenza che erano vivi. Programmati per essere passivi e affettuosi. Ma alcuni dei geni usati per la riduzione venivano da insetti: forbicine e quegli altri con la coda lunga, che vivono in mezzo alle foglie cadute, i collemboli. Così, gli orsi hanno cominciato a mangiare i libri dei bambini. La notte, mentre si supponeva che dormissero con i bambini, raggomitolati sotto le coperte, si alzavano e andavano a mangiargli i libri. Amano la carta e la colla. E quando li hanno fatti accoppiare, la nuova generazione aveva una coda lunga, che sembrava fil di ferro, e un muso un po’ da insetto, e non era più adatta ai bambini. Ma ormai erano già scappati nei muri, nelle intercapedini tra una parete e l’altra. Qualcuno li chiama orsi di biblioteca.»

Torno spesso a Islac, a trovare Ai Li A Le. Non è un piano particolarmente felice, e neppure rassicurante, ma sarei disposta ad andare in luoghi ancora peggiori, per vedere un sorriso così aperto, una cascata di capelli così dorati e per bere la mia tazza di mais in compagnia della donna di granturco.

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