CAPITOLO DICIANNOVESIMO

A bordo del Fevre Dream
FIUME MISSIPPI
Agosto 1857

Colpi secchi e insistenti sulla porta della cabina risvegliarono finalmente Abner Marsh dal suo profondo sonno senza sogni. Si agitò ancora stordito e si mise a sedere sul letto. «Un momento!» gridò. Avanzò pesantemente verso il catino, come un grande orso nudo appena uscito dal letargo e non troppo contento del fatto. E fu soltanto quando si spruzzò del’acqua sul viso che Marsh ricordò. «Dannazione!» imprecò con ira, fissando le ombre grigie che si raccoglievano in ogni angolo della piccola cabina buia. All’esterno dell’oblò, il cielo era di colore bruno e porpora. «Dannazione,» ripeté, infilandosi un paio di pantaloni puliti. A gran passi raggiunse la porta e la aprì con violenza. «Perché diavolo mi avete lasciato dormire così a lungo?» gridò a Jonathan Jeffers. «Ho detto al Peloso di svegliarmi una dannata ora prima del tramonto, maledizione.»

«È un’ora prima del tramonto.» Rispose l’altro. «Il cielo è coperto di nubi, ecco perché sembra che sia già buio. Mister Albright dice che presto scoppierà un altro temporale.» Jeffers entrò nella cabina di Marsh e richiuse la porta. «Vi ho portato questo,» disse, mostrandogli un bastone da passeggio in noce. «L’ho trovato nel salone, Capitano.»

Marsh prese il bastone, rabbonito. «L’ho perso la notte scorsa,» spiegò. «Avevo altre cose per la testa.» Appoggiò il bastone alla parete e lanciò un rapido sguardo alla finestra, accigliandosi. Di là dal fiume, l’intero orizzonte occidentale era un ammasso di nubi minacciose che si muovevano come un grande muro di tenebre pronto a crollare su di loro. Era impossibile scorgere il sole che tramontava. Questo non gli piacque neanche un po’. «Sarà meglio che vada a svegliare Joshua.» Tirò fuori una camicia e incominciò a vestirsi.

Jeffers si appoggiò al suo bastone. «Volete che vi accompagni?» chiese.

«Devo parlare con Joshua da solo,» disse Marsh, annodandosi la cravatta, con un occhio allo specchio. «Sebbene l’idea non mi esalti. Perché, invece, non venite su con me e aspettate di fuori? Forse Joshua vi farà entrare per discutere sul da farsi.» La vera ragione era un’altra. Marsh voleva che il commissario restasse a portata di mano, forse sarebbe stato lui a chiamarlo, se Joshua York non avesse appreso con tranquillità la notizia del decesso di Damon Julian.

«Bene,» rispose Jeffers.

Marsh si infilò in fretta la giacca da capitano e prese il bastone. «Andiamo, allora, Mister Jeffers. È già dannatamente buio.»

Il Fevre Dream stava procedendo a buona velocità, con le bandiere che garrivano nel forte vento, mentre del fumo nero fuoriusciva dai fumaioli. Sotto la scarsa luce di quello strano cielo purpureo, le acque del Mississippi sembravano quasi nere. Marsh fece una smorfia e si affrettò a gran passi verso la cabina di Joshua York. Jeffers era al suo fianco. Questa volta non ebbe nessuna esitazione davanti alla porta; sollevò il bastone e bussò. Al terzo colpo del bastone sulla porta gridò, «Joshua, fatemi entrare. Dobbiamo parlare.» Al quinto colpo la porta si aprì, muovendosi lentamente verso l’interno per rivelare un’oscurità morbida e silenziosa. «Aspettatemi,» disse Marsh a Jeffers. Entrò nella cabina e richiuse la porta. «Non vi arrabbiate, Joshua,» disse rivolgendosi alle tenebre e provò una stretta alle budella. «Non avrei voluto disturbarvi, ma è importante ed è quasi notte, ad ogni modo.» Non ebbe risposta, sebbene Marsh percepisse un respiro. «Dannazione, perché dobbiamo sempre parlare al buio, Joshua? Mi mette terribilmente a disagio. Accendo una candela, volete?»

«No.»

La voce era brusca, bassa, liquida. E non era quella di Joshua. Abner Marsh fece un passo indietro. «Oh Dio, no.» Si udì un fruscio proprio mentre con mano tremante trovava la porta dietro di lui e la apriva di scatto. La spalancò, e poiché ormai i suoi occhi si erano abituati all’oscurità, perfino la luce purpurea del cielo carico di tempesta fu sufficiente per dare una forma fuggevole alle ombre all’interno della cabina del capitano. Vide Joshua York sdraiato sul letto, pallido, nudo, con gli occhi chiusi, un braccio che penzolava sul pavimento e sul suo polso c’era qualcosa che sembrava un terribile livido nero o una crosta di sangue rappreso. E vide Damon Julian muoversi verso di lui, agile come la morte, sorridente.

«Vi abbiamo ucciso,» tuonò Marsh, incredulo, e indietreggiò goffamente fuori dalla porta, inciampò e cadde praticamente ai piedi di Jonathan Jeffers. Julian si fermò sulla soglia. Una linea nera e sottile — non più di un graffio di gatto — correva sulla guancia dove Marsh aveva aperto un taglio lungo e profondo la notte prima. Altrimenti era illeso. Si era tolto la giacca e il gilé e la camicia di seta arricciata non aveva né macchie né piegature.

«Entrate Capitano, non scappate via. Entrate e parliamo.»

«Voi siete morto. Mike ha fracassato la vostra maledetta testa,» disse Marsh con voce strozzata. Non osò guardare negli occhi di Julian. Era ancora giorno, pensò, era al sicuro fuori, lontano dalla portata di Julian, fino a quando il sole non sarebbe tramontato, purché non guardasse in quegli occhi, purché non ritornasse nella cabina.

«Morto?» sorrise Julian. «Ah. L’altra cabina. Povero Jean. Ha tanto voluto credere in Joshua e vedete cosa gli avete fatto. Avete spappolato la sua testa, avete detto?»

Abner Marsh si rimise in piedi. «Vi siete scambiati le cabine.» Marsh ansimò rocamente. «Dannato demonio. L’avete fatto dormire nel vostro letto.»

«Joshua ed io avevamo tante cose da discutere,» replicò Julian. Fece un cenno d’invito con la mano. «Adesso venite, Capitano. Sono stanco di aspettare. Venite e beviamo insieme.»

«Andate all’inferno! Forse vi abbiamo mancato questa mattina, ma non avete ancora lasciato questa nave. Mister Jeffers, correte giù e chiamate Mike il Peloso e i suoi ragazzi, una dozzina dovrebbero bastare, suppongo.»

«No, voi non lo farete.»

Marsh agitò minacciosamente il suo bastone. «Oh, sì, che lo farò. Sarete voi a fermarmi?»

Julian sollevò lo sguardo verso il cielo adesso; era di un viola scuro, iniettato di nero, un crepuscolo livido e nuvoloso. «Sì,» e avanzò in piena luce. Abner Marsh sentì la mano gelida, viscida del terrore chiudersi intorno al cuore. Sollevò il bastone esclamando, «State lontano», la sua voce era divenuta improvvisamente acuta. Arretrò, Damon Julian avanzò sorridendo. Non c’era abbastanza luce, pensò Marsh disperato. E poi ci fu un fruscio di metallo su legno e Jonathan Jeffers si frappose tra il Capitano e Julian, roteando pericolosamente la lama affilata che, fino ad un istante prima, era stata nascosta nel bastone.

«Andate a cercare aiuto, Capitano,» disse con voce tanquilla. Si aggiustò gli occhiali con la mano libera. «Io terrò Mister Julian occupato.»

Agilmente, con la velocità di un esperto spadaccino, Jeffers si lanciò contro Julian, facendo un affondo. La sua lama era uno stocco, a doppio taglio e terribilmente appuntito. Damon Julian ruotò all’indietro appena in tempo, mentre il sorriso gli scompariva dalle labbra quando il fendente del commissario gli passò a pochi pollici dal viso.

«Fatevi da parte,» minacciò cupamente Julian. Jonathan Jeffers non profferì parola. Rimase in atteggiamento da spadaccino, avanzando lentamente sulle punte dei piedi, respingendo Julian verso la porta della cabina del capitano. Improvvisamente affondò la lama, ma Julian fu troppo rapido, e arretrò fuori portata della lama. Jeffers emise un tsk di impazienza. Damon Julian fece un passo all’interno della cabina e rispose con una risata che fu quasi una ringhio sprezzante. Le sue bianche mani si sollevarono e si aprirono. Jeffers affondò di nuovo. E Julian si lanciò in avanti, le mani protese. Abner Marsh vide tutto. Il fendente di Jeffers era preciso, ma Julian non fece nulla per evitarlo. Lo stocco penetrò appena sopra l’inguine. Il pallido viso di Julian si contorse e ne sfuggì un grugnito di dolore, ma non si fermò. Jeffers trafisse da parte a parte proprio mentre Julian risali lungo la lama, e prima che lo spaventato commissario avesse il tempo di tirarsi indietro, Julian aveva avviluppato con le mani il collo di Jeffers. Jeffers emise un orribile suono strozzato. I suoi occhi si gonfiarono e mentre tentava di liberarsi degli occhiali dorati, cadde sul ponte. Marsh balzò in avanti e colpì Julian con il suo bastone, facendogli piovere una serie di colpi sulla testa e sulle spalle. Trafitto dalla spada, Julian pareva non prestarvi alcuna attenzione. Si torse selvaggiamente, e ci fu un rumore come di legno che si spezzi. Jeffers si afflosciò. Abner Marsh fece roteare il bastone per un colpo finale, sferrato con tutta la sua forza, e colse Damon Julian in mezzo alla fronte, facendolo vacillare per un istante. Quando Julian aprì le mani, Jeffers cadde come una bambola di pezza, con la testa storta grottescamente all’indietro.

Abner Marsh si ritrasse in fretta.

Julian si toccò la fronte, come per valutare gli effetti dell’assalto di Marsh. Marsh si accorse con terrore che non c’era sangue. Per quanto fosse forte, non lo era quanto Mike il Peloso e il legno non era ferro. Con un calcio Damon Julian liberò l’impugnatura del bastone animato dalla mano ormai irrigidita di Jeffers. Trasalendo, estrasse dal suo corpo con un suono orribile la lama imbrattata di sangue. La camicia e i pantaloni erano rossi, sporchi di sangue e gli si incollarono addosso quando si mosse. Lanciò la lama oltre una delle murate, quasi senza sforzo, e questa roteò più volte come una trottola mentre cadeva verso il fiume, prima di svanire nelle acque nere e agitate. Julian avanzò di nuovo, barcollando, lasciando tracce di sangue dietro di lui sul ponte. Cionondimeno, avanzò. Marsh indietreggiò davanti a lui. Non c’era verso di ucciderlo, pensò, in preda ad un cieco panico; non c’era niente da fare. Joshua e i suoi sogni, Mike il Peloso e il suo bastone, Mister Jeffers e la sua spada, nessuno di loro aveva potuto avere ragione di questo Damon Julian. Marsh si arrampicò sulla scaletta che conduceva al ponte di manovra e iniziò a correre. Ansimando, ben presto arrivò a poppa, fino alla scaletta di boccaporto che conduceva dal ponte di manovra alla passeggiata, dove avrebbe trovato gente e sarebbe stato salvo. Si accorse che era quasi notte. Poi scese rumorosamente i gradini che portavano dabbasso, afferrò strettamente il corrimano e sussultò, cercando di controllarsi.

Billy Tipton e quattro dei loro stavano salendo verso di lui.

Abner Marsh si voltò e cominciò a risalire. Corri e suona l’allarme, pensò, suona l’allarme per chiamare aiuto… ma ormai Julian era sceso dal ponte del Texas, e gli tagliava la strada. Per un attimo Marsh rimase immobile, pietrificato dalla disperazione. Non aveva via di scampo, era intrappolato tra Julian e gli altri, disarmato eccetto per il suo inutile, dannato bastone, ma questo che importava, niente li avrebbe feriti comunque, lottare era inutile, poteva anche arrendersi. Sul viso di Julian, mentre avanzava, si dipinse un sottile, crudele sorriso. Nella sua mente, Marsh vide quel pallido viso calare su di lui, i denti scoperti, quegli occhi brucianti di febbre e di .sete, rossi, antichi, invincibili. Se avesse avuto delle lacrime, Marsh avrebbe pianto. Scoprì che non poteva muovere le gambe da dove si erano piantate, e perfino il suo bastone gli sembrò troppo pesante.

Poi, lontano, a monte del fiume, un altro battello a pale superò una curva, apparendo in piena vista, e Abner Marsh non lo avrebbe mai notato, ma il pilota lo fece e il fischio del Fevre Dream avvertì l’altro battello che lo avrebbe preso a babordo quando si sarebbero incrociati. L’acuto lamento della sirena fece uscire Marsh dalla sua paralisi. Guardò in alto e vide le luci lontane del battello che discendeva il fiume e i fuochi vomitati dalla sommità degli alti fumaioli e il cielo quasi nero che incombeva su di esso, e in lontananza il fioco chiarore di un lampo che illuminava le nuvole dall’interno, e il fiume, il fiume nero e infinito, il fiume che era la sua casa, il suo mestiere, il suo amico e il suo peggiore nemico, volubile, brutale, terribile amante delle sue creature galleggianti. Esso scorreva come aveva sempre fatto e non sapeva nulla né si curava di nulla riguardo a Damon Julian e i tipi come lui, essi non erano nulla per lui, sarebbero morti e dimenticati e il vecchio diabolico fiume avrebbe ancora continuato a scorrere, a forgiare nuovi canali, a sommergere città e raccolti, a costruirne nuovi e irrigarne altri, a macinare battelli nei suoi denti per sputarne schegge.

Abner Marsh si mosse verso il punto in cui le sommità dei tamburi torreggiavano sul ponte. Julian lo seguì. «Capitano,» lo chiamò, con voce distorta ma era ancora seducente. Marsh lo ignorò. Si issò, in cima ad uno dei tamburi, con una forza nata dalla necessità, una forza che non sapeva di avere. Sotto i suoi piedi, la grande ruota a pale girava. Poteva sentirla vibrare attraverso il legno, poteva udirne il chunka-chunka. Si mosse verso poppa, attentamente, poiché non desiderava cadere nel posto sbagliato, dove la ruota avrebbe potuto risucchiarlo sotto e fracassarlo. Guardò in basso. La luce era quasi scomparsa, l’acqua sembrava nera, ma, laddove il Fevre Dream era passato, stava bollendo e spumeggiando. Il bagliore proveniente dalle fornaci del battello colorava l’acqua di rosso, cosicché sembrava sangue bollente. Abner Marsh guardò in giù e raggelò. Altro sangue, pensò, altro dannato sangue, non posso sfuggirgli, non posso sfuggirgli in nessun modo. Il martellare dei colpi del battello erano tuoni per le sue orecchie.

Billy la Serpe saltò sulla sommità del tamburo e cominciò ad avvicinarglisi cautamente. «Mister Julian vi vuole, grassone. Venite, vi siete spinto fin dove potevate.» Prese il suo coltellino e sorrise. Billy Tipton aveva un sorriso davvero spaventoso.

«Non è sangue,» gridò Marsh, «è solo il dannato fiume.» Stringendo ancora il bastone, inspirò profondamente, e si gettò fuoribordo. Le imprecazioni di Billy la Serpe gli risuonavano ancora nelle orecchie quando cadde nell’acqua.

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