COME SENTIRSI A CASA TRA GLI HENNEBET

Mi aspetto che la gente che non mi somiglia, non mi somigli — una ragionevole aspettativa, per quanto le aspettative possano essere ragionevoli — ma la mia mente comincia a vacillare leggermente, quando deve ammettere che le persone che mi assomigliano potrebbero non assomigliarmi.

Gli hennebet hanno un aspetto straordinariamente simile al mio. Intendo dire che non soltanto hanno la stessa forma complessiva e la stessa dimensione delle persone del mio piano, con le dita delle mani e dei piedi, le orecchie e tutte le altre cosine che controlliamo sui neonati, ma che hanno anche pelle pallida, capelli scuri, occhi miopi nelle tonalità tra il castano e il verde, corporatura massiccia e statura media. Quando stanno fermi sono tutt’altro che eleganti. I giovani sono agili e svegli, i vecchi sono pensosi e portati a dimenticare.

Gente timida e poco avventurosa, amano i paesaggi e tendono a tenersi lontano dagli stranieri, sono monogami, amano il lavoro, sono leggermente dispeptici e profondamente domestici.

Quando giunsi la prima volta nel loro piano, mi trovai immediatamente a mio agio, e — forse perché assomigliavo a uno di loro e, addirittura, sotto alcuni aspetti, mi comportavo come uno di loro — gli hennebet non sentivano la tentazione di scappare immediatamente quando mi vedevano.

Ero rimasta una settimana all’ostello (l’Agenzia Interplanaria, che esiste da parecchi kalpa, ha organizzato ostelli, locande, e anche alberghi di lusso in molte delle regioni più frequentate, e nello stesso tempo protegge dall’intrusione dei turisti le aree vulnerabili). Successivamente mi trasferii nella casa di una vedova che manteneva la famiglia prendendo a pensione un limitato numero di persone, tutte del luogo, me esclusa. La vedova, i due figli adolescenti, i tre pigionanti e io consumavamo colazione e pranzo insieme, e fu così che finii per appartenere a una famiglia locale. Erano certamente persone gentili e la signora Nannattula era un’ottima cuoca.

La lingua degli hennebet è notoriamente difficile, ma io riuscii a cavarmela con l’aiuto del translatomat fornito dall’Agenzia. In poco tempo mi parve di iniziare a conoscere i miei ospiti. Non erano diffidenti, in realtà; la loro timidezza era soprattutto una difesa della privacy.

Quando si resero conto che non ero invadente, persero tutta la loro rigidità; e io mi sgelai a mia volta rendendomi utile. Una volta convinta la signora Nannattula che intendevo realmente esserle d’aiuto in cucina, lei fu lieta di avere un apprendista cuoco.

Il signor Battannelle aveva bisogno di un ascoltatore; io ascoltai i suoi discorsi di politica (Hennebet è una democrazia socialista governata principalmente da comitati, in un modo che forse non sarà molto efficiente, ma che almeno non è disastroso). E io scambiavo informali lezioni di lingua con Tenngo e Annup, due ottimi adolescenti. Tenngo intendeva studiare da biologa e il fratello aveva il dono delle lingue. Il mio translatomat era utile, ma la maggior parte dell’hennebet che conosco l’ho imparato insegnando ad Annup l’inglese.

Con Tenngo e Annup non sentivo quasi mai il disorientamento in cui piombavo, di tanto in tanto, quando conversavo con gli adulti, ovvero l’impressione di non avere assolutamente idea delle cose di cui parlavano, l’impressione che all’improvviso s’era aperta un’immensa discontinuità nella comunicazione. Dapprima lo attribuii alla mia scarsa comprensione del linguaggio, ma c’era anche dell’altro. Si aprivano delle vere e proprie lacune. All’improvviso, gli hennebet erano dall’altra parte di un insuperabile crepaccio, del tutto fuori portata.

Questo succedeva con particolare frequenza quando parlavo con un’altra pensionante, la vecchia signora Tattava. Cominciavamo bene il discorso, parlando del tempo o delle ultime notizie o dei suoi lavori al piccolo punto, e allora, improvvisamente, ecco la discontinuità, nel bel mezzo di una frase: «Trovo che ricamare foglie sia comodo per riempire le aree di forma irregolare, ma dipingere a piccole foglie l’intero edificio è stato un lavorone. Credevo di non finire mai!»

«Che edificio era?» domandai io.

«L’hali tutuve», rispose, continuando tranquillamente a ricamare!

Non avevo mai udito, fino a quel momento, la parola tutuve. Il mio translatomat lo traduceva con «tempio, sacro recinto», ma non citava il termine hali. Così andai a cercare l’enciclopedia di Hennebet. L’hali, diceva, era una pratica che si riscontrava presso la popolazione della Penisola di Ebbo e che risaliva al millennio precedente; inoltre c’era una danza popolare chiamata kalihali.

La signora Tattava era ferma sulla scala con un’espressione rapita. La salutai. «Immagini che numero!» mi disse di rimando.

«Numero di cosa?» le chiesi, con cautela.

«I piedi!» rispose lei, sorridendo. «Uno dietro l’altro, uno dietro l’altro. Che danza! Che danza lunga!»

Dopo alcune di queste divagazioni chiesi alla signora Nannattula, prendendo il discorso molto alla larga, se la signora Tattava aveva qualche problema di memoria. La signora Nannattula, che tagliava la verdura per il tunun ma, rise e rispose: «Oh, è sempre un po’ fuori del mondo. Proprio così!»

Io dissi la solita banalità d’occasione: «Che peccato».

La padrona di casa mi guardò con aria leggermente perplessa, ma continuò lungo il proprio filo di pensieri, senza rinunciare al sorriso. «Dice che siamo sposate! Adoro parlare con lei. È un vero onore avere così tanta abba nella casa, non lo crede anche lei? Mi sento fortunatissima.»

Sapevo cos’era l’abba: un arbusto molto comune, un sempreverde; le bacche di abba - di gusto piccante che ricorda il ginepro — si usavano in alcuni piatti. Ce n’era un cespuglio nell’aia dietro la casa e in dispensa avevo visto un barattolo di bacche secche. Ma non mi pareva che la casa ne fosse piena.

Continuai a rimuginare sul «tempio hall» della signora Tattava. Non avevo mai visto alcun tempio su Hennebet, a parte la nicchia del soggiorno di casa Nannattula, dove la mia ospite teneva alcuni fiori, o steli di giunco e, ora che ci pensavo, anche un rametto di abba. Le domandai se la nicchia aveva un nome e lei mi rispose che era il tutuve.

Facendo appello al mio coraggio chiesi alla signora Tattava: «Dov’è l’hali tutuve?»

Per qualche momento, lei non mi rispose. «È molto distante, di questi tempi», mi disse infine, con uno sguardo lontano. Poi i suoi occhi si illuminarono un poco, quando li fissò nuovamente su di me.

«Lei c’è stata?»

«No.»

«È così difficile esserne certi», rispose lei. «Sa che io non dico più di non essere stata in qualche posto, perché spesso risulta che ci sono ora… o che ci siamo, dovrei dire, non è d’accordo? È stato bellissimo. Oh, quant’era lontano! E per tutto il tempo è sempre stato qui da noi, adesso!» Mi guardò con una tale allegria e un tale piacere che non potei fare a meno di sorridere e di sentirmi felice, anche se non avevo la minima idea di quel che intendesse dire.

In effetti cominciavo allora a notare che le persone della «mia» casa, e gli hennebet in generale, erano molto meno simili a me di quanto non avessi supposto. Era una questione di temperamento. Erano ben temperati. Erano di buona tempra. Non si trattava di una virtù, di un trionfo! etico; semplicemente, erano persone di buon carattere. Molto diverse da me.

Il signor Battannelle parlava di politica con gusto ed energia, con un vivace interesse per quei problemi, ma avevo sempre, l’impressione che mi sfuggisse qualcosa, qualche elemento che di solito consideravo parte del discorso politico. Non cambiava i termini come fanno certe persone poco convinte, le quali adattano la loro opinione a quella dell’interlocutore, ma non mi pareva mai sostenere un proprio particolare punto di vista. Tutto rimaneva sempre aperto. Sarebbe stato un grande fallimento, se avesse tenuto un filo diretto alla radio o se avesse partecipato come esperto a una tavola rotonda televisiva.

Gli mancava l’indignazione morale. Pareva privo di convinzioni. E chissà se aveva opinioni?

Spesso andavo con lui allo spaccio di grog e gli sentivo discutere argomenti di politica con gli amici, molti dei quali facevano parte di comitati governativi. Tutti ascoltavano, riflettevano, parlavano, spesso con eccitazione e in modo animato, interrompendosi l’un l’altro per sottolineare qualche proprio punto; si appassionavano notevolmente, ma non andavano mai in collera. Nessuno contraddiceva gli altri, neppure in maniera sottile, come per esempio facendo silenzio dopo un’affermazione.

Eppure, non mi davano l’impressione di voler evitare i dissensi, o di uniformare le loro idee a qualche norma, o di mirare a un consenso generale. E, quel che più mi lasciava perplessa, le discussioni politiche si scioglievano improvvisamente in una risata — dalle risatine alle risate a crepapelle; a volte, dal gran ridere, l’intero gruppo finiva per rimanere senza fiato ed era costretto ad asciugarsi gli occhi — come se discutere sulla conduzione del paese fosse la stessa cosa che sedere in compagnia raccontandosi barzellette.

Ma io non riuscivo mai a capire la battuta.

Ascoltando la televisione, non sentii mai alcun membro di un comitato affermare che si doveva prendere qualche provvedimento. Eppure il governo degli hennebet riusciva a fare il suo dovere. Il paese funzionava tranquillamente, venivano raccolte le tasse, veniva raccolta l’immondizia, i buchi nelle strade venivano asfaltati, nessuno moriva di fame. Le elezioni si svolgevano a brevi intervalli; le votazioni locali su questo o quell’argomento venivano sempre annunciate per televisione ed era fornito materiale informativo.

La signora Nannattuta e il signor Battannelle andavano sempre a votare. Spesso votavano anche i bambini. Quando compresi che alcune persone disponevano di un numero di voti maggiore delle altre, rimasi sconvolta.

Annup mi disse che la signora Tattava aveva diciotto voti, anche se di solito non si preoccupava di usarli, e probabilmente avrebbe potuto averne trenta o quaranta, se si fosse presa la briga di registrarsi.

«Ma perché ha più voti degli altri?»

«Be’, è anziana, lo sa», mi rispose il ragazzo. La sua umiltà era commovente, quando mi forniva qualche informazione o correggeva i miei malintesi. Tutti si comportavano allo stesso modo, come se mi ricordassero qualcosa che sapevo, ma che al momento mi era sfuggito di mente. Cercò di spiegare: «Vede, deve sapere, io ho un voto solo».

«Allora, diventando più vecchio, si pensa che tu diventi più saggio?»

Lui mi guardò con aria dubbiosa.

«Oppure è un modo di onorare gli anziani, dando loro più voti?!»

«Be’, lei li ha già, vero?» disse Annup. «Ritornano a lei, sa. O è lei che ritorna a loro, in realtà, come dice sempre mia madre. Se riesce a tenerli in mente. Gli altri voti che lei ha avuto.»

La mia espressione, probabilmente, era vuota come un muro di mattoni. «Quando lei, lo sa, viveva di nuovo.» Non disse: «viveva prima»; disse: «viveva di nuovo».

«La gente ricorda altre — le sue altre — vite?» chiesi, e lo guardai con aria interrogativa per avere la conferma.

Annup rifletté sulle mie parole. «Penso di sì», rispose, non molto sicuro. «È così che fate voi?»

«No», spiegai io. «Intendo dire, a me non è mai successo. Non capisco.»

Composi la parola «trasmigrazione» sul translatomat. La traduzione in hennebet riguardava gli uccelli che volano al Nord durante la stagione delle piogge e al Sud in quella asciutta. Composi «reincarnazione» e mi parlò di processi digestivi. Poi provai con i grossi calibri: «metempsicosi». La macchina mi disse che non c’era nessuna parola per la «fede» condivisa da numerose popolazioni di altri piani, che le «anime» dopo la morte, passassero a un «corpo» diverso. Il translatomat me lo diceva in hennebet naturalmente, ma le parole che ho messo tra virgolette erano in inglese.

Mentre ero occupata nella ricerca, sopraggiunse Annup. Gli hennebet non impiegano grossi macchinari e per gli scavi e l’edilizia si servono di attrezzi manuali, ma molto tempo fa hanno preso in prestito da popoli di altri piani le tecnologie elettroniche. Le usano per archiviare le informazioni, per la comunicazione e per il voto.

Annup adorava il translatomat, che per lui era un giocattolo, una sorta di videogame. Ora scoppiò a ridere. «Fede? È pensare in quel modo?» chiese. Io gli rivolsi un cenno affermativo. «E cosa sono le anime?» volle sapere.

Per parlare dell’anima cominciai a parlare del corpo; così è sempre più facile, si possono fare dei gesti. «Questo, qui davanti a te, io — braccia, gambe, testa, stomaco — è il corpo. Nella tua lingua mi pare si chiami atto. È così?»

Questa volta fu lui a farmi un cenno affermativo.

«E l’anima è all’interno del corpo.»

«Come le budella?»

Provai da un’angolazione diversa. «Quando una persona è morta, diciamo che la sua anima se n’è allontanata.»

«Allontanata?» mi fece eco. «Per andare dove?»

«Il corpo, l’atto, rimane qui… l’anima vola via. Alcuni dicono che va nell’Oltretomba, nel mondo dopo la vita.»

Mi fissò senza capire. Trascorremmo quasi un’ora a discutere della questione corpo-anima, cercando di trovare un terreno comune nelle due lingue, ma riuscendo solo ad aumentare la confusione. Il ragazzo era assolutamente incapace di effettuare una qualunque distinzione tra materia e spirito, l’atto era tutto ciò che eravamo; una persona era tutta atto; come poteva essere qualcosa d’altro? Non c’era posto per qualcosa d’altro. «Come può esserci qualcosa di più dell’unnua?» mi chiese alla fine.

«Allora, ciascuno di voi — ciascuna persona — è l’universo?» gli chiesi io, dopo avere controllato sul translatomat e scoperto che unnua significava universo, tutto, ogni cosa, tutto il tempo, l’eternità, l’interezza, il complessivo e, inoltre, tutte le portate di una cena, il contenuto di una caraffa o bottiglia piene, e anche il piccolo di ogni specie al momento della nascita.

«E come non potrebbe essere? A parte gli immaturi, naturalmente.»

A quel punto dovetti andare ad aiutare sua madre a cucinare e fui lieta di lasciarlo. La metafisica non è mai stata il mio punto forte. Era interessante come quella gente — che, per quanto ne sapevo, non aveva una religione organizzata — avesse una metafisica completamente chiara anche per un ragazzo di quindici anni. Mi domandai quando l’avesse appresa, e dove; probabilmente a scuola.

Quando gli chiesi dove avesse imparato che l’atto era unnua e così via, negò di averlo mai saputo.

«Non so nulla», rispose. «Che abba posso avere? La prego, parli con persone che sanno chi sono, come la signora Tattava!»

E così feci. Mi buttai. Stava ricamando fiori a punto catenella, con il filo di seta giallo, accanto alla finestra che dava sul canale, dove poteva approfittare della luce del pomeriggio. Mi sedetti accanto a lei e dopo qualche tempo chiesi: «Signora Tattava, ricorda le vite da lei vissute prima di questa?»

«Come può, una persona, vivere più di una vita?»

«Be’, allora, perché lei ha diciotto voti?»

Mi sorrise. Aveva un sorriso straordinariamente dolce, placido. «Oh, be’, lo sa anche lei, ci sono tutte le altre persone che vivono questa vita. Anch’esse sono qui. E tutte hanno diritto di votare, non crede? Quando vogliono. Ma io sono terribilmente pigra. Non mi piace raccogliere tutte quelle informazioni. Così, la maggior parte delle volte, finisco per non votare. Lei vota sempre?»

«Io non sono una…» cominciai. Mi interruppi per cercare la parola cittadina sul mio translatomat. Mi disse che la parola in hennebet per cittadino era persona.

«Non sono sicura di quello che sono», dissi.

«Molte persone non lo sono mai», rispose lei, parlando con grande sincerità, questa volta, e sollevando lo sguardo dal punto catenella.

I suoi occhi, in mezzo alle rughe e dietro le lenti bifocali, erano tra il castano e il verde. Gli hennebet non fissano mai le persone, ma lei ora mi guardò. Fu uno sguardo gentile, sereno, distaccato e rapido. Ebbi l’impressione che non mi vedesse bene.

«Ma non ha importanza, lo sa», disse. «Se per un momento in tutta la sua vita lei sai chi è, allora quella è la sua vita, quel momento, e quello è unnua, tutto qui. In una vita breve ho visto la faccia di mia madre, simile al sole, e perciò sono qui. In una vita lunga sono andata laggiù, laggiù e anche laggiù; ma ho scavato nel giardino, ho estratto con la mano la radice di un’erbaccia e così sono unnua. Quando lei invecchierà, lo sa, continuerà a essere qui e non là, tutto è qui. Tutto è qui», ripeté, con una risatina serena, e continuò a ricamare.

Ho parlato degli hennebet con altre persone. Alcuni pensano che gli hennebet conoscano letteralmente l’esperienza della reincarnazione e che, a mano a mano che diventano vecchi, ricordino parti sempre più vaste delle loro vite passate finché, in punto di morte, si ricongiungono a un’innumerevole moltitudine di personalità precedenti, e quando rinascono portano nella loro nuova vita quell’immateriale fila o filiera di vecchie vite.

Ma non riesco a conciliare questo con il fatto che l’anima e il corpo sono una singola cosa, per loro, e che o nulla o tutto è materiale o immateriale. Né si accorda a quanto diceva la signora Tattava su «tutte le altre persone che vivono questa vita». Non ha parlato di «altre vite». Non ha detto: «vissuto questa vita in altri periodi di tempo». Ha detto: «anch’essi sono qui».

Non ho idea di cosa sia l’abba, a parte l’arbusto con le piccole bacche dal sapore piccante.

La sola cosa che posso dire sugli hennebet è che alcuni mesi trascorsi con loro hanno notevolmente confuso le mie aspettative di identità e le mie idee sul tempo, e che dal giorno della mia visita mi pare di essere incapace di mantenere un’opinione realmente forte su qualunque cosa, ma questo è un altro discorso.

Загрузка...