I REALI DI HEGN

Hegn è un piccolo e accogliente piano benedetto da un clima meraviglioso e una vegetazione così ricca che il pranzo e la cena consistono nell’avvicinarsi a un albero e staccare un succulento e maturo frutto-bistecca al sangue scaldato dal sole, o sedersi sotto un cespuglio di llum e lasciare che i bocconcini dal gusto di burro vi cadano in grembo, se non direttamente in bocca. Poi per dessert ci sono i fiori di sorbice, piccanti, dolci, con una crosta piacevole da sgranocchiare.

Quattro o cinque secoli fa gli hegn erano chiaramente una razza attiva, intraprendente, che costruiva buone strade, belle città, eleganti ville di campagna e nobili palazzi, tutti circondati da giardini deliziosi (soprattutto nel senso alimentare). Poi sono caduti in una fase di calma piatta e attualmente si limitano a sopravvivere nelle loro bellissime case. Hanno alcuni hobby e li perseguono con una sorta di tranquilla ossessione. Alcuni si dedicano alla coltivazione e selezione di varietà di vitigni sempre migliori. (L’uva di Hegn fermenta sul ramo; un suo piccolo grappolo ha il sapore e l’effetto di un bicchiere di Veuve Clicquot. Lasciati sul ramo più a lungo, gli acini raggiungono una gradazione di 40-45 gradi e il sapore finisce per assomigliare a quello del whisky di solo malto.)

Alcuni allevano gorki domestici, graziosi animaletti dalle zampe corte; altri ricamano eleganti paramenti per le chiese; molti si divertono con lo sport. Tutti amano i ricevimenti e la vita di società.

In questi ricevimenti ci si veste con eleganza. Si mangia qualche acino d’uva, si danza un poco, si chiacchiera. La conversazione salta da un argomento all’altro ed è, per usare il termine con cui la definiremmo noi, alquanto insulsa. Verte sulla qualità e quantità dell’uva, un argomento che viene dibattuto con notevole approfondimento tecnico; sul tempo, che di solito è bello-stabile ma può sempre minacciare — o avere minacciato — pioggia; e sugli sport, soprattutto il sutpot, gioco caratteristico di Hegn, che richiede un campo da gioco di un paio di ettari e comporta due squadre, infinite regole, una grossa palla, vari piccoli fori nel terreno, una rete mobile, una mazza corta e piatta, due aste per il salto in alto, quattro arbitri e parecchi giorni di gioco.

Nessuna persona nata fuori di Hegn è mai riuscita a capire il sutpot. Gli abitanti di quel piano discutono l’ultima partita giocata e lo fanno con la stessa gravità, decisione e continua attenzione ai particolari con cui l’hanno giocata.

Altri argomenti di conversazione sono il comportamento dei gorki favoriti e la decorazione della chiesa locale. Di religione e di politica non si discute mai. Può darsi che non esistano neppure e che si siano ridotte a una successione di eventi e ricorrenze puramente formali, mentre il loro posto è riempito dall’elemento centrale, fuoco e fondamento della società di Hegn, che si può definire come il Grado di Consanguineità.

Il piano di Hegn è piccolo e quasi tutti coloro che vi abitano sono imparentati.

Dato che è una monarchia, o meglio una congerie di monarchie, quasi tutti sono un monarca o discendono da uno di essi. Ogni persona è un membro della Famiglia Reale.

Nei tempi antichi, questa universalità dell’aristocrazia ha portato a guai e dissensi. Pretendenti al trono rivali cercavano di eliminarsi tra loro: ci fu un lungo periodo di violenza chiamato la Purificazione dell’Almanacco, un conflitto chiamato la Guerra degli Agnati, e la breve e sanguinosa Rivolta dei Cugini Cadetti. Ma tutti questi litigi tra famigliari cessarono quando le genealogie di ogni individuo e di ogni dinastia vennero riconosciute e registrate nella grande opera del regno di Eduber XII di Sparg, il Libro del Sangue.

Giunto ora al 4880 anno, questo libro è, e lo dico senza timore di esagerare, l’elemento centrale di ogni casa di Hegn. Quasi tutti conoscono a memoria le parti che riguardano la propria famiglia. La pubblicazione dell’annuale Aggiunte e supplementi al Libro del Sangue è attesa come il principale evento dell’anno. Per mesi fornisce il piatto forte di tutte le conversazioni; la gente discute della dolorosa estinzione della Casa di Levigia con la morte del vecchio principe Levigvig; l’eccitante possibilità che gli Swad abbiano un erede, grazie al supremamente opportuno matrimonio tra Endol IV e la duchessa di Mabuber; l’inattesa successione del visconte Lagn alla corona di Est Fob, a causa dell’imprevista morte del nonno, dello zio e del cugino, tutti scomparsi nello stesso anno; o la re-legittimazione (per decreto del Consiglio degli Elettori Reali) del pronipote del Bastardo di Egmorg.

Su Hegn ci sono 817 re. Ciascuno ha titoli su certe terre o certi palazzi, o almeno parti di palazzi; ma la proprietà di una regione o il suo dominio non è quel che fa re. L’importante è avere la corona e portarla in determinate occasioni (come l’incoronazione di un altro re), avere la propria dinastia registrata in modo indiscutibile nel Libro del Sangue, e tracciare il solco di inaugurazione alla prima partita del campionato regionale di sutpot, presenziare all’annuale Benedizione del Pesce e sapere che la propria moglie è la regina, il primogenito, il principe della corona e il fratello è il principe reale e la sorella la principessa reale e i parenti e i loro figli sono di sangue reale.

Per la sopravvivenza di un’aristocrazia è necessario che persone di rango elevato formino legami di amicizia soltanto con altre del loro genere.

Fortunatamente su Hegn ce ne sono in abbondanza.

Un po’ come sul mio piano la genealogia di un purosangue può essere fatta risalire nel tempo fino a Godolphin Arabian, ogni famiglia reale di Hegn può seguire all’indietro nel tempo la propria linea di discendenza fino a Rugland di Hegn-Glander, che ha regnato otto secoli fa. Ai cavalli non interessa la propria genealogia, ma i loro proprietari badano a essa, e così i re e le famiglie reali. In questo senso, Hegn può essere visto come un grosso allevamento di stalloni.

Anche se non viene mai ammesso apertamente, c’è la convinzione che alcune case reali siano leggermente, per così dire, più reali di altre, perché discendono direttamente dal primogenito di Rugland e non da uno degli altri otto figli. In realtà tutte le altre famiglie reali hanno contratto così tante volte matrimonio con membri della dinastia centrale da costituire un legame incrollabile. Inoltre, ogni casa rivendica una propria unica, incomparabile prerogativa, come derivare da Alfign dell’Ascia, il semileggendario conquistatore dell’Hegn Settentrionale, o avere un santo tra i parenti, o un albero genealogico mai macchiato da un matrimonio con semplici duchi o duchesse e che mostra (sulla relativa pagina sempre aperta del Libro nel Sangue conservato nella biblioteca di palazzo), una continua, inadulterata fioritura di principi e principesse dal sangue veramente blu.

E così, quando la novità dell’annuale Aggiunte e supplementi finalmente si spegne, gli ospiti reali dei ricevimenti reali possono sempre riprendere a discutere i gradi di consanguineità, nel tentativo di risolvere certi problemi come: «Il figlio nato dal secondo matrimonio di Agnin IV con Tivand di Shut è davvero il principe ucciso all’età di tredici anni difendendo il palazzo del padre contro gli Anti-Agnati e quindi poteva, o non poteva, essere il padre del duca di Vigrign, successivamente re di Shut?»

Non sono problemi che appassionano tutti; il tranquillo fanatismo con cui gli abitanti di Hegn vi si dedicano, annoia o offende molti visitatori del loro piano.

Il fatto che gli Hegn non abbiano assolutamente il minimo interesse per qualunque altro popolo che non sia il loro, è un ulteriore ragione di fastidio e persino rabbia. «Sono dei forestieri», questo è tutto ciò che gli Hegn sanno su di loro e non gli interessa sapere altro. Sono troppo educati per dire: «un vero peccato che debbano esistere questi forestieri», ma se si soffermassero a riflettere sull’argomento, lo penserebbero.

In ogni caso, non hanno bisogno di preoccuparsi dei forestieri. C’è qualcun altro che se ne occupa. L’Hotel Interplanario su Hegn si trova a Hemgogn, un bellissimo, piccolo regno sulla costa occidentale. L’Agenzia Interplanaria gestisce l’hotel e assume guide locali. Le guide, che sono prevalentemente duchi e conti, accompagnano i visitatori a vedere il Cambio della Guardia sulle Mura, eseguito a mezzogiorno e alle sei del pomeriggio da principi del sangue che indossano il magnifico abbigliamento tradizionale. L’Agenzia offre anche visite a un paio di regni adiacenti.

L’autobus corre senza scosse lungo l’antica e indistruttibile strada, in mezzo a frutteti illuminati dal sole e foreste di cibi selvatici. I turisti scendono dall’autobus e visitano le rovine, oppure entrano nelle parti del palazzo aperte ai visitatori. I residenti del palazzo sono distanti, ma infallibilmente civili e cortesi, come si addice alla regalità.

A volte la regina scende e sorride ai turisti senza veramente posare l’occhio su di loro, e informa la graziosa, piccola principessa della Corona che può invitarli a raccogliere e consumare quanto desiderano nel frutteto del palazzo. Poi lei e la principessa si ritirano nei loro appartamenti privati, i turisti pranzano e infine ritornano all’autobus. Fine.

Essendo un po’ introversa, trovo Hegn di mio gradimento. Non si è tenuti ad avere rapporti con i suoi abitanti, visto che la cosa risulterebbe impossibile. Il cibo è buono, il clima gradevole. Mi sono recata laggiù varie volte e mi sono fermata più del normale turista, ed è così che sono venuta a sapere dei suoi Cittadini Comuni.

Percorrevo la via principale di Legners Royal, capitale di Hemgogn, quando vidi una vera folla nella piazza davanti alla vecchia chiesa dei Tre Reali Martiri.

Pensando che fosse una delle ricorrenti feste o funzioni, mi unii alla folla per guardare. Quegli avvenimenti sono abitualmente lenti, pieni di decoro e profondamente noiosi. Ma sono i soli avvenimenti di quel piano e posseggono una sorta di fascino della noia che è tutto loro.

Presto però mi accorsi che era un funerale e che era assai diverso da ogni altra cerimonia degli hegn a cui avessi assistito, soprattutto per il comportamento dei partecipanti.

Erano tutti di sangue reale, naturalmente, come qualsiasi folla di Hegn, dove tutti sono principi, duchi, conti, principesse, duchesse, contesse ecc., ma non si comportavano con il riserbo dei reali, l’aplomb sovrano, l’apatia maestosa che avevo sempre visto in loro, fino a quel momento.

Erano fermi nella piazza e una volta tanto non erano occupati in qualcuno dei loro doveri rituali o occupazioni tradizionali o hobby, ma si limitavano ad affollarsi insieme, come per trarre conforto l’uno dall’altro. Erano turbati, angustiati, disorganizzati e stavano quasi per diventare lamentosi.

Tradivano un’emozione. Erano addolorati, e lo erano apertamente.

La persona più vicina a me nella folla, era la duchessa vedova di Mogn e Farstis, zia acquisita della regina. Conoscevo la sua identità perché l’avevo vista tutte le mattine, alle otto e mezza, uscire dal palazzo reale per portare a passeggio nei giardini reali, che confinano con l’hotel, il gorki preferito del re.

Una delle guide dell’Agenzia mi aveva rivelato chi fosse. Io l’avevo osservata dalla finestra della sala da pranzo dell’hotel, mentre il gorki, un bell’esemplare fortemente testicoluto, si liberava sotto i cespugli di fiori-formaggio e la duchessa vedova distoglieva lo sguardo, con la tranquilla espressione di vuoto assoluto che assumono solo gli occhi dei veri aristocratici.

Ma adesso quegli occhi chiari erano pieni di lacrime e la faccia della duchessa, cascante e coperta di rughe, tremava nello sforzo di contenere i sentimenti.

«Vostra signoria», le dissi, augurandomi che il translatomat fornisse il giusto appellativo per una duchessa, nel caso mi fossi sbagliata. «Mi perdoni, sono di un altro paese, di chi è il funerale?»

Lei si voltò verso di me, senza guardarmi, leggermente sorpresa, ma troppo assorta nel suo dolore per meravigliarsi della mia ignoranza o della mia temerarietà.

«Sissie», rispose, e le bastò pronunciare il nome per piombare in un singhiozzo disperato. Si voltò dall’altra parte, nascose la faccia nell’ampio fazzoletto di pizzo; non osai chiedere altro.

La folla cresceva rapidamente, in modo costante. Quando il feretro usci dalla chiesa, portato a spalle, doveva essere presente almeno un migliaio di persone: la maggioranza della popolazione di Legners, tutti membri della famiglia reale affollati nella piazza. Il re, i due figli e il fratello seguivano la bara a rispettosa distanza.

La cassa era trasportata e circondata da persone che non avevo mai visto in precedenza, un gruppo molto strano: uomini pallidi, grassi, con vestiti da poco prezzo, bambini foruncolosi, donne di mezza età con i capelli cotonati e i tacchi a spillo, e una giovane donna molto appariscente con le cosce grosse. Portava la minigonna, una maglietta corta che le lasciava scoperto l’ombelico e uno scialle nero, di pizzo di cotone. Seguiva il feretro barcollando e piangeva forte, in modo quasi isterico; da un lato era sostenuta da un uomo dall’aria spaventata con i baffetti a lapis e le scarpe a due colori, dall’altro da una donna rinsecchita, stanca e dall’aria caparbia, di una settantina d’anni, con un abito liso, che la copriva fino ai piedi.

Ai margini della folla scorsi una guida locale con cui avevo stretto una leggera amicizia, un giovane visconte, figlio del duca di Ist, e mi feci strada fino a lui. Mi occorse parecchio tempo, perché tutti seguivano lentamente la processione dei portatori e del loro gruppo, in direzione delle auto reali e delle carrozze a cavalli che attendevano nei pressi della cancellata del palazzo. Quando finalmente arrivai accanto alla guida, gli chiesi: «Chi è morto? Chi sono quelle persone?»

«Sissie», mi rispose con un gemito, preso anch’egli dal dolore generale. «Sissie è morta la scorsa notte!» Poi, ritornando ai suoi doveri di guida e interprete e cercando di recuperare le sue affabili maniere aristocratiche, mi guardò, batté gli occhi per liberarli dalle lacrime e disse: «Sono i nostri Comuni».

«E Sissie…?»

«È… era la loro figlia. Figlia unica.» Per quanto si sforzasse di vincere la commozione, le lacrime tornarono a luccicargli negli occhi. «Era una così cara ragazza. E un grande aiuto per la madre; sempre. Un sorriso così dolce. E non c’è nessuna come lei, nessuna. Era la sola. Oh, com’era piena d’amore. La nostra povera, piccola Sissie!» A quel punto non riuscì più a frenarsi e scoppiò in pianto.

In quel momento passavano davanti a noi il re e i suoi figli. Vidi che tutt’e due i ragazzi piangevano e che la faccia di pietra del re tradiva un sovrumano sforzo per mantenere la calma. Il fratello del re, un individuo leggermente ritardato, pareva essere in uno stato di stupore, si teneva stretto al suo braccio e camminava accanto a lui come un automa.

La folla si riversò dietro la processione funebre. La gente spingeva per farsi avanti, per toccare l’orlo del drappo funebre, di seta bianca, che copriva la bara.

«Sissie! Sissie!» gridavano alcuni. «Oh, mamma, anche noi le volevamo bene!» piangevano. «Babbo! Babbo, come faremo senza di lei? Adesso ha raggiunto gli angeli», gemevano. «Non piangere, mamma, vogliamo bene anche a te! Te ne vorremo sempre! Oh, Sissie! Sissie! La nostra dolce bambina!»

Rallentati e quasi bloccati dalle lamentele appassionate dell’immensa famiglia reale che li circondava, il feretro e i suoi portatori raggiunsero le auto e le carrozze.

Quando la bara scivolò nel retro del lungo carro funebre bianco, un gemito tremolante, inumano si levò da ogni gola. Le nobildonne gridavano con voce sottile, acuta, e i nobili svenivano per la commozione. La ragazza in minigonna cadde in quella che sembrava una crisi epilettica e le venne la schiuma alla bocca, ma uno degli uomini grassi e pallidi la infilò in un’auto.

I motori si avviarono con un basso ronronnio, i cocchieri misero al passo i loro bei cavalli bianchi, e il corteo si avviò, lentamente, a passo d’uomo. La folla si riversò al seguito.

Io feci ritorno in albergo. Quella sera venni a sapere che gran parte della popolazione di Legners Royal aveva seguito il corteo per tutto il tragitto di sei miglia, fino al cimitero e aveva preso parte alla cerimonia funebre e all’inumazione. Per tutta la sera, e ancora fino a tardi nella notte, c’era gente per strada che faceva ritorno al palazzo e agli appartamenti reali, stanca, con i piedi doloranti e il viso segnato dalle lacrime.

Nei giorni successivi parlai con il giovane visconte, che riuscì a spiegarmi il fenomeno a cui avevo assistito. Avevo dato per inteso che tutta la popolazione del Regno di Hemgogn fosse di sangue reale, direttamente imparentata con il suo (e con altri) re; non sapevo che c’era una famiglia non reale. Erano comuni cittadini. Si chiamavano Gat.

Quel cognome, come quello da ragazza della signora Gat — Tugg — non avevano alcuna menzione nel Libro del Sangue. Nessun Gat o Tugg aveva mai sposato qualcuno di famiglia reale, o anche solo nobiliare. Non c’era nessuna leggenda di famiglia su un principe giovane e bello che aveva sedotto la bionda figlia del fabbricante di stivali. La famiglia non aveva neppure una storia, tanto meno una (leggenda.

I Gat non sapevano da dove venissero o da quanto tempo vivessero nel regno. Di mestiere facevano stivali. Nel soleggiato Hegn, ben poche persone calzano gli stivali.

Come aveva fatto suo padre, e come imparava a fare suo figlio, il signor Gat cuciva stivali di pelle, da parata, per i principi della guardia, orribili stivali di feltro per la regina madre, che amava camminare nel prato dei pasticcini, con i suoi gorki, nel corso dell’inverno.

Lo zio Agby sapeva conciare il cuoio, la zia Irs preparava il feltro dalla lana. La prozia Yoly allevava le pecore, il cugino Fafvig, invece, mangiava troppa uva ed era ubriaco per gran parte del tempo. La figlia più vecchia, Chickie, era un po’ disordinata, ma in fondo era una brava ragazza.

E Sissie, la dolce Sissie, la figlia più giovane, era la beniamina di tutto il regno, il Fiore Selvatico di Hemgogn, la Piccola Ragazza Comune.

Era sempre stata di salute cagionevole. Si diceva che si fosse innamorata del giovane principe Frodig, anche se lui, naturalmente, non avrebbe mai potuto sposarla. Si diceva che li avessero visti parlare, una o più volte, nei pressi del ponte levatoio, al crepuscolo.

Il mio visconte, chiaramente, avrebbe voluto crederlo, ma non poteva nascondere i dubbi, dato che il principe Frodig era lontano dal regno, a studiare ad Halfvig, da tre anni. In ogni caso, Sissie era debole di petto. «Spesso è così, per i Comuni», spiegò il visconte. «È ereditario. Si trasmette alle donne.» Aveva cominciato a perdere la salute, era dimagrita e divenuta pallida, ma non s’era mai lamentata, aveva sempre continuato a sorridere, era così magra e silenziosa, si era limitata a svanire di giorno in giorno, e adesso giaceva nella fredda, fredda terra, la Dolce Sissie, il Fiore Selvatico di Hemgogn.

E l’intero regno l’aveva pianta. L’avevano pianta in modo irrazionale, esagerato, inconsolabile, regale. Il re aveva pianto sulla sua tomba aperta. Un attimo prima che cominciassero a riempire la fossa, la regina aveva posato sulla bara di Sissie la spilla di diamanti che era passata in eredità, di madre in figlia, per diciassette generazioni a partire da Erbinrasa del Nord, un gioiello che non era mai stato toccato da mano che non appartenesse al sangue degli Erbinnas.

Adesso giaceva nella tomba della Piccola Ragazza Comune. «Non erano brillanti come i suoi occhi» aveva detto la regina.

Io dovetti lasciare Hegn non molto tempo dopo quel funerale. Altri viaggi occuparono la mia attenzione per tre o quattro anni, e quando feci ritorno al regno di Hemgogn, l’orgia di lutto era finita da tempo.

Cercai il mio visconte. Aveva smesso di giocare a fare la guida quando era venuto in possesso della sua eredità: il titolo di duca di Ist e un appartamento nella Nuova Ala del palazzo reale, con l’usufrutto di una delle vigne reali, che forniva uva per i suoi ricevimenti.

Era un simpatico giovanotto, con un debole filo di originalità che l’aveva portato a seguire la vocazione di guida; in realtà era ben disposto verso i forestieri. Aveva anche una sorta di incapacità di opporsi, dovuta alla sua buona educazione, e io ne approfittai. Non sapeva dire no a una richiesta diretta e così, dato che glielo avevo chiesto, mi invitò a vari ricevimenti nel corso del mese da me trascorso a Hemgogn.

Fu allora che scoprii l’altro argomento di conversazione di Hegn: l’argomento capace di far dimenticare sport, gorki, clima e persino i rapporti di consanguineità.

I Tugg e i Gat, che ammontavano a diciannove o venti, all’epoca, erano l’interesse inesauribile, il più avvincente, per la nobiltà di Hemgogn. I bambini riempivano delle loro immagini i libri di disegni. La madre del visconte aveva un boccale e un piatto — i suoi preferiti — con i ritratti di «mamma» e «babbo» Gat nel giorno del loro matrimonio, circondati da ghirigori in oro zecchino.

Le descrizioni delle vicende della Famiglia Comune, stampate in modo alquanto dilettantesco, al ciclostile, e le foto scattate dai nobili di Hemgogn erano estremamente popolari, non solo nel paese, ma anche nei vicini regni di Drohe e Vigmard, nessuno dei quali aveva una propria famiglia di Comuni. Il regno immediatamente a sud, Odboy, che era molto più grande, aveva tre famiglie di Comuni e persino un autentico, vivente barbone, chiamato il Vecchio Fannullone di Odboy. Eppure, anche laggiù, i pettegolezzi sui Gat, su quanto fossero corte le minigonne di Chickie, quanto fossero lunghe le bolliture a cui madre Tugg sottoponeva la biancheria, se quello di zio Agby era un tumore o solo una pustola, se la zia e lo zio Bod sarebbero andati al mare in estate per una settimana o se in autunno contavano di fare un’escursione sui monti del Vigmard… a Odboy se ne discuteva con la stessa ansia con cui se ne parlava nei vicini regni senza Comuni, o nello stesso Hemgogn.

E un ritratto di Sissie con una coroncina di fiori di campo, ricavata da una fotografia che si diceva scattata dal principe Frodig (anche se Chickie ripeteva di averla scattata lei) ornava le pareti di mille stanze, in una dozzina di palazzi.

Ho conosciuto però alcuni reali che non condividevano l’adorazione generale.

Il vecchio principe Foford mi aveva preso piuttosto in simpatia, anche se ero forestiera. Primo cugino del re e zio del mio amico il duca, si vantava del suo anticonformismo e del suo modo di pensare contestatario.

«Il ribelle della famiglia, mi chiamano», diceva con la sua voce roca, mentre gli occhi gli brillavano fra le rughe.

Allevava flennis, non gorki, e giudicava insopportabili i Comuni, persino Sissie. «Una debole», brontolò. «Nessuna resistenza. Nessuna educazione. Andava a mettersi in mostra sotto le mura, sperando che il principe la vedesse. Ha preso freddo e ne è morta. Tutte famiglie malaticce. Malati, ignoranti, mendichi. Case piene di sporcizia. Mettersi in mostra, non sanno fare altro. Sudiciume, grida, casseruole che volano, occhi neri, parolacce… tutta scena. Tutto un imbroglio. Sotto quelle cataste di legna ci sono passati anche un paio di duchi, una o due generazioni fa. Lo so per certo.»

E in verità, a mano a mano che prendevo nota dei pettegolezzi, dei bollettini, delle fotografie, dei Comuni stessi, mentre camminavano per le strade di Legners Royal, il loro aspetto da «classe inferiore» mi sembrava un po’ insistito, persino voluto, o magari il termine adatto è «professionale».

Dubito che Chickie avesse intenzionalmente architettato di farsi ingravidare dallo zio, ma quando accadde, certamente sfruttò l’accaduto.

A ogni principe o principessa con taccuino d’appunti alla mano, raccontò instancabilmente la deprecabile storia di come zio Tugg avesse continuato a riempirle la bocca di acini ormai più che maturi, finché non l’aveva vista talmente ubriaca da vomitare e poi le aveva strappato via i vestiti e l’aveva scopata.

La storia era sempre più lunga a ogni successiva narrazione, diveniva sempre più surriscaldata ed esplicita.

Fu il tredicenne principe Hodo a riportare le vivide parole di Chickie sul peso brutale del corpo peloso di zio Tugg e su come, mentre lei cercava di opporsi, il suo stesso corpo l’aveva tradita, perché i capezzoli si erano induriti e le cosce si erano aperte mentre lui premeva il suo, e qui il principe aveva messo quattro asterischi, nella sua quattro asterischi.

A una delle più giovani duchesse, Chickie confidò di avere cercato di liberarsi del bambino, ma i bagni caldi erano solo una stronzata, le erbe della nonna erano una cacata e coi ferri da calza ti puoi anche ammazzare.

Intanto lo zio Tugg andava in giro a vantarsi che la famiglia l’aveva sempre chiamato Scopatutte, e alla fine suo cognato, padre putativo di Chickie (c’erano molti dubbi sull’origine di Chickie e c’era la possibilità che lo stesso zio Tugg fosse il padre) lo aspettò dietro l’angolo, lo assalì alle spalle e lo colpì con un tubo di piombo fino a fargli perdere i sensi. L’intero regno rabbrividì voluttuosamente nell’apprendere che lo zio Tugg era stato scoperto in un laghetto di sangue e di orina, all’esterno della casa, accanto alla porta della latrina di famiglia.

Infatti né i Gat, né i Tugg avevano impianti sanitari o l’acqua corrente e neppure l’elettricità. La precedente regina, in un malinteso accesso di compassione o di noblesse oblige, aveva fatto collegare alla rete elettrica la casa più grande dell’antico, sudicio ammasso di catapecchie e baracche chiamato i Comuni. In quel comprensorio, monelli con la goccia al naso giocavano dentro automobili sventrate ed enormi cani tendevano la corta catena in interminabili frenesie di latrati, cercando di aggredire le pecore rognose della prozia Yoly che capitavano laggiù, passando in mezzo alle puzzolenti vasche della conceria dello zio Agby.

I ragazzi, fin dal primo giorno, avevano spaccato tutte le lampade, usando dei sassi scagliati con la fionda. Nonna Gat non volle mai usare il forno elettrico, preferì sempre cuocere i frutti del pane nella cavernosa stufa a legna. Topi e ratti mangiarono l’isolante e provocarono un corto circuito. Il principale risultato dell’elettrificazione dei Comuni fu un persistente puzzo di topo bruciato.

Abitualmente, i Comuni evitano i forestieri, con studiata disattenzione e sguardo vacuo, non diversamente dai nobili. Di tanto in tanto, però, il loro fanatismo patriottico rompe gli argini e li spinge a scagliare spazzatura contro i turisti. Quando viene informato di questo, il palazzo rilascia sempre una breve dichiarazione in cui esprime shock e costernazione per il fatto che alcuni uomini di Hegn dimentichino a tal punto le tradizioni di ospitalità caratteristiche del regno. Ma ai ricevimenti reali s’ode sempre qualche risatina accompagnata da mormorii come: «Hanno dato a quei barboni il fatto loro, no?» Infatti, dopotutto, i turisti sono comuni cittadini, ma non sono i loro comuni cittadini.

I loro Comuni hanno però preso dai forestieri un vizio. Tutti fumano sigarette americane dall’età di sei o sette anni e hanno le dita gialle, l’alito pesante e un’orribile tosse catarrosa.

Il cugino Cadge, uno degli uomini pallidi e grassi che avevo visto al funerale, gestisce un fruttuoso contrabbando di sigarette, tramite il figlio nano, Stumpy, che è addetto alla pulizia delle toilette all’Hotel Interplanario. Anche i giovani nobili spesso comprano sigarette da Cadge e le fumano in segreto, ansiosi di provare la nausea, l’irregolarità e cosa si prova a essere, per alcuni minuti, veramente volgare e una vera feccia.

Lasciai il piano prima che nascesse il figlio di Chickie, mentre l’attenzione reale era già centrata sul prossimo evento e intensificata dai frequenti annunci pubblici di Chickie che il piccolo bastardo sarebbe stato certamente un idiota con un filo di bava alla bocca, nato senza le gambe, senza le braccia o senza il quattro asterischi.

«Che altro potete aspettarvi?» E le famiglie reali di quattro regni non desideravano altro. Affascinate, senza parole, attendevamo con ansia un disastro genetico, un piccolo, mostruoso plebeo che avrebbe permesso loro di scuotere la testa, sospirare e rabbrividire.

Sono certa che Chickie avrà fatto il suo dovere e li avrà accontentati.

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