L’ISOLA DEGLI IMMORTALI

Qualcuno mi aveva chiesto se sapevo dell’esistenza di immortali sul piano di Yendi, e qualcun altro mi aveva detto che ce n’erano. Di conseguenza, quando arrivai laggiù, chiesi informazioni.

Con una certa riluttanza, l’agente di viaggio mi mostrò su una cartina un posto chiamato l’Isola degli Immortali. «Non vorrà certo andarci», mi disse.

«Non voglio?»

«Be’, è pericoloso», mi spiegò, guardandomi come se fosse certa della mia non appartenenza alla categoria di chi ama il pericolo, giudizio sostanzialmente corretto.

Era un’agente locale senza grandi sottigliezze, non una dipendente del Servizio Interplanario. Yendi non è una destinazione molto frequentata. Sotto molti aspetti è talmente simile al nostro piano che non vale la pena di visitarla; ci sono alcune differenze, ma sottili.

«Perché è chiamata Isola degli Immortali?»

«Perché alcune delle persone sono immortali.»

«Allora non muoiono?» continuai io, che non ero mai del tutto sicura dell’accuratezza del mio translatomat.

«Non muoiono, no», mi rispose con indifferenza. «Però l’Arcipelago delle Prinjo è un luogo incantevole per trascorrerci un paio di settimane di riposo.» La sua matita si mosse verso sud, dall’altra parte del Gran Mare di Yendi. Il mio sguardo, però, rimase fisso sulla grande, solitaria Isola degli Immortali. Gliela indicai.

«C’è un hotel… laggiù?»

«Non è attrezzata per il turismo. Solo capanne per i cercatori di diamanti.»

«Ci sono miniere di diamanti?»

«Probabilmente», rispose lei, sprezzante.

«E qual è il pericolo?»

«Le mosche.»

«Le mosche pungono? Portano malattie?»

«No.» A quel punto cominciava a irritarsi.

«Mi piacerebbe andarci per un paio di giorni», le dissi io, nel tono più accattivante che trovai. «Tanto per vedere se sono coraggiosa. Se mi spavento, torno subito indietro. Mi dia un volo di andata e ritorno, col ritorno aperto.»

«Non c’è aeroporto.»

«Ah. E allora, come posso arrivare laggiù?» continuai, più accattivante che mai.

«Con la nave», mi rispose lei, per nulla accattivata. «Una la settimana.»

Niente porta all’ostinazione come l’ostinazione.

«Perfetto!» risposi.

Almeno, pensavo lasciando l’agenzia di viaggi, non sarà come Laputa. Avevo letto I viaggi di Gulliver da bambina in una edizione ridotta e chissà quanto epurata. Il mio ricordo di quella lettura era come tutti i miei ricordi di infanzia: immediato, spezzettato, vivido. Isole di qualche brillante particolarità in un vasto oceano di oblio. Ricordavo che Laputa viaggiava nell’aria e che di conseguenza occorreva usare una nave volante per raggiungerla. E in realtà ricordavo poco di più, a parte che gli abitanti di Laputa erano immortali e che, dei quattro viaggi di Gulliver, era quello che mi era piaciuto meno, tanto da farmi dire che era «per i grandi», caratteristica che all’epoca costituiva per me una condanna.

Gli abitanti di Laputa avevano macchie, nei, qualcosa del genere che li distingueva dagli altri? Ed erano studiosi? Diventavano imbecilli e continuavano a vivere eternamente nell’idiozia e nell’incontinenza… oppure ero io che me l’immaginavo? Avevano qualcosa del genere, qualcosa di antipatico, una cosa per i grandi.

Ma mi trovavo su Yendi, dove le opere di Swift non erano in biblioteca. Non potevo controllare. Allora, dato che avevo un’intera giornata prima che la nave partisse, mi recai in biblioteca e cercai ulteriori notizie sull’Isola degli Immortali.

La Biblioteca Centrale di Undund è un vecchio e nobile palazzo pieno di comodità moderne, compresi i leggomat. Chiesi aiuto a un bibliotecario ed egli mi portò le Esplorazioni di Postwand, scritto circa 160 anni prima, da cui ho copiato quanto segue:


(All’epoca in cui Postwand scrisse, la città portuale dove mi trovavo, An Ria, non era ancora stata fondata. Gli abitanti della costa erano tribù sparse di pastori e di contadini. Postwand si era interessato del loro folclore in modo intelligente, anche se con un po’ di superiorità.)

«Tra le leggende dei popoli della Costa Orientale» scrive, «una riguardava una grande isola, lontana due o tre giorni di viaggio, a occidente, dalla Baia di Undund, dove abita la gente che non muore mai.

«Tutti coloro a cui chiesi informazioni conoscevano la fama dell’Isola degli Immortali, e alcuni mi raccontarono che membri della loro tribù avevano visitato il luogo. Impressionato dall’uniformità dei racconti, decisi di mettere alla prova la loro attendibilità.

«Quando alla fine Vong ebbe terminato di riparare la mia barca, lasciai la Baia e feci vela a occidente sul Gran Mare. Un buon vento di poppa favoriva la mia spedizione.

«Verso il mezzodì del quinto giorno di viaggio avvistai l’isola. Priva di alture notevoli, pareva lunga almeno cinquanta miglia da nord a sud. Nella zona dove accostai inizialmente, la riva era totalmente composta di paludi d’acqua salata. Essendo un momento di bassa marea e il tempo insopportabilmente caldo, l’odore putrido del fango ci tenne a grande distanza finché non scorgemmo una spiaggia sabbiosa; là potei dirigermi verso una baia poco profonda, dove presto vidi i tetti di una piccola città accanto alla foce di un fiume.

«Legammo la gomena a un imbarcatoio rozzo e decrepito e con indescrivibile emozione, almeno per quel che mi concerne, mettemmo piede su quell’isola che aveva la fama di contenere il segreto della vita eterna.»


Penso che abbrevierò qualcosa della descrizione di Postwand; è prolisso e inoltre critica sempre il suo assistente Vong, che pare avere fatto la maggior parte del lavoro e che non provava mai nessuna di quelle emozioni «indescrivibili».

Lui e Vong visitarono la città, trovandola abbastanza male in arnese e per niente straordinaria, a parte la presenza di orribili sciami di mosche.

Tutti giravano con una copertura di garza da capo a piedi, e tutte le porte e le finestre erano protette da zanzariere. Postwand pensò che le mosche pungessero in modo selvaggio, ma scoprì che non era così; erano fastidiose, riferisce, però i loro morsi si sentivano a malapena e il punto colpito non dava prurito e non gonfiava. Si chiese se non portassero qualche malattia. Lo domandò alla gente dell’isola che disse di non conoscere malattie e che i soli che si ammalassero erano gli stranieri.

A quel punto Postwand cominciò a essere vivamente interessato, com’è ovvio, e domandò se non morissero. «Certo» gli risposero.

Non riferisce altro che gli abbiano detto, ma si ha l’impressione che lo trattassero come l’ennesimo idiota del continente venuto, a fare domande stupide. A quel punto Postwand si irrita e comincia a fare commenti sulla loro arretratezza, la cattiva educazione, e l’esecrabile modo di cucinare.

Dopo una orribile notte in qualche sorta di capanna, Postwand e assistente esplorarono per la lunghezza di alcuni chilometri l’entroterra, a piedi perché non c’era altro genere di trasporto.

In un minuscolo villaggio accanto a una palude, scorsero uno spettacolo che era, com’egli stesso lo descrive:


«La positiva conferma che l’affermazione degli abitanti dell’isola, di non essere affetti da malattie infettive, era una semplice vanteria o qualcosa di ancor più sinistro: infatti non ho mai visto un esempio di udreba più terribile, neppure nelle foreste di Rotolo. Il sesso della povera vittima era irriconoscibile; delle gambe rimanevano solo moncherini; l’intero corpo pareva essere stato liquefatto dal fuoco; solo i capelli, che erano del tutto bianchi, crescevano folti, lunghi, pieni di nodi e sporchi… un’orribile corona a quel tristo spettacolo».


Cercai «udreba». È una malattia temuta dagli yendi come da noi la lebbra, a cui assomiglia, anche se è molto più rapida e pericolosa nel suo decorso. Un singolo contatto con la saliva o qualche altro liquido corporeo può essere causa d’infezione. Non c’è vaccino e non c’è cura. Postwand s’inorridì nel vedere bambini giocare vicino al malato di udreba. A quanto pare, rimproverò di scarsa igiene una donna del villaggio, la quale si offese e lo rimproverò a sua volta, dicendogli di non fissare la gente. La donna raccolse il povero malato «come se fosse un bambino di cinque anni», dice il testo, e lo portò nella capanna, poi uscì con una ciotola piena di qualche materiale sconosciuto, brontolando ad alta voce. A quel punto, Vong, con cui non posso fare a meno di essere d’accordo, suggerì che fosse tempo di andarsene. «Diedi ascolto alle apprensioni del mio compagno, benché infondate», dice Postwand. Lasciarono l’isola quella sera stessa.

Non posso dire che dopo aver letto quel resoconto fossi entusiasta di visitare l’isola. Cercai qualche informazione più recente. Il mio bibliotecario era sparito, un po’ come facevano sempre gli yendi. Non sapevo usare bene il catalogo per argomenti, oppure era organizzato in modo ancor più incomprensibile dei nostri cataloghi elettronici, o c’erano pochissime informazioni relative all’Isola degli Immortali nella biblioteca.

Riuscii solo a trovare un trattato intitolato I diamanti di Aya (nome con cui veniva talvolta indicata l’isola). L’articolo era troppo tecnico per il leggomat, che continuava a lasciare spazi vuoti. Non capii molto, a parte il fatto che, a quanto pareva, non c’erano miniere; invece di dover essere disseppelliti dal profondo della terra, i diamanti si trovavano sulla superficie, un po’ come mi pare accada, nel mio piano, per il deserto del Sudafrica.

Dato che l’Isola di Aya era coperta di foreste e paludosa, i suoi diamanti venivano alla luce nella stagione umida, dopo una forte pioggia o uno smottamento di fango. Allora i cercatori arrivavano e andavano alla loro ricerca. Ogni tanto se ne trovava qualcuno enorme: quanto bastava per indurre altri forestieri a recarsi laggiù.

A quel che pareva, gli isolani non si univano mai alle ricerche. In effetti, alcuni cercatori delusi dicevano che gli abitanti dell’isola seppellivano i diamanti quando li trovavano. Se capivo bene il trattato, alcuni dei diamanti trovati sull’isola erano immensi, secondo i nostri standard. Erano descritti come «privi di forma regolare», in genere scuri se non neri, a volte chiari, e con un peso fino a due chili e mezzo. Non riferiva in che modo venissero poi tagliate quelle pietre gigantesche, a che servissero, o il loro prezzo di mercato. Evidentemente, gli yendi non attribuiscono ai diamanti lo stesso valore che gli attribuiamo noi. In tutto il trattato c’era un tono spento, quasi furtivo, come se riguardasse un argomento vagamente vergognoso.

Certamente se gli isolani avessero saputo qualcosa sul «segreto della vita eterna», non avrei dovuto trovare qualcosa di più sul segreto, e sugli isolani stessi, nella biblioteca?

Fu la semplice ostinazione, o la riluttanza a tornare dall’antipatica agente dì viaggio e ammettere il mio errore, a portarmi sul molo, l’indomani mattina.

Mi rallegrai infinitamente quando vidi il mio battello, un’affascinante mini-nave di linea, con una trentina di belle cabine. Il suo viaggio, della durata di due settimane tra andata e ritorno, la portava a fare visita ad alcune isole a occidente di Aya. La nave sorella, che toccava l’isola nel corso del viaggio di ritorno, mi avrebbe riportato al continente alla fine della settimana. O magari potevo semplicemente rimanere a bordo e compiere una crociera di quattordici giorni. Il personale di bordo della nave non avrebbe fatto obiezioni. Tutti erano molto disponibili, persino superficiali, su quel tipo di accordi.

Avevo l’impressione che la scarsa energia e una breve durata dell’attenzione fossero assai comuni tra gli yendi. Ma i miei compagni di viaggio non avevano problemi, e l’insalata di pesce freddo era eccellente.

Passai due giorni sul ponte della nave, a guardare gli uccelli marini che si lanciavano sulla superficie del mare, i grandi pesci rossi che saltavano e i pesci volanti, traslucidi, che si libravano sulle onde.

Avvistammo Aya la mattina del terzo giorno, molto presto. All’imboccatura della baia, il fetore delle paludi era davvero scoraggiante, ma una conversazione col comandante della nave mi aveva convinto, in definitiva, a visitare Aya, e scesi a riva.

Il capitano, un uomo sulla sessantina, mi aveva assicurato che c’erano davvero gli immortali sull’isola. Non nascevano immortali, ma contraevano l’immortalità dalla puntura delle mosche dell’isola.

Secondo lui si trattava di un virus.

«È meglio che lei prenda precauzioni», aggiunse. «È raro. Non credo che ci sia stato un nuovo caso da cento anni… forse di più. Ma lei non dovrebbe correre rischi.»

Dopo aver riflettuto qualche momento, gli chiesi con tutta la delicatezza possibile, anche se la delicatezza è difficile da raggiungere con il translatomat, se non ci fosse gente che volesse sfuggire alla morte… gente che veniva sull’isola nella speranza di essere punta da una di quelle mosche capaci di infettare. C’era qualche lato negativo che non conoscevo, un prezzo troppo alto da pagare persino per l’immortalità?

Il capitano rifletté sulla mia domanda. Era un uomo che parlava lentamente, senza eccitarsi, quasi un po’ lugubre.

«Penso di sì», rispose. Mi fissò. «Potrà giudicare lei», aggiunse, «dopo essere stata sull’isola.»

Non volle dirmi altro. I capitani hanno quel diritto.

La nave non entrò nella baia; venne raggiunta alla barriera da una barca che portava a riva i passeggeri. I miei compagni di viaggio erano rimasti in cabina.

Quando uscii sul ponte per salire sulla barca e mi voltai per salutarli, c’erano soltanto il capitano e un paio di marinai a osservarmi (ero tutta coperta, da capo a piedi, di una rete forte, a maglie fini, che avevo preso in affitto dalla nave). Ero spaventata. Non sapere di che cosa mi spaventassi non serviva a togliermi la paura.

Mettendo insieme le parole del capitano e quelle di Postwand, pareva che il prezzo dell’immortalità fosse l’orribile malattia udreba. Ma ne avevo scarsissime prove e la mia curiosità era intensa.

Se nel mio paese si scoprisse un virus che rende immortali, enormi somme di denaro sarebbero devolute al suo studio; se fosse risultato che aveva degli effetti negativi, gli scienziati l’avrebbero alterato geneticamente per eliminarli e i talk show l’avrebbero messo nel loro stupidario, i giornalisti avrebbero pontificato sull’argomento, un po’ vi avrebbe pontificato anche il pontefice e come lui tutti gli altri capi religiosi, e intanto i ricchissimi si sarebbero impadroniti non solo del mercato, ma anche delle scorte. E a quel punto i ricchissimi sarebbero stati ancor più diversi da voi e da me.

Mi incuriosiva il fatto che non fosse successo nulla di tutto questo. Agli yendi, a quanto pareva, la possibilità di essere immortali interessava così poco che in biblioteca non c’era nulla al riguardo.

Quando la barca fu più vicino alla città, potei vedere che l’agente di viaggio non mi aveva detto il vero. C’erano alberghi, sull’isola, almeno in passato: un paio di grossi edifici di quattro piani. Erano chiaramente dei relitti, con le insegne pendenti e le finestre sbarrate o senza vetri.

Il barcaiolo, un giovanotto dall’aria timida, abbastanza di bell’aspetto, per quanto potevo giudicare dall’involucro di garza in cui era avvolto, mi chiese attraverso il translatomat: «La loggia dei cercatori, signora?» Io annuii e lui pilotò la barca verso un piccolo imbarcatoio all’estremità settentrionale dei moli.

Anche quella parte del porto pareva avere conosciuto tempi migliori. Adesso era cadente e deserta, priva di navi passeggeri, solo un paio di battelli per la pesca con la rete o con l’attrezzatura per le aragoste.

Salii sul molo e mi guardai attorno nervosamente, allarmata da quanto avevo udito sulle mosche. Ma al momento non ce n’erano. Diedi al giovanotto due radio di mancia ed egli, per riconoscenza, mi accompagnò lungo la strada — una stradina triste — fino alla loggia dei cercatori di diamanti. Si trattava di otto o nove decrepiti bungalow gestiti da una donna dall’aria svogliata che, parlando lentamente, senza virgole e senza punti, mi disse di prendere il numero 4 perché «gli schermi sono migliori colazione alle otto cena alle sette diciotto radio per il pranzo al sacco un radio e cinquanta di supplemento».

Nessuno degli altri bungalow era occupato. La toilette aveva una piccola perdita interna ed eterna… tic… tic, di cui non riuscii a scoprire l’origine. La colazione mi venne portata su un vassoio; il cibo era commestibile. Le mosche comparvero con il calore del giorno, ne arrivarono un mucchio, ma non gli sciami densi e terribili che mi ero aspettata. Gli schermi le tennero lontane e l’involucro di garza impedì loro di pungermi. Erano mosche color marrone, piccole e sottili.

Quel giorno e la mattina seguente, camminando per la città, di cui non riuscii a trovare da nessuna parte l’indicazione del nome, mi accorsi che la tendenza degli yendi alla depressione aveva toccato il fondo, laggiù, aveva raggiunto il suo nadir. Gli abitanti dell’isola erano gente triste. Senza brio. Senza vita. La mia mente visualizzò quelle parole e continuò a contemplarle.

Capivo che avrei gettato via la mia intera settimana con il solo risultato di piombare anch’io nella depressione, se non mi fossi fatta coraggio e non avessi rivolto alcune domande agli isolani.

Vidi il mio giovane marinaio che pescava con la canna dall’imbarcatoio e andai a parlargli.

«Mi puoi dire qualcosa degli immortali?» gli chiesi, dopo i soliti convenevoli.

«Be’, la maggior parte della gente si limita a guardare in terra e a cercarli. Nei boschi», mi rispose.

«No, non i diamanti», replicai, controllando il translatomat. «I diamanti non mi interessano molto.»

«Non interessano più a nessuno», commentò. «Una volta c’era un mucchio di turisti e di cercatori di diamanti. Penso che adesso sia cambiata la moda.»

«Ho letto in un libro che qui ci sono persone che hanno la vita molto, molto lunga… che in effetti non muoiono mai.»

«Sì», rispose, senza turbarsi.

«In città ci sono persone immortali? Ne conosci qualcuna?»

Lui si sporse a controllare il galleggiante. «Be’, no», disse. «Ce n’era uno nuovo, all’epoca di mio nonno, ma è andato nel continente. Era una donna. Credo che ce ne sia uno molto vecchio nel villaggio.» Indicò l’interno dell’isola. «Mia madre l’ha visto, una volta.»

«Se tu potessi, ti piacerebbe vivere un tempo lunghissimo?»

«Certo!» rispose, con tutto l’entusiasmo di cui era capace uno yendi. «Lo sai.»

«Ma non vuoi essere immortale. Porti la garza contro le mosche.»

Lui annuì. Non aveva nulla da obiettare. Pescava con guanti di garza, vedeva il mondo attraverso un retino.

Quella era vita.

Il padrone del negozio di attrezzi da pesca mi disse che si poteva raggiungere a piedi il villaggio in meno di una giornata e mi mostrò la strada.

La mia afflitta padrona di casa mi preparò una colazione al sacco. Partii la mattina dopo e all’inizio fui accompagnata da un sottile, insistente sciame di mosche. Era un percorso monotono, in mezzo a un paesaggio piatto e umido, ma il sole era tiepido e alla fine le mosche se ne andarono. Con stupore, mi trovai nel villaggio ancor prima di sentire fame e aprire il sacchetto della colazione.

Probabilmente, gli abitanti dell’isola camminavano piano e avevano poche occasioni per muoversi. Doveva essere il villaggio giusto, però, perché tutti avevano parlato di un solo villaggio, anch’esso senza nome.

Era piccolo, povero e triste. Sei o sette capanne di legno sul tipo delle isbe russe, un po’ sollevate da terra per tenerle lontano dal fango. Dappertutto correvano dei polli dal piumaggio color marrone chiaro, che si lanciavano richiami rauchi e brevi. Mentre mi avvicinavo, un paio di bambini corse a nascondersi.

E laggiù, appoggiata a una sorta di sedile accanto al pozzo del villaggio, c’era la figura di cui aveva parlato Postwand, esattamente come l’aveva descritta… senza gambe, senza sesso, con la faccia quasi priva di connotati, cieca, con la pelle come pane bruciato e folti capelli bianchi, infeltriti e sudici.

Mi fermai, incapace di parlare.

Una donna uscì dalla capanna dove s’erano rifugiati i bambini. Discese alcuni scalini rachitici e si avvicinò a me. Indicò il mio translatomat e io automaticamente lo sollevai nella sua direzione, perché potesse parlare al microfono.

«Sei venuta a vedere l’immortale?» chiese.

Io annuii.

«Due radio e cinquanta», mi disse.

Io presi il denaro e glielo porsi.

«Vieni di qua», mi ordinò. Era poveramente vestita e non molto pulita, ma aveva un’espressione sincera: una comune donna sui trentacinque anni, con aria decisa e vigore nella voce e nei movimenti.

Mi portò al pozzo e si fermò davanti alla creatura seduta su una sedia di tela, da pescatori, senza le gambe, posta accanto al muricciolo. Io non riuscii a guardare la faccia, e neppure la mano orrendamente ferita. L’altro braccio terminava poco sopra il gomito, e il moncherino era coperto di una crosta nera. Distolsi lo sguardo.

«Vedi davanti a te l’immortale del nostro villaggio», disse la donna, con la cantilena della guida turistica. «È con noi da moltissime centinaia di anni. Da più di mille anni appartiene alla famiglia Roya.

«In questa famiglia è nostro dovere e nostro orgoglio prenderci cura dell’immortale. L’ora dell’alimentazione è alle sei del mattino e alle sei di sera. Mangia latte e semolino d’avena. Ha ottimo appetito e gode di buona salute, senza alcuna malattia. Non ha l’udreba. Ha perso le gambe a causa del terremoto, mille anni fa. È stato anche danneggiato dal fuoco e da altri incidenti, prima di essere affidato alle cure della famiglia Roya.

«La leggenda della mia famiglia dice che l’immortale era un tempo un bel giovanotto che per un periodo pari a molte volte la durata di una vita umana si guadagnò la vita cacciando nella palude. Si pensa che questo risalga a duemila, tremila anni fa. L’immortale non può sentirti e non può vederti, ma è lieto di accettare le tue preghiere per il suo benessere e le offerte per il suo sostentamento, dato che per il cibo e il riparo dipende completamente dalla famiglia Roya. Ti ringrazio molto; accetto di rispondere alle tue domande.»

Dopo qualche momento, osservai: «Non può morire».

Lei scosse la testa.

La sua espressione era impassibile; non priva di emozione, ma chiusa.

«Non porti la garza», dissi, notandolo solo allora. «E neanche i bambini. Non sei…»

Lei scosse di nuovo la testa. «Troppo fastidio», disse in tono tranquillo, non ufficiale. «I bambini se la strappano sempre. In ogni caso, qui non abbiamo molti insetti. E qui ce n’è solo uno.»

Vero. Pareva che le mosche fossero rimaste indietro, in città e nei campi che la circondavano, coperti da uno spesso strato di letame.

«Intendi dire che c’è un solo immortale la volta?»

«Oh, no», rispose lei. «Ce ne sono altri, dappertutto. Nel terreno. A volte la gente li trova. Souvenir. Ma quelli sono molto vecchi. Il nostro è ancora giovane, devi sapere.» Guardò l’immortale, con aria stanca, ma con espressione da proprietaria, come una madre guarda un neonato poco promettente.

«I diamanti?» chiesi. «I diamanti sono gli immortali?»

Lei annuì. «Dopo un tempo davvero molto lungo», rispose. Guardò lontano, in direzione degli acquitrini che circondavano il villaggio, e poi tornò a fissarmi.

«È venuto un uomo dal continente, lo scorso anno; uno scienziato. Ha detto che dovremmo seppellire il nostro immortale. In modo che possa trasformarsi in diamante, sai. Ma ha anche detto che per il cambiamento occorrono migliaia di anni. E per tutto il tempo lui patirebbe la fame e la sete sotto la terra e nessuno si occuperebbe di lui. Non è giusto seppellire viva una persona. È dovere della nostra famiglia prenderci cura di lui. E non verrebbe nessun turista.»

Questa volta fui io ad annuire.

L’etica della situazione andava al di là della mia. Io accettavo la sua scelta.

«Vuoi dargli da mangiare?» mi chiese. Evidentemente, c’era qualcosa in me che le piaceva, perché mi sorrise.

«No», dissi; devo ammettere di essere scoppiata in lacrime.

Si avvicinò a me e mi batté la mano sulla spalla.

«È una cosa molto triste», commentò. Tornò a sorridere. «Ma ai bambini piace dargli da mangiare», continuò. «E i soldi sono utili.»

«Grazie della tua gentilezza», dissi, asciugandomi gli occhi, e le diedi altri cinque radio, che lei fui lieta di accettare. Poi girai sui tacchi e attraversai di nuovo i terreni paludosi, fino alla città, dove attesi altri quattro giorni, finché non arrivò dall’ovest la nave sorella e il simpatico giovanotto mi portò a bordo con la sua barca. Lasciai l’Isola degli Immortali, e poco tempo più tardi lasciai anche il piano di Yendi.

Siamo una forma di vita basata sul carbonio, come dicono gli scienziati, ma non so come un corpo umano possa trasformarsi in diamante, a meno che non intervenga qualche fattore spirituale, forse come effetto di sofferenze veramente interminabili.

Forse «diamante» è solo il nome che gli yendi danno a quei grumi di distruzione, una sorta di eufemismo.

Non sono ancora certa di quello che intendesse la donna del villaggio quando ha detto che ce n’era solo uno. Non si riferiva agli immortali. Spiegava perché non proteggeva se stessa e i bambini dalle mosche e perché le pareva che i rischi fossero trascurabili. Forse voleva dire che tra tutti gli sciami di mosche delle paludi dell’isola c’è solo una mosca, una sola mosca immortale, che con la sua puntura infetta di immortalità le vittime.

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