CAPITOLO DICIASSETTESIMO

A bordo del Fevre Dream
NEW ORLEANS
Agosto 1857

Sembrava che la metà dei battelli di New Orleans avesse deciso di salpare quel pomeriggio. Questo pensò Abner Marsh mentre se ne stava sul ponte di coperta e li osservava partire.

Era abitudine per i battelli che navigavano lungo il fiume di partire dall’argine verso le cinque. Alle tre gli macchinisti avrebbero acceso le fornaci e cominciato a far salire la pressione del vapore. Resina ed aghi di pino avrebbero cominciato a scoppiettare nelle fauci infuocate dei battelli, insieme al legno e al carbone, e da un battello all’altro il fumo avrebbe cominciato a sollevarsi, ascendendo in cielo dalle altezzose ciminiere infiorate sotto forma di alte colonne, neri stendardi d’addio. Quattro miglia di battelli stipati lungo l’argine possono generare una gran quantità di fumo. Le colonne fuligginose avrebbero cominciato a mischiarsi per formare un’unica massiccia nuvola nera, ad una sessantina di metri al di sopra del fiume; una nuvola piena di cenere, ricolma di caldi tizzoni luminescenti, alla deriva nel vento. E più i battelli avrebbero alimentato il fuoco e sprigionato fumo, e più grande, sempre più grande sarebbe divenuta la nuvola, fino a che la coltre avrebbe oscurato il sole cominciando a oscurare il profilo della città. Dalla postazione favorevole sul ponte di coperta dove si trovava Abner Marsh, sembrava che l’intera città di New Orleans stesse bruciando, e che tutti i battelli stessero per fuggire precipitosamente. Questo lo inquietò, come se, in qualche modo, gli altri capitani fossero a conoscenza di qualcosa che lui ignorava, come se anche il Fevre Dream dovesse lanciare i suoi motori a tutto vapore per allontanarsi in fretta dall’approdo. Marsh era ansioso di partire. Nonostante la ricchezza e il fascino di New Orleans, anelava ritornare ai fiume che conosceva: il corso superiore del Mississippi con i suoi massi affioranti e i tronchi di legno. Il fangoso e selvaggio Missouri che divorava i battelli come se niente fosse. Lo stretto Illinois e il melmoso e tumultuoso Fevre. Il viaggio inaugurale del Fevre Dream lungo l’Ohio, in quel momento gli sembrò quasi idilliaco, un ricordo di giorni più tranquilli, migliori. E non erano passati neppure due mesi. Sembrava un’eternità. Da quando aveva lasciato St. Louis e aveva cominciato a discendere il fiume, le cose erano andate di male in peggio e più procedeva verso sud più la situazione peggiorava. «Joshua ha ragione,» mormorò tra sé Marsh mentre guardava New Orleans. «C’è qualcosa di marcio qui.» Faceva dannatamente caldo, era dannatamente umido, c’erano troppi dannati insetti, ed il tutto bastava per far credere che una maledizione incombesse sul fiume. E forse c’era davvero: era la schiavitù, anche se Marsh non ne era sicuro. Quello di cui era sicuro era che avrebbe voluto ordinare a Whitey di accendere le caldaie e spedire Framm o Albright in cabina di pilotaggio, così da far allontanare il Fevre Dream dal pontile d’attracco e da fargli prendere il largo, risalendo il fiume. Subito. Prima del tramonto. Prima che loro arrivassero. Abner Marsh aveva una tale voglia di urlare quegli ordini che riuscì quasi a sentire sulla lingua il sapore delle parole, amare e non pronunciate. Provò una specie di superstizioso timore circa quella sera, anche se continuava a ripetersi che non era superstizioso. Eppure, non era affatto cieco — il cielo era caldo e soffocante, sulla loro sinistra si stava formando un temporale, un enorme, straordinario temporale che Dan Albright aveva fiutato alcuni giorni prima. E i battelli stavano partendo, uno dopo l’altro, a dozzine, e mentre Marsh li vedeva allontanarsi e svanire nelle onde luccicanti di calura, si sentì sempre più solo, come se ogni battello che scompariva in lontananza portasse via una piccola parte di lui, un pezzo di coraggio, un grosso pezzo della sua sicurezza, un sogno, o una piccola fuligginosa speranza. Tanti battelli lasciano New Orleans ogni giorno, pensò tra sé Marsh, e oggi non è diverso, è solo un giorno come tutti gli altri giorni d’agosto sul fiume: caldo, fumoso e pigro, ognuno si muoveva lentamente, in attesa, forse, di un alito di aria fresca o di un po’ di pioggia fresca e pura che avrebbe lavato via tutto il fumo che riempiva il cielo.

Ma un’altra parte di sé, la parte più profonda e saggia, sapeva che quello che stavano aspettando non era né il fresco né un cielo terso, e che non ci sarebbe stato nessun sollievo alla calura, all’umidità, agli insetti, alla paura.

Dabbasso, Mike il Peloso ruggiva imprecazioni contro i suoi scaricatori e faceva gesti minacciosi con la nera mazza di ferro tra le mani, ma i rumori della partenza e delle campane e dei fischi degli altri battelli soffocavano le sue parole. Una montagna di merci aspettava sull’argine, quasi un migliaio di tonnellate, la massima capacità del Fevre Dream. A stento un quarto del carico era stato trasportato attraverso la stretta passerella che portava al ponte di coperta. Ci sarebbero volute ore per caricare il resto. Anche se Marsh lo avesse voluto, non avrebbe potuto mandarli via, non con tutto quel carico che attendeva sul molo. Mike il Peloso, Jeffers e il resto avrebbero pensato che era diventato pazzo.

Desiderò di essere capace di dirglielo, come sarebbe stata sua intenzione, e di preparare con loro dei piani d’azione. Ma non c’era tempo. Tutto aveva cominciato a procedere a velocità sin troppo spedita, e quella sera, dopo il tramonto, questo Damon Julian sarebbe venuto a bordo del Fevre Dream per la cena. Non c’era tempo per parlare con Mike il Peloso o Jonathan Jeffers, non c’era tempo per spiegare o persuadere oppure affrontare i dubbi e le domande che avrebbero sicuramente avuto. Così quella sera Abner Marsh sarebbe stato da solo, o quasi solo, soltanto lui e Joshua in una stanza piena di loro, il Popolo della Notte. Marsh non includeva Joshua York con gli altri. In un certo qual modo egli era diverso. E Joshua aveva detto che ogni cosa sarebbe andata per il meglio, Joshua aveva il suo elisir, Joshua era pieno di belle parole e di sogni. Ma Abner Mash aveva i suoi timori.

Il Fevre Dream era tranquillo, quasi deserto. Joshua aveva mandato a terra quasi tutti; quella sera, la cena si sarebbe svolta il più possibile in privato. Ad Abner Marsh quella situazione non piaceva di sicuro, ma non c’era modo di discutere con Joshua quando questi si era messo un’idea in testa. Nel salone la tavola era già stata apparecchiata. Le luci non erano ancora state accese, e il fumo, il vapore e il temporale che stava per scatenarsi all’esterno del battello avevano tutti insieme cospirato per rendere fioca, tetra e stanca la luce che penetrava attraverso gli osteriggi. Marsh aveva l’impressione che il crepuscolo avesse già invaso il salone ed il battello. I tappeti sembravano quasi neri, gli specchi erano pieni di ombre. Dietro lo scuro, lungo bancone di marmo del bar un uomo stava lavando dei bicchieri, ma perfino lui era indistinto, sbiadito. Marsh, nondimeno, gli rivolse un cenno col capo, e si diresse in cucina, situata a poppa della timoniera. Dietro la porta della cucina, scoprì che si stava svolgendo una febbrile attività; due degli sguatteri di Toby stavano rimescolando in grandi pentole di rame o stavano friggendo del pollo in padella, mentre i camerieri oziavano, scherzando tra loro. Marsh sentì l’odore dei dolci che cuocevano negli enormi forni. Gli fece venire l’acquolina alla bocca, ma proseguì, deciso ad ignorarlo. Trovò Toby nella cambusa di tribordo, circondato da file di gabbie piene di polli e piccioni e qualche tordo e anatra. I volatili stavano facendo un baccano terribile. Toby alzò lo sguardo quando Marsh entrò. Il cuoco stava uccidendo dei polli. Tre di essi, senza testa, erano ammucchiati accanto al suo gomito, ed un quarto, che si dibatteva spasmodicamente, era sul ceppo di fronte a lui. Toby impugnava la mannaia. «Salve, Capitano Marsh,» disse sorridendo. Vibrò la mannaia con decisione, con un colpo secco. Sprizzò del sangue, e quando Toby lo lasciò andare, il pollo senza testa si dibatté freneticamente. Le mani di Toby, scure e forti, erano inzuppate di sangue. Se le asciugò sul grembiale. «Cosa posso fare per voi?».

«Voglio solo dirti che stasera, quando la cena sarà terminata, ti voglio giù dalla nave. Servici bene e a puntino, e poi via. E porta con te gli sguatteri e i camerieri. Hai capito? Hai inteso bene quel che ti ho detto?»

«Certo, certo Capitano,» rispose Toby con un largo sorriso. «Sicuro. Terrete una bella festicciola, vero?»

«Non ti preoccupare di questo, assicurati soltanto che vi troviate tutti a terra quando avete terminato il lavoro.» Si voltò per andarsene, con espressione dura. Ma qualcosa lo costrinse a voltarsi di nuovo. «Toby?»

«Sì?»

«Sai che non sono mai stato molto d’accordo sulla schiavitù, anche se non ho fatto granché per combatterla. Avrei voluto, ma quei dannati abolizionisti erano dei tali bigotti. Ma ci ho pensato su, e credo che, dopo tutto, forse avevano ragione. Non si può semplicemente continuare… a servirsi di esseri umani il cui colore della pelle è diverso, come se non fossero delle persone. Capisci cosa voglio dire? Ciò dovrà finire, presto o tardi. Meglio se finirà pacificamente, ma finirà, anche se ci sarà bisogno di un bagno di sangue. Forse è questo quel che gli abolizionisti hanno sempre sostenuto. Cercate di essere ragionevoli, è la sola cosa giusta, ma se non funziona, dovete essere pronti. Alcune cose sono semplicemente ingiuste. E devono cessare.»

Toby lo stava osservando in maniera strana, con espressione assente, anche se continuava a sfregare le mani sul grembiale per asciugarle, avanti e indietro, avanti e indietro. «Capitano,» disse con voce sommessa, «State parlando di abolizionismo. Questo è uno stato schiavista, Capitano. Potreste essere ucciso, se parlate così.»

«Forse, Toby, ma quel che è giusto è giusto, ecco cosa ti dico.»

«Avete fatto del bene al vecchio Toby, Capitano Marsh, dandomi la libertà e permettendomi di cucinare per voi. Questo avete fatto.»

Abner Marsh assentì. «Toby, vai a prendermi un coltello in cucina. Non dirlo a nessuno, capito? Ma prendimi un buon coltello affilato. E che sia tale da poterlo infilare facilmente nel mio stivale. Puoi procurarmene uno adatto alla bisogna?»

«Sì, Capitano Marsh.» Gli occhi di Toby si strinsero leggermente sul suo viso nero e rugoso. «Sissignore.» Poi corse via per obbedire all’ordine.

Abner Marsh camminò con andatura un po’ bizzarra, durante le ore successive, poiché aveva un lungo coltello da cucina ben nascosto in uno dei suoi alti stivali di cuoio. Quando calò la notte, tuttavia, aveva quasi dimenticato di averlo con sé, tanto si era abituato alla sua presenza.

Il temporale giunse poco prima del tramonto. Per allora, la maggior parte dei battelli che dovevano risalire il fiume era già salpata, anche se altri erano giunti ad occupare il loro posto lungo i moli di New Orleans. Scoppiò la tempesta, con un fragore terribile come quello prodotto dall’esplosione delle caldaie di un battello, e i lampi brillarono alti nel cielo e la pioggia venne giù scrosciante, torrenziale come un’inondazione di primavera. Marsh era in piedi sotto la tettoia della passeggiata del ponte di coperta, e ascoltava l’acqua battere contro il suo battello, osservando la gente sul molo che correva per trovare riparo. Era rimasto lì a lungo, appoggiato alla ringhiera a pensare, quando improvvisamente Joshua York comparve accanto a lui. «Sta piovendo, Joshua» disse Marsh, e indicò il temporale con i bastone.

«Forse, questo Julian non vorrà venire a trovarci questa sera. Forse non vorrà bagnarsi.»

Joshua York assunse un’espressione stranamente solenne. «Verrà.» Non disse altro. Soltanto: «Verrà.»

E — alla fine — arrivò davvero. Oramai, il temporale si era calmato. La pioggia cadeva giù ancora con insistenza, ma era più gentile, più dolce, simile ad un velo di nebbia. Abner Marsh si trovava ancora sul ponte di coperta quando li vide arrivare. Camminavano velocemente lungo il molo deserto, sdrucciolevole per la pioggia. Perfino a quella distanza, capì chi fossero. C’era qualcosa nel loro modo di camminare, qualcosa di aggraziato e di feroce, colmo di un’orrenda bellezza. Uno di loro procedeva in modo diverso, muovendosi con andatura boriosa ed arrogante, come se, senza riuscirci, tentasse di essere uno di loro, e quando furono più vicini, Marsh vide che si trattava di Billy Tipton la Serpe. Stava goffamente trasportando qualcosa. Abner Marsh entrò nel grande salone. Gli altri erano tutti a tavola: Simon e Katherine, Smith e Brown, Raymond, Jean e Valerie e tutti quelli che Joshua aveva raccolto lungo il fiume. Stavano parlando a bassa voce, ma si zittirono quando Marsh entrò. «Stanno arrivando,» li avvertì Marsh. Joshua York si alzò dal suo posto a capo tavola e andò loro incontro. Abner Marsh andò al bar e si versò del whiskey. Lo bevve tutto d’un fiato, se ne versò un altro e poi ritornò verso il tavolo. Joshua aveva insistito affinché il posto di Marsh fosse quello subito a sinistra del capotavola. La sedia alla sua destra era stata riservata a Damon Julian. Marsh si sedé pesantemente e guardò accigliato il posto vuoto di fronte a lui. E poi èssi entrarono. Marsh notò che solo i quattro uomini della notte erano entrati nel salone. Billy la Serpe era rimasto fuori, e ciò gli fece piacere. C’erano due donne, e un uomo enorme, dal viso pallido, cupo ed accigliato, che si scuoteva la fuliggine dal soprabito. E poi c’era l’altro, e Marsh lo riconobbe all’istante. Era lui. Aveva un volto liscio, senza età, incorniciato da riccioli neri, e somigliava ad un Lord, nel suo abito rosso borgogna e con la camicia di seta dal largo colletto che si increspava sul davanti. Ad un dito portava un anello d’oro con uno zaffiro della grandezza di una zolletta di zucchero, e appuntata alla giacca c’era una spilla, un grosso diamante nero tagliato alla perfezione e incastonato su di una squisita montatura di oro giallo. Attraversò la stanza e poi — girando intorno alla tavola — si fermò vicino al posto riservato a Joshua, dietro la sedia di capotavola. Posò le sue bianche mani lisce sullo schienale della sedia e li guardò, uno ad uno, lungo tutto il tavolo.

E tutti si alzarono.

Prima quei tre che erano venuti con lui, e poi Raymond Ortega, e Cara e poi il resto, uno o due per volta. Valerie fu l’ultima. Tutti nella stanza erano in piedi, eccetto Abner Marsh. Damon Julian sorrise: un caldo e seducente sorriso. «È bello stare insieme a voi tutti ancora una volta,» disse. Il suo sguardo si posò in particolare su Katherine. «Mia cara, quanti anni sono passati? Quanti anni?»

Il sogghigno che illuminò il viso d’avvoltoio della donna era orribile da osservare, pensò Marsh. Decise di prendere l’iniziativa. «Sedetevi,» disse bruscamente a Damon Julian. Lo tirò per la manica. «Sono affamato e abbiamo aspettato abbastanza a lungo per cenare.»

«Sì,» intervenne Joshua e questo ruppe l’incantesimo e ognuno si mise a sedere. Ma Julian prese il posto di Joshua, quello a capotavola. Joshua si avvicinò a Julian. «Vi trovate al mio posto.» La sua voce sembrava piatta e tesa. «Signore, il vostro è quello. Se volete essere così cortese.» York lo indicò con un gesto della mano. I suoi occhi erano fissi su Damon Julian, e Marsh, lanciando un rapido sguardo al viso di Joshua, vi vide il suo potere, la fredda intensità, la determinazione.

Damon Julian sorrise. «Ah» esclamò sommessamente. E si strinse leggermente nelle spalle. «Pardon.» Poi, senza mai volgere lo sguardo verso Joshua York, nemmeno per un istante, si alzò e si sedé al proprio posto. Joshua si accomodò rigidamente sulla sua sedia e fece con le dita un gesto impaziente. Un cameriere uscì in fretta dall’ombra e posò sul tavolo di fronte a York una bottiglia. «Esci, per gentilezza,» ordinò Joshua al giovane. La bottiglia era senza etichetta. Illuminata dalla luce dei lampadari, circondata da argento e cristallo scintillanti, appariva scura e minacciosa. Era stata già aperta. «Voi sapete di cosa si tratta?» chiese con tono piatto Joshua York a Damon Julian.

«Sì.»

York tese una mano, afferrò il bicchiere da vino di Julian e iniziò a versare. Riempì il bicchiere fino all’orlo e lo posò di nuovo di fronte all’altro. «Bevete,» ordinò.

Gli occhi di York erano puntati su Julian. Julian fissava il bicchiere, un lieve sorriso gli tremolava intorno agli angoli della bocca, come se fosse coinvolto in un qualche segreto divertimento. Il grande salone era immerso in un silenzio totale. Da molto lontano, giunse all’orecchio di Marsh il flebile gemito di un battello che arrancava nella pioggia. Quel momento sembrò non avere mai fine.

Damon Julian allungò la mano, prese il bicchiere e bevve. Vuotò il bicchiere in un unico, lungo sorso, e fu come se avesse bevuto anche tutta la tensione che aleggiava nella stanza. Joshua sorrise, Abner Marsh grugnì, e dall’altra parte del tavolo, gli altri si lanciarono sguardi perplessi, circospetti. York riempì altri tre bicchieri e li fece porgere ai compagni di Julian. Tutti e tre bevvero. La conversazione iniziò in bassi sussurri.

Damon Julian sorrise ad Abner Marsh. «Il vostro battello è davvero notevole, Capitano Marsh. Spero che la cena sia ugualmente eccellente.»

«La cena sarà migliore.» Marsh si sentì ritornare alla normalità, muggì un ordine e i camerieri cominciarono a servire il banchetto preparato da Toby. Mangiarono per più di un’ora. Il popolo della notte aveva maniere raffinate ma il loro appetito era simile a quello di qualsiasi uomo di fiume. Si gettarono sul cibo come un branco di scaricatori di porto che avevano appena sentito l’ufficiale gridare, «Alle cibarie!» Tutti, eccetto Damon. Julian mangiò lentamente, quasi con delicatezza, qualche volta fermandosi a gustare il vino, e sorridendo spesso senza alcuna ragione apparente. Marsh aveva già vuotato il suo terzo piatto e quello di Julian era ancora pieno per metà. La conversazione era rilassata e superficiale. Quelli più lontani parlavano a bassa voce e animatamente, così che Marsh non riusciva ad afferrare cosa stessero dicendo. Più vicino a lui, Joshua York e Damon Julian discutevano sul temporale, la calura, il fiume, e il Fevre Dream. Tranne quando parlarono del battello, Abner Marsh si interessò ben poco alla conversazione, preferendo concentrarsi sul suo piatto. Alla fine vennero serviti il caffè e il brandy e poi i camerieri scomparvero e il salone del battello fu vuoto, ad eccezione di Abner Marsh e degli appartenenti al popolo della notte. Marsh assaporò il suo brandy e sentì il rumore che fece mandandolo giù, prima di accorgersi che tutte le conversazioni erano cessate.

«Siamo tutti insieme, infine,» la voce di Joshua era tranquilla, «e questo è uh nuovo inizio per noi, per il Popolo della Notte. Quelli che vivono alla luce del giorno la chiamerebbero una nuova alba.» Sorrise. «Per noi, ‘un nuovo tramonto’ sarebbe una metafora più appropriata. Voi tutti, ascoltate. Lasciate che vi illustri i miei progetti.» Poi Joshua si alzò e cominciò a parlare in tono serio. Per quanto tempo parlò, Abner Marsh non l’avrebbe saputo dire. Lo aveva già sentito parlare di quelle cose in precedenza; la liberazione dalla Sete Rossa, la fine della paura, l’accordo tra il popolo del giorno e quello della notte, i proficui risultati di quella collaborazione, la nuova grande epoca. Joshua parlava e parlava, con eloquenza e passione, e il suo discorso era infiorettato da citazioni poetiche e termini ricercati. Marsh prestò più attenzione agli altri, alla fila di pallidi volti intorno al tavolo. Tutti avevano gli occhi puntati su Joshua, tutti lo stavano ascoltando, in silenzio. Ma non tutti avevano lo stesso atteggiamento. Simon sembrava un po’ nervoso e osservava ora Julian ora York. Jean Ardent guardava rapito e rispettoso, ma le espressioni di altri volti erano vuote e fredde, difficili da interpretare. Raymond Ortega stava sorridendo subdolamente, e l’omone, chiamato Kurt, era accigliato. Valerie appariva nervosa e Katherine — il suo volto severo ed affilato mostrava una tale ripugnanza che Marsh ebbe un sussulto nell’osservarlo.

Poi, Marsh guardò di fronte a lui, là dove era seduto Damon Julian, e scoprì che Julian lo stava fissando. I suoi occhi erano neri, duri e luminosi come un pezzo di carbone della migliore qualità. Marsh vi scórse abissi: gli abissi senza fondo dell’inferno, un baratro che aspettava solo di inghiottirli tutti. Distolse lo sguardo con difficoltà, senza neppure pensare di costringere l’altro a fare altrettanto, come scioccamente aveva tentato con York, tempo prima, al Planters’ House. Julian sorrise, ritornò a guardare Joshua, bevve il suo caffè e ascoltò. Ad Abner Marsh non piacque molto quel sorriso, né la profondità di quegli occhi. Improvvisamente ebbe di nuovo paura.

E finalmente Joshua terminò e si sedette.

«Quella del battello è una buona idea,» disse compiaciuto Julian. La sua morbida voce percorse tutto il salone. «Perfino il vostro elisir può essere di una certa utilità. Di tanto in tanto. Il resto, caro Joshua, dovete dimenticarlo.» Il suo tono era gentile, il suo sorriso rilassato e luminoso. Qualcuno tirò bruscamente il fiato, ma nessuno osò parlare. Abner Marsh si irrigidì sulla sedia. Joshua aggrottò la fronte. «Vi prego di spiegarvi meglio,» disse. Julian fece un languido gesto di rifiuto.

«La vostra storia mi rende triste caro Joshua. Siete cresciuto tra il bestiame e adesso la pensate come loro. La colpa non è vostra, naturalmente. Quando imparerete, celebrerete la vostra vera natura. Vi hanno corrotto, questi insignificanti animali tra cui avete vissuto, vi hanno riempito della loro misera moralità, delle loro deboli religioni, dei loro noiosi sogni».

«Cosa state dicendo?» La voce di Joshua fu colma di rabbia.

Julian non gli rispose direttamente. Invece si voltò verso Marsh. «Capitano Marsh, questo arrosto che avete così gradito era una volta parte di un animale vivo. Supponete che, se quella bestia potesse parlare, avrebbe acconsentito a lasciarsi mangiare?» I suoi occhi, quei feroci occhi neri, erano inchiodati su Marsh, ed esigevano una risposta.

«Io… dannazione, no… ma…»

«Ma voi, in tutti i casi, l’avete mangiato, è vero?» Julian sorrise. «È naturale che lo abbiate fatto, Capitano. Non dovete vergognarvene.»

«Non provo vergogna,» replicò con decisione Marsh. «Era soltanto una mucca.»

«Certo, è così» continuò Julian, «e il bestiame è bestiame.» Si voltò a guardare Joshua York. «Ma il bestiame può pensarla diversamente. Tuttavia, questo non deve turbare il capitano qui presente. Egli fa parte di una specie superiore a questa mucca. È nella sua natura uccidere e mangiare e in quella della mucca di essere uccisa e mangiata. Vedete Joshua, la vita è davvero semplice.

«I vostri errori nascono dall’essere stato allevato tra le mucche, che vi hanno insegnato a non mangiarle. Avete parlato del male. Dove avete appreso questo concetto? Da loro, naturalmente, dal bestiame. Bene e male, quelle sono parole usate dagli animali, vuote, buone solo per preservare le loro inutili vite. Essi vivono e muoiono nel mortale timore di noi, che per natura siamo loro superiori. Noi infestiamo perfino i loro sogni, e per questo cercano rifugio nelle menzogne e inventano dei che hanno potere su di noi, e vogliono credere che croci o acqua santa possano sottometterci.

«Devi capire, caro Joshua, che non esiste né il bene né il male, ma soltanto forza e debolezza, padroni e schiavi. Avete contratto la febbre della loro moralità, della colpa e della vergogna. Quanto è folle tutto questo. Queste sono parole loro, non nostre. Voi predicate un nuovo inizio, ma a cosa daremmo inizio? Diventeremmo del bestiame? Bruceremmo sotto i raggi del loro sole, lavoreremmo quando potremmo semplicemente prendere, ci sottometteremmo agli dei del bestiame? No. Loro sono animali, nostri inferiori, le nostre numerose e belle prede. Così vanno le cose.»

«No,» esplose Joshua. Spinse indietro la sedia e si alzò, così da ergersi al di sopra della tavola come un pallido, sottile Golia. «Essi pensano, sognano, hanno costruito un mondo, Julian. Vi sbagliate. Siamo cugini, rappresentiamo due lati della stessa moneta. Non sono delle prede. Considerate tutto quello che hanno fatto! Hanno portato la bellezza nel mondo. Che cosa abbiamo creato noi? Nulla. La Sete è stata la nostra rovina.»

Damon Julian sospirò. «Ah, povero Joshua.» Sorseggiò il suo brandy. «Lasciate che le bestie creino… la vita, la bellezza, ciò che volete. E noi prenderemo le loro creazioni, le useremo, le distruggeremo se lo vogliamo. Così vanno le cose. Siamo i padroni. I padroni non lavorano. Lasciateli cucire degli abiti. Li indosseremo. Lasciateli costruire dei battelli. Vi navigheremo. Lasciateli sognare la vita eterna. Noi la vivremo e berremo le loro vite e assaporeremo il loro sangue. Noi siamo i signori di questa terra e questa è la nostra eredità. Il nostro destino, se volete, caro Joshua. Siate lieto della vostra natura, Joshua, non cercate di cambiarla. Coloro tra le nostre prede che ci conoscono, ci invidiano. Ognuno di loro vorrebbe essere come noi, potendo scegliere.» Julian sorrise maliziosamente. «Non vi siete mai chiesto perché questo loro Gesù Cristo ordinò ai suoi seguaci di bere il suo sangue, se avessero voluto vivere in eterno?» Ridacchiò. «Desiderano ardentemente essere come noi, proprio come il sogno dei neri è di essere bianchi. Avete visto fin dove si sono spinti. Per illudersi d’essere dei padroni, hanno perfino reso schiava la loro stessa specie.»

«Come avete fatto voi, Julian,» ritorse con voce tesa Joshua York. «Come altro potete chiamare il dominio che avete esercitato sul nostro popolo? Anche quelli che voi chiamate padroni sono stati da voi assoggettati al vostro malvagio volere.»

«Anche tra di noi ci sono i deboli e i forti, caro Joshua. È giusto che il forte sia alla guida.» Julian posò il bicchiere e guardò verso l’estremità opposta del tavolo. «Kurt, manda a chiamare Billy.»

«Si, Damon,» e l’omone si alzò.

«Dove state andando?» chiese Joshua, mentre Kurt percorreva a grandi passi la stanza, e la sua immagine si muoveva con decisione, riflessa in dozzine di specchi.

«Avete giocato il ruolo della bestia abbastanza a lungo, Joshua. Sto per insegnarvi cosa vuol dire essere un padrone.»

Abner Marsh provò una sensazione di freddo e di paura. Gli occhi di tutti i presenti nel salone erano vitrei, paralizzati, mentre osservavano il dramma che si stava svolgendo a capotavola. In piedi, Joshua York sembrava torreggiare su Damon Julian, che era ancora seduto, ma in qualche modo non sembrava dominare l’altro. Gli occhi grigi di Joshua parevano tanto decisi ed appassionati quanto quelli di un vero uomo. Ma Julian non lo era affatto, pensò Marsh. In un attimo, Kurt fu di ritorno. Billy la Serpe doveva essere rimasto in attesa nelle vicinanze, simile ad uno schiavo che attenda gli ordini del padrone. Kurt riprese il suo posto. Billy Tipton la Serpe si diresse verso i due contendenti, portando qualcosa, con una strana eccitazione nei suoi occhi di ghiaccio. Damon Julian spazzò i piatti da un lato con un braccio, creando uno spazio libero sul tavolo. Billy la Serpe si liberò del suo fardello e adagiò sulla tovaglia un bambino negro, di fronte a Joshua York.

«Per l’inferno!» ruggì Marsh. Si scostò dal tavolo, minaccioso, e fece per alzarsi.

«Stai seduto e calmo, ragazzo,» lo avvertì Billy la Serpe, con voce monotona e tranquilla. Marsh volle voltarsi lentamente verso di lui e sentì qualcosa di freddo e di molto tagliente che gli veniva premuto contro un lato del collo. «Apri la bocca e ti farò sanguinare,» minacciò. «Riesci ad immaginare cosa ti farebbero, quando vedrebbero tutto quel bel sangue caldo?» Tremante, diviso tra la rabbia e il terrore, Abner Marsh rimase immobile. La punta del coltello di Billy premé un po’ più forte e Marsh sentì qualcosa di caldo e di umido scorrergli giù per il collo. «Bene,» sussurrò Billy, «molto bene.»

Joshua York guardò per un istante Marsh e Billy la Serpe, poi rivolse di nuovo la sua attenzione su Julian. «Trovo tutto ciò osceno», disse freddamente. «Julian, non so perché avete condotto questo bambino qui, ma non mi piace. Questo gioco deve finire, subito. Dite al vostro uomo di togliere il coltello dalla gola del capitano.»

«Ah, e se non voglio farlo?»

«Lo farete, io sono il Signore del Sangue.»

«Ma lo siete davvero?» chiese con tono leggero Julian.

«Si, non mi piace usare i vostri metodi coercitivi, Julian, ma se devo farlo, lo farò.»

«Ah.» Julian sorrise. Si alzò, si stiracchiò pigramente, come un grosso gatto nero che si risvegli da un pisolino, poi allungò la mano sulla tavola in direzione di Billy la Serpe. «Billy, dammi il tuo coltello.»

«Ma… e lui?» chiese Billy.

«Ora il Capitano Marsh saprà comportarsi bene. Il coltello.» Billy glielo porse per l’elsa.

«Bene.» sottolineò Joshua.

Il bambino — piccolissimo, magro, molto scuro e completamente nudo — in quel momento produsse una specie di gorgoglio e si agitò debolmente. E Damon Julian fece la cosa più orribile che Abner Marsh avesse mai visto in tutta la sua vita. Agilmente e con molta delicatezza, si protese verso il bambino sul tavolo, abbassò il coltello di Billy la Serpe e tranciò con un colpo secco la manina destra del bambino.

Il piccolo iniziò ad urlare. Il sangue schizzò sul tavolo, sui bicchieri di cristallo e le stoviglie d’argento e sul candido e sottile lino della tovaglia. Le membra del bambino si dibatterono debolmente, e il sangue iniziò a raccogliersi in una pozza. E Julian infilzò la mano recisa — era così incredibilmente piccola, grande nemmeno quanto l’alluce di Marsh — sulla lama del coltello di Billy. E la tenne alta, gocciolante, di fronte a Joshua York. «Bevete,» ordinò, e dalla sua voce era scomparsa ogni dolcezza.

York, con una forte manata, allontanò da sé il coltello. Esso roteò via dalla mano di Julian, con la mano del bambino ancora infilzata, e atterrò sei passi più in là sul tappeto. Joshua aveva la morte in viso. Mise due forti dita sui lati del polso del bambino e strinse. L’emorragia si arrestò. «Datemi una corda,» ordinò.

Nessuno si mosse. Il bambino stava ancora gridando. «C’è un modo più facile per calmarlo,» disse Julian. Con la sua mano pallida e crudele strinse con forza la bocca del piccolo. La mano avviluppò completamente la testolina bruna e soffocò ogni suo grido. Julian iniziò a stringere. «Lasciatelo andare!» gridò York.

«Guardami. Guardami. Signore del Sangue.»

E i loro occhi si incontrarono mentre erano protesi sul tavolo, ognuno con una mano su quello che era un piccolo pezzo nero di umanità.

Abner Marsh restò seduto, paralizzato, come colpito da un fulmine, disgustato, furioso, desideroso fare di qualcosa, ma in qualche modo incapace di muoversi. Come tutti gli altri, fissava York e Julian, impegnati in quella strana, silenziosa battaglia di volontà. Joshua York stava tremando. La sua bocca era strettamente serrata per la rabbia, i muscoli del collo erano tesi come corde e gli occhi grigi erano gelidi e minacciosi come ghiaccio. Era immobile come un uomo posseduto, un pallido dio adirato, un dio bianco, blu e argento. Era impossibile opporsi in qualche modo a quell’esplosione di volere, di forza, pensò Marsh. Impossibile. E poi guardò Damon Julian. Gli occhi spiccavano sul suo viso: gelidi, neri, malvagi, implacabili. Abner Marsh guardò in quegli occhi un istante di troppo e sentì di precipitare in un abisso. Udì degli uomini gridare da qualche parte, in lontananza, e la sua bocca si riempì del gusto del sangue caldo. Vide dissolversi quelle maschere i cui nomi erano Damon Julian, Giles Lamont, Gilbert D’Aquin, Philip Caine e Sergei Alexov, e mille altri nomi, e dietro ognuna di esse ce n’era un’altra, più vecchia o più orrenda, maschera dopo maschera, ognuna era più bestiale di quella precedente, e in ultimo l’essere non aveva fascino, né sorriso, né parole gentili, né abiti di lusso o gioielli, non aveva niente di umano, non era nulla di umano; rimaneva soltanto la Sete rossa, la febbre, rossa, rossa, antica e insaziabile. Quell’essere era primordiale e inumano, ed era forte. Era vivo e respirava e beveva l’essenza della paura, ed era vecchio, oh così vecchio, più vecchio dell’uomo e di tutte le sue opere, più vecchio delle foreste e dei fiumi, più vecchio dei sogni. Abner Marsh sbatté le palpebre e dall’altra parte del tavolo non vide che un animale, un animale alto e bello in un vestito rosso borgogna, e non era rimasto nulla di umano in lui. I tratti del suo viso erano i tratti del terrore; i suoi occhi — i suoi occhi erano rossi, non più neri, ma rossi e vi brillava una luce, rossi, ardenti, assetati, rossi. Joshua York lasciò andare il moncherino del bambino. Ne scaturì un improvviso e debole spruzzo di sangue, riversandosi sul tavolo. Un attimo dopo un suono simile a un terribile e umido scricchiolio riempì il salone. E Abner Marsh, ancora mezzo imbambolato, sfilò il lungo coltello da cucina dallo stivale e si lanciò dal suo posto, urlando, inveendo, spietatamente. Billy la Serpe tentò di afferrarlo dal di dietro, ma Marsh era troppo forte, troppo violento. Scagliò Billy da parte, e si lanciò attraverso la tavola apparecchiata contro Damon Julian. Julian distolse appena in tempo lo sguardo da quello di Joshua York e si tirò leggermente indietro. Il coltello mancò l’occhio di un pollice, ma provocò un lungo taglio sulla guancia destra del viso di Julian. Il sangue zampillò dalla ferita e Julian produsse un suono simile ad un ringhio profondo e gutturale. Poi qualcuno afferrò Marsh da dietro, lo trascinò via dal tavolo e lo scaraventò attraverso il salone. Lo alzò e lo gettò, con tutte i suoi centocinquanta chili di peso, come se fosse un bambino. Colpì qualcosa di duro quando atterrò, ma in qualche modo, Marsh riuscì a rigirarsi e a rimettersi in piedi.

Era stato Joshua a scagliarlo via, lo aveva visto, ed era Joshua che, in quel momento, gli stava vicino, Joshua con le pallide mani tremanti e gli occhi grigi pieni di paura. «Scappate, Abner. Lasciate il battello. Fuggite.» Dietro di lui, gli altri si erano tutti alzati da tavola. I volti bianchi, gli occhi attenti e sgranati, le mani pallide, rigide e avide. Katherine stava sorridendo, gli stava sorridendo nel modo in cui gli aveva sorriso quando l’aveva colto che usciva dalla cabina di Joshua. Il vecchio Simon stava tremando. Perfino Smith e Brown si stavano avvicinando a lui, circondandolo lentamente, e i loro occhi non erano amichevoli, e le loro labbra erano umide. Si stavano muovendo, tutti, e Damon Julian scivolò intorno al tavolo, quasi senza far rumore, con il sangue che si stava coagulando sulla guancia ed il taglio che si rimarginò quasi sotto gli occhi di Marsh. Il capitano guardò le proprie mani e scoprì di aver perso il coltello. Indietreggiò, passo dopo passo, fino a che la schiena non urtò contro una porta a specchi del salone.

«Fuggite, Abner,» ripeté Joshua York.

Marsh annaspò, aprì la porta, si rifugiò nella cabina alle sue spalle, e vide Joshua voltarsi e frapporsi tra la cabina e gli altri, Julian, Katherine, il resto del popolo della notte, i vampiri. E questa fu l’ultima cosa che vide, prima che venisse preso dal panico e fuggisse.

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