CAPITOLO QUARTO

A bordo del Fevre Dream
FIUME OHIO
Luglio 1857

Era già buio quando il Fevre Dream lasciò New Albany in una notte afosa dei primi di luglio. In tutti i lunghi anni che aveva trascorso sul fiume, Abner Marsh non si era mai sentito così vivo come quel giorno. Passò la mattinata a sbrigare le ultime incombenze, i particolari dell’ultimo momento, a Louisville e New Albany; assumere un barbiere, pranzare con gli uomini del cantiere, spedire un mazzo di lettere. Nella calura pomeridiana, si sistemò nella sua cabina, compì un ultimo giro di controllo del battello per assicurarsi che fosse tutto in ordine e salutò alcuni passeggeri di prima classe man mano che salivano a bordo. La cena fu consumata in fretta e furia, e subito via, sul ponte di manovra per sovrintendere al controllo delle caldaie che macchinisti e manovali stavano effettuando laboriosamente, e per controllare l’operato del comandante in seconda che a sua volta stava sorvegliando l’imbarco dell’ultimo carico di merci. Il sole dardeggiava impietosamente l’aria stagnante, afosa ed immobile, imperlando di sudore scintillante la pelle degli scaricatori mentre trasportavano casse, balle e barili sulle strette passerelle d’imbarco, accompagnati dall’incessante turpiloquio del secondo. Dall’altra sponda del fiume, in prossimità di Louisville, Marsh sapeva che altri battelli si accingevano alla partenza o stavano anch’essi ultimando le operazioni d’imbarco: il grande battello a bassa pressione Jacob Strader della Cincinnati Mail Line, il veloce Southerner della Cincinnati Louisville Packet Company e una mezza dozzina di battelli minori. Il Capitano Marsh teneva d’occhio la situazione per vedere se uno di essi prendesse il fiume, e si sentiva terribilmente in forma a dispetto dell’afa e degli sciami di zanzare che si erano levati dalle acque al calar del sole.

Il ponte di manovra era ingombro di merci, sia verso poppa che verso prua, ed il carico occupava quasi completamente lo spazio lasciato libero dalle caldaie, dai forni e dai motori. Il Fevre Dream si preparava a trasportare centocinquanta tonnellate di foglie di tabacco in balle, trenta tonnellate di ferro, innumerevoli barili di zucchero, farina e brandy, casse di mobili di lusso per un riccone di St. Louis, un paio di blocchi di sale, alcune pezze di seta e cotone, trenta barili di chiodi, diciotto casse di fucili, libri, carte e vari altri generi. E lardo. Una dozzina di grosse botti colme di lardo di primissima scelta. Ma, per la verità, il lardo non faceva propriamente parte del carico; era un acquisto personale di Marsh, ed egli aveva ordinato che fosse stivato a bordo.

Il ponte di coperta era anche gremito di passeggeri, uomini, donne e bambini, fitti come le zanzare del fiume, che sciamavano e si aggiravano in mezzo al carico. Quasi trecento persone si accalcavano a bordo, ed ognuna di esse aveva pagato un dollaro come prezzo del viaggio fino a St. Louis. La traversata era tutto ciò a cui avevano diritto; mangiavano il cibo che portavano a bordo con sé, ed i più fortunati trovavano un cantuccio per dormire sul ponte. Si trattava in massima parte di forestieri, irlandesi, svedesi ed olandesi grandi e grossi, tutti quanti a sbraitare l’uno all’altro in lingue che Marsh non comprendeva, a bere, bestemmiare e dar legnate ai propri figli. Laggiù vi si trovavano pure cacciatori di pelli e lavoranti comuni, troppo poveri per permettersi qualcosa di meglio del passaggio sul ponte alle tariffe di Marsh.

I passeggeri delle cabine aveva pagato dieci dollari tondi tondi, o almeno tanto era costato il biglietto a coloro che compivano l’intero tragitto fino a St. Louis. Quasi tutte le cabine erano state occupate, nonostante l’esosità del prezzo. Il commissario disse a Marsh che avevano a bordo centosettantasette passeggeri di prima classe, ed il numero parve a Marsh di buon auspicio, vista la presenza di tutti quei sette. L’elenco degli imbarcati comprendeva una dozzina di piantatori, il capo di una grande ditta di St. Louis specializzata nella vendita e lavorazione di pellicce, due banchieri, un ricco inglese con le sue tre figlie e quattro suore dirette nell’Iowa. C’era anche un pastore a bordo, ma ciò non costituiva alcun problema visto che non trasportavano giumente grigie; tra la gente del fiume tutti sapevano bene che avere a bordo un pastore ed una cavalla grigia era un invito al disastro.

Quanto all’equipaggio, Marsh ne era pienamente soddisfatto. I due piloti, behr quelli non erano niente di speciale, ma erano stati assunti solo temporaneamente per portare il battello fino a St. Louis. Essi lavoravano sul Fiume Ohio e il Fevre Dream era destinato al traffico di New Orleans. Il Capitano aveva già spedito delle lettere a St. Louis ed a New Orleans, sicché una coppia di valenti piloti del basso Mississippi attendeva l’arrivo del Fevre Dream giù al Planters’ House. Il resto della ciurma, invece, era di ottimo livello e di questo Marsh ne era sicuro. Il primo macchinista era Whitey Blake, un ometto focoso le cui imponenti basette bianche erano sempre insozzate da qualche macchia di grasso dei motori. Whitey era stato con Abner Marsh sull’Ely Reynolds e successivamente sull’Elizabeth A. e sul Sweet Fevre, e non esisteva un altro macchinista che conoscesse un motore a vapore meglio di lui.

Jonathan Jeffers, il commissario di bordo, portava gli occhiali con la montatura in oro e i capelli castani impomatati e pettinati all’indietro. Portava anche eleganti ghette con i bottoni. Però, nel far calcoli e far quadrar le cifre era un vero terrore, non dimenticava mai nulla, non faceva mai un cattivo affare e non perdeva mai agli scacchi. Jeffers aveva lavorato nell’ufficio amministrativo della linea di navigazione di Marsh finché il Capitano non lo aveva chiamato sul Fevre Dream. Non se l’era fatto chiedere due volte. Oltre la facciata, dietro quella parvenza da damerino, Jeffers era un uomo del fiume fin nel profondo della sua cupa anima di contabile. Portava anche un bastone da passeggio con l’impugnatura d’oro.

Il cuoco era un uomo di colore, libero, di nome Toby Lanyard. Lavorava per Marsh da quattordici anni, sin da quando il Capitano aveva personalmente sperimentato la sua abilità culinaria giù a Natchez, lo aveva comprato e lo aveva reso libero.

E il capitano in seconda — che si chiamava Michael Theodore Dunne ma che tutti avevano sempre chiamato Mike il Peloso, tranne gli scaricatori che lo chiamavano Mister Dunne Sir — era uno dei più corpacciuti, irascibili e caparbi uomini di tutto il Mississippi. Superava di una buona misura il metro e ottanta di altezza; aveva gli occhi verdi, le basette nere ed una folta peluria nera e ricciuta che gli ricopriva le braccia, le gambe ed il petto. Era indicibilmente sboccato e di temperamento collerico, e non andava mai in nessun posto senza la sua spranga di ferro lunga un metro. Abner Marsh non lo aveva mai visto percuotere nessuno con quella spranga, tranne una volta o due, ma la teneva sempre stretta in una mano, e tra gli scaricatori correva voce che una volta aveva spaccato la testa ad un uomo che aveva fatto cadere nel fiume una botte di brandy. Era un uomo duro, tutto d’un pezzo, e nessuno faceva cadere niente quando c’era lui di guardia. Tutti tra la gente del fiume nutrivano un timoroso rispetto per Mike Dunne detto il Peloso.

Non c’è che dire, formavano un equipaggio decisamente in regola, quegli uomini del Fevre Dream. Fin da primo giorno, ognuno fece il suo lavoro, e così, quando ormai tutte le stelle brillavano nel cielo di New Albany, le merci e i passeggeri erano a bordo e registrati nei documenti, il vapore era alto ed i forni ruggivano e fiammeggiavano di una terribile luce vermiglia, e da essi si irradiava un calore così intenso che sul ponte di coperta faceva più caldo che a Natchez-sotto-la collina in una notte serena, ed un buon pasto si stava preparando nella cucina. Abner Marsh controllò ogni cosa, e quando fu soddisfatto salì sul ponte di comando, lassù, dove la cabina di pilotaggio troneggiava nobile e splendente al di sopra del caos e dello strepito che imperversavano di sotto. «Fallo uscire,» disse al pilota. E il pilota ordinò che aumentassero il vapore e manovrò il timone dirigendo all’indietro le due grandi ruote laterali. Abner Marsh si tenne rispettosamente alle sue spalle, e il Fevre Dream uscì dal porto, scivolando dolcemente sulle nere acque dell’Ohio rischiarato dalle stelle.

Una volta al largo, il pilota invertì il moto delle ruote e diresse il battello a valle, seguendo il corso della corrente. Ed il grande Fevre Dream vibrò un poco e scivolò nel canale principale senza il minimo intoppo. Le ruote cantavano il loro allegro chunkachunka mentre scuotevano ed intorbidavano l’acqua, e il battello procedeva via via più veloce, sospinto dalla forza della corrente che si sommava all’energia del vapore. Il battello scintillava e correva, rapido come il sogno di un battelliere, lesto come il peccato, veloce come l’Eclipse. Due lunghi strascichi di fumo nero si levavano dai fumaioli innalzandosi sulle loro teste, e nuvole di scintille guizzavano e svanivano dietro di essi, calando sul fiume per morirvi come tante lucciole rosse e arancione. Agli occhi di Abner Marsh, quella scia di fumo, vapore e scintille che si lasciavano dietro era qualcosa di gran lunga più strabiliante e spettacolare di tutti i fuochi d’artificio che aveva visto a Louisville per la Festa del 4 luglio. Il pilota sollevò una mano e tirò la sirena, ed il lungo strido li assordò; quel fischio stridulo e penetrante era meraviglioso, melanconico e inquietante come un lamento funebre, potente e roboante da essere udito per miglia e miglia.

Non prima che le luci di Louisville e New Albany disparvero dietro di loro e il Fevre Dream si spinse tra le rive nere e desolate, spoglie come lo erano state cent’anni prima, il Capitano Abner Marsh s’accorse che Joshua York era salito alla timoniera ed era in piedi al suo fianco.

Si era messo in pompa magna per l’occasione. Indossava pantaloni e marsina del bianco più puro, e sotto faceva spicco un gilet blu notte sopra una camicia bianca piena di gale e pizzi, la cravatta era di seta blu. La catena dell’orologio che si allungava trasversalmente sul gilet era d’argento, ed un grande anello, anch’esso d’argento e incastonato con una fulgida gemma blu, riluceva sopra una pallida mano. Bianco, blu e argento; questi erano i colori del battello, e York sembrava parte integrante di esso. La cabina di pilotaggio aveva sfarzose tende di tessuto bianco e argentato, ed il grande divano imbottito sistemato verso il fondo della cabina era blu, come lo era il telo d’incerato. «Ehi, vi siete messo in ghingheri. Mi piace la vostra tenuta, Joshua,» gli disse Marsh.

York sorrise. «Grazie,» disse. «Mi sembrava adatta. Anche voi siete strepitoso.» Marsh si era comprato una nuova giacca da timoniere con due file di scintillanti bottoni d’ottone, ed un berretto con il nome del battello ricamato con filo d’argento.

«Già,» fece Marsh. Non aveva una grande dimestichezza con i complimenti; imprecare gli riusciva più facile e più congeniale. «Ebbene,» disse «vi eravate alzato quando siamo partiti?» York aveva trascorso buona parte della giornata a dormire nella cabina del capitano a lui riservata, mentre Marsh sudava, si preoccupava e svolgeva la maggior parte delle mansioni che di fatto toccavano ad un capitano. Pian piano Marsh aveva finito con l’abituarsi al modo in cui York e i suoi compagni passavano svegli le notti e dormivano durante il giorno. Aveva conosciuto altri che si comportavano nella stessa maniera, e l’unica volta che aveva chiesto a York qualcosa in proposito, Joshua si era limitato a sorridere e a recitargli nuovamente quei versi sullo ‘sfarzoso giorno’.

«Ero sul ponte di passeggiata, davanti ai fumaioli, ho visto tutto. Faceva fresco lassù, quando abbiamo iniziato la navigazione.»

«Un battello veloce produce il suo vento,» disse Marsh. «Non importa quanto sia calda la giornata o quanto viva sia la fiamma del legno che arde, lassù si sta sempre ben freschi. Talvolta mi dispiace un poco per quelli accalcati laggiù sul ponte di coperta, ma cosa diavolo potrebbero pretendere per un misero dollaro?»

«Naturalmente,» convenne Joshua York.

Proprio in quell’istante un rumore sordo si sentì da sotto lo scafo, un pesante thunk che fece scuotere il battello leggermente.

«Cos’è stato?» domandò York.

«Probabilmente abbiamo urtato un tronco,» rispose Marsh. «È così?» chiese al pilota.

«Lo abbiamo solo sfiorato,» replicò l’uomo. «Non temete, Capitano. Non c’è stato nessun danno.»

Abner Marsh annuì e tornò a rivolgersi a York. «Bene, che ne dite, York? Non sarà il caso di scendere nel salone? Brulicherà sicuramente di passeggeri curiosi di assistere a questa prima notte di navigazione. Potremmo conoscerne alcuni, scambiare qualche chiacchiera, assicurarci che sia tutto perfettamente in ordine.»

«Con grande piacere,» acconsentì York. «Ma prima, Abner, volete farmi compagnia nella mia cabina per un brindisi? Dobbiamo pur festeggiare la partenza, non vi pare?»

Marsh si strinse nelle spalle. «Un brindisi? Beh, non vedo perché no.» Si rivolse al timoniere sollevando appena il berretto. «Buonanotte, Mister Daly. Vi farò portare del caffè, se lo gradite.»

Uscirono dalla cabina di pilotaggio e ripararono nella cabina del capitano, fermandosi il tempo necessario a che York aprisse la serratura della porta — aveva insistito che la sua cabina, e di fatto tutto le cabine del battello, fossero munite di sicure serrature. Una simile richiesta era alquanto peculiare, ma Marsh era stato disponibile ad accontentarlo. Dopotutto, York non era avvezzo alla vita su di un battello, e la maggioranza delle sue altre richieste erano state abbastanza ragionevoli, come quella di addobbare il salone con tutto quell’argento e quegli specchi che ne facevano un posto di impareggiabile splendore.

La cabina di York era tre volte più lunga delle cabine riservate ai passeggeri e due volte più larga, sicché, rispetto alle misure standard, era decisamente immensa. Questa era la prima volta che Abner Marsh vi metteva piede da quando York ne aveva preso possesso, e così il Capitano si guardò intorno con curiosità. Un paio di lampade ad olio sistemate ai due lati opposti della cabina conferivano all’ambiente una luminosità calda e confortevole. Le ampie finestre di vetri colorati erano buie adesso, chiuse dalle imposte e protette da pesanti tende di velluto nero che alla luce delle lampade appariva ancor più ricco e soffice. In un angolo, un alto cassettone con una bacinella poggiata in cima, ed uno specchio a parete con la cornice d’argento; un letto di piume stretto ma comodo all’apparenza e due grandi poltrone di cuoio; addossata a una parete, una massiccia e spaziosa scrivania in legno di palissandro con un’infinità di cassetti, cassettini e scomparti di ogni dimensione. Affìssa sul muro al di sopra di essa, una pregiata mappa antica del fiume Mississippi con tutto il suo ricco sistema di affluenti. Il piano della scrivania era coperto da album con la rilegatura in cuoio e da pile e pile di giornali. Ecco un’altra delle peculiarità di Joshua York: leggeva un numero spropositato di giornali, provenienti dai luoghi più disparati — giornali pubblicati in Inghilterra, gazzette in lingue straniere, naturalmente il Tribune di Mr. Greeley e l’Herald di New York, pressoché tutti quanti i giornali che circolavano a St. Louis e a New Orleans, ed ogni sorta di settimanali pubblicati nelle piccole cittadine fluviali. Tutti i giorni gli venivano consegnati pacchi di giornali. E libri, anche; un’alta libreria si trovava nella cabina, ed era straboccante di volumi; altri ancora erano affastellati sul tavolino presso il letto, con una candela da lettura mezza sciolta in cima alla torre di carta.

Tuttavia, Abner Marsh non sprecò tempo soffermandosi a guardare i libri. Proprio accanto alla libreria c’era una rastrelliera di legno con venti o trenta bottiglie di vino ordinatamente disposte negli appositi alloggiamenti. Fu lì che Marsh andò difilato e tirò fuori una bottiglia. Non vi era apposta nessuna etichetta, ed il liquido che vi era contenuto era di un rosso assai cupo, tanto scuro da esser quasi nero. Un sigillo di scintillante cera nera rivestiva il sughero. «Avete un coltello?» chiese a York, voltandosi verso di lui con la bottiglia in mano.

«Dubito che gradireste quell’annata, Abner,» disse York. Sorreggeva un vassoio con due calici d’argento ed una caraffa di cristallo. «Ho qui dell’ottimo sherry. Perché non bevete questo invece?»

Marsh esitò. Solitamente lo sherry di York era delizioso, e gli doleva rinunciarvi, ma conoscendo Joshua immaginò che un vino proveniente da una sua riserva privata così gelosamente custodita doveva essere qualcosa di superlativo. Inoltre, il Capitano era curioso. Passò la bottiglia da una mano all’altra. Il liquido fluì lentamente, scivolando languido come un liquore dolce e denso. «Che cos’è, comunque?» domandò Marsh, accigliandosi.

«Una miscela casalinga,» replicò York. «Parte vino, parte brandy e parte liquore, senza avere il sapore di alcuno di questi. Una bevanda rara, Abner. Io e miei compagni coltiviamo una vera e propria passione per essa, ma la maggior parte delle persone non la trova di suo gusto. Sono sicuro che preferireste lo sherry.»

«Ebbene,» disse Marsh, sollevando la bottiglia, «tutto ciò che bevete voi, probabilmente va bene anche per me, Joshua. Comunque, il vostro sherry è davvero insuperabile, questo è vero.» Il volto gli si schiarì. «Facciamo una cosa, visto che non abbiamo nessuna fretta, ed io ho una sete che mi divora, perché non li proviamo tutti e due?»

Joshua scoppiò a ridere; un riso di genuina e spontanea allegria, profondo e musicale. «Abner,» disse, «voi siete unico, assolutamente formidabile. Mi piacete. A voi, però, la mia bevanda non piacerà. Tuttavia, se proprio insistete, berremo tutt’e due.»

Si accomodarono sulle poltrone di pelle e York depose il vassoio sul basso tavolino posto tra esse. Marsh gli porse la bottiglia di vino, o di cos’altro fosse. Da qualche dove, tra i recessi delle pieghe immacolate del suo abito bianco, York tirò fuori un sottilissimo coltellino col manico d’avorio ed una lunga lama d’argento. Con un netto fendente tagliò via la cera e con un singolo, agilissimo movimento infilzò il sughero che estrasse con un sonoro schiocco. Il liquore si riversò lentamente, defluendo come miele rosso-nero nei calici d’argento. Era opaco, e pareva intorbidito da minuscole particelle nere. Ma forte; Marsh sollevò il calice ed annusò, e l’alcol gli fece lacrimare gli occhi.

«Brindiamo,» disse York, ed alzò il suo calice.

«A tutti i quattrini che intascheremo,» scherzò Marsh.

«No,» disse York con espressione severa. Ed a Marsh parve che un’austera melanconia avvolgesse quegli occhi grigi di demonio. Si augurò di tutto cuore che York non stesse per sciorinargli ancora della poesia. «Abner,» continuò Yoshua, «so cosa significhi per voi il Fevre Dream. Voglio che sappiate che esso significa molto anche per me. Questo giorno è per me l’inizio di una nuova vita, una vita grandiosa. Io e voi, insieme, abbiamo creato questo gioiello così com’è, e proseguiremo con la nostra opera facendo del Fevre Dream una leggenda. Io ho sempre ammirato la bellezza, Abner, ma questa è la prima volta nella mia lunga vita che sono io a crearla, o che comunque abbia contribuito alla creazione di qualcosa di così bello. Donare al mondo qualcosa di nuovo e di bello è una sensazione meravigliosa. Particolarmente per me. E devo renderne grazie a voi per questo.» Sollevò il calice. «Brindiamo al Fevre Dream ed a tutto ciò che rappresenta, amico mio — la bellezza, la libertà, la speranza. Al nostro battello e ad un mondo migliore!»

«Al battello più veloce del Mississippi!» ribatté Marsh, e bevvero. Il Capitano si sentì soffocare e mancò poco che vomitasse. Il liquore privato di York colò giù rovente come fuoco, bruciandogli la gola ed allungando caldi tentacoli fin dentro le budella, ma in esso c’era anche una sorta di nauseante dolcezza, ed uno sgradevole sentore che quella potente coalizione di forza e dolcezza non valeva a sopprimere. Un tanfo di marcio, come se qualcosa si fosse imputridito sul fondo della bottiglia — fu questa l’impressione che ne trasse Marsh.

Joshua York vuotò il suo calice in un’unica lunga sorsata, la testa reclinata all’indietro. Dopodiché, depose il bicchiere, posò gli occhi su Marsh e rise di nuovo. «Che faccia avete, Abner. Meravigliosamente grottesca. Non datevi pena di rispettare il galateo. Suvvia, prendete un po’ di sherry.»

«Sì, credo sia meglio,» rispose Marsh. «Credo proprio di sì.»

Più tardi, quando due bicchieri di sherry avevano nettato la bocca di Marsh dal retrogusto lasciato dal liquore di York, i due soci ripresero a conversare.

«Quale sarà il nostro prossimo passo dopo St. Louis, Abner?» chiese York.

«New Orleans. Non c’è altra rotta degna di un battello possente come il nostro.»

York scosse la testa con una certa impazienza. «Lo so questo, Abner. Ero curioso sul modo in cui intendete realizzare il vostro sogno di battere l’Eclipse. Lo inseguirete e gli lancerete una sfida? Io sono d’accordo, fintantoché non ci comporti dannosi ritardi o non ci porti fuori rotta.»

«Magari fosse così semplice, Joshua, ma purtroppo le cose non stanno così. Diavolo, ci sono migliaia di battelli sul fiume, e tutti vorrebbero battere l’Eclipse. Anche lui, come noi, ha delle tappe da rispettare, passeggeri e merci da trasportare. Non può mica mettersi a gareggiare ogni momento? Oltretutto, il suo capitano sarebbe uno stupido se accettasse una sfida da noi. Chi siamo noi dopotutto? Un battello sfornato fresco fresco dai cantieri di New Albany di cui nessuno ha mai sentito parlare. L’Eclipse avrebbe tutto da perdere e niente da guadagnare a gareggiare con noi.» Il Capitano Marsh vuotò un altro bicchiere di sherry e lo porse a York perché lo riempisse ancora. «No, prima dobbiamo farci un nome, costruirci una reputazione. Farci conoscere a valle e a monte come un battello veloce. Non passerà molto che la gente comincerà a parlare di quanto corra il Fevre Dream e si chiederà se potrebbe reggere al confronto con l’Eclipse. È possibile che lo incrociamo sul fiume un paio di volte, e non se ne farà niente. Aspettiamo prima che se ne parli in giro, e la gente comincerà a scommettere. Capiterà, magari, che faremo delle corse che compie anche l’Eclipse, e che batteremo il suo tempo. Il battello più veloce acquista più clienti, sapete. Piantatori, spedizionieri e simili vogliono che le loro merci raggiungano i mercati il più presto possibile, perciò si affidano al battello che corre di più. Quanto ai passeggeri poi, oh quelli vanno pazzi per viaggiare su di un battello famoso se se lo possono permettere, beninteso. Così, va a finire che dopo un po’ di tempo la gente comincia a pensare che il nostro battello è il più veloce del basso Mississippi ed il traffico di merci favorisce noi per le spedizioni. Risultato: l’Eclipse viene ferito dove più conta: nella borsa. Allora vedrete come sarà facile organizzare una corsa, per appurare una volta per tutte chi è il più veloce.»

«Capisco,» disse York. «Questa puntata a St. Louis serve dunque per cominciare a costruire la nostra reputazione?»

«Beh, non avrei intenzione di segnare un tempo da primato. Il battello è nuovo, e ha bisogno di essere rodato. A bordo non abbiamo neppure i nostri piloti regolari, nessuno ha ancora dimestichezza nel manovrarlo, e dobbiamo dare a Whitey il tempo di scoprire ogni possibile problemuccio con i motori; anche i fuochisti devono allenarsi per bene.» Marsh mise giù il bicchiere vuoto. «Ovviamente, non è detto che non si possa esordire diversamente,» disse, sorridendo. «Qualcosina in mente ce l’avrei già. Vedrete.»

«Bene,» disse Joshua York. «Dell’altro sherry?»

«No,» disse Marsh. «Adesso credo proprio che dovremmo scendere nel salone. Vi offrirò da bere al nostro bar. E vi garantisco che ciò che berrete avrà un sapore migliore di quel vostro liquore del diavolo.»

York sorrise. «Sarà un piacere,» disse.

Per Abner Marsh quella notte non fu come le altre. Fu una notte magica, un sogno. Sembrò durare quaranta, cinquanta ore, ci avrebbe giurato, e ciascuna di quelle ore fu di valore inestimabile. Lui e York rimasero svegli fino all’alba, a bere e conversare senza posa, errando in quel prodigio di battello che avevano costruito. Il giorno seguente, Marsh si svegliò con la testa così in disordine da rammentare a stento metà di ciò che aveva fatto la notte prima. Ma taluni momenti s’impressero, indelebili, nella sua memoria. Ricordò quando era entrato nel salone, ed era stato più emozionante che entrare nell’albergo più bello del mondo. I lampadari sfavillavano del fulgore delle lampade e dello scintillio dei prismi di cristallo. Gli specchi facevano apparire la lunga sala due volte più larga di quanto lo fosse in realtà. Una folla era radunata intorno al bar, a chiacchierare di politica e di altri argomenti, e Marsh si unì ad essa per un po’ ascoltando coloro che si lamentavano contro i proibizionisti e s’infervoravano sull’opportunità di affidare la carica di presidente a Stephen A. Douglas. York, invece, salutò Smith e Brown seduti ad uno dei tavoli, impegnati in una partita a carte con alcuni piantatori ed un noto giocatore. Qualcuno stava suonando il pianoforte a coda, mentre le porte delle cabine si aprivano e si chiudevano continuamente, ed il tutto era raggiante di luci e risa.

Più tardi scesero sul ponte di coperta, in un mondo completamente diverso; merci accatastate ovunque, scaricatori e manovali addormentati su rotoli di funi e sacchi di zucchero, una famiglia raccolta intorno ad un fuocherello acceso per cuocervi qualcosa da mangiare, un ubriaco privo di sensi sotto la scala. La sala macchine era satura e rutilante del bagliore infernale che si sprigionava dalle bocche dei forni, e Whitey stava in mezzo a tutto questo, con la camicia intrisa di sudore con la barba bisunta, e si spolmonava nel lanciare comandi ai fuochisti perché lo udissero tra i sibili del vapore ed il chunkachunka delle ruote che smuovevano l’acqua come una zangola. Le bielle incutevano un rispettoso timore, con i loro colpi lunghi e possenti che si succedevano in un incessante andirivieni. Restarono qualche minuto a guardare, lui e York, finché il calore ed il puzzo dell’olio dei motori non superò la soglia della loro tollerabilità.

Tascorso un po’ di tempo si trovarono sul ponte di passeggiata, a passarsi una bottiglia vicendevolmente, passeggiando e conversando sotto la fresca sferza del vento, il loro vento, quel vento che la sola forza del battello faceva levare. Sopra di loro le stelle brillavano come i diamanti di una bella dama, la bandiera del Fevre Dream sventolava su entrambi i pennoni anteriore e posteriore, ed il fiume intorno era più nero dello schiavo più nero che Marsh avesse mai veduto.

Viaggiarono tutta la notte, con Daly di turno nella timoniera che li faceva scivolare sull’acqua ad un’andatura sostenuta — nulla, però, al confronto di ciò che il Fevre Dream avrebbe potuto fare se costretto, e Marsh lo sapeva bene. Scivolavano sulle acque del buio Ohio, circondati dal nulla. La navigazione procedette senza intoppi: nessun tronco, nessuno spuntone roccioso, nessuna secca ad insidiare il loro viaggio. Solo due volte dovettero mandare una iole davanti a loro per scandagliare il fondale, ed in tutte e due le occasioni, calata la sagola, trovarono l’acqua buona, ed il Fevre Dream proseguì indisturbato. Poche case s’intravedevano sulla sponda, per lo più buie e con le imposte chiuse per la notte, ma ne scorsero una in cui la luce brillava intensa ad un’alta finestra. Marsh si domandò chi fosse sveglio lassù, e cosa pensasse nel vedere il battello passare. Doveva essere bello il Fevre Dream visto di lassù, con tutti i ponti illuminati e la musica e le risa che si effondevano dalle finestre, fluttuando sull’acqua, le scintille ed il fumo sulle cime dei fumaioli, ed il suo nome, Fevre Dream, dipinto in enormi lettere blu, riccamente arabescate e incorniciate d’argento. Marsh desiderò quasi di poter essere sulla riva per godersi quella vista.

La grande emozione di quella prima notte a bordo giunse poco prima di mezzanotte, quando avvistarono per la prima volta un altro battello che smuoveva le calme acque dell’Ohio procedendo davanti a loro. Quando Marsh lo vide, prese York per un gomito e lo condusse su alla cabina di pilotaggio, che scoprirono affollata. Daly era ancora al timone e beveva caffè, altri due piloti e tre passeggeri stavano seduti sul divano alle sue spalle. I piloti non erano al servizio di Marsh, ma era costume del fiume che i timonieri viaggiassero gratis se lo desideravano, e di solito prediligevano la cabina di pilotaggio per scambiare qualche chiacchiera con l’uomo al timone e tenersi aggiornati sulle novità che riservava il fiume. Marsh li ignorò. «Mister Daly,» disse al suo pilota, «c’è un battello davanti a noi.»

«Lo vedo, Capitano Marsh,» replicò Daly con un sorriso laconico.

«Mi chiedo quale legno sia. Ne avete un’idea, Daly?»

Quale che fosse, il battello non era gran cosa; un tarchiato vapore con la ruota poppiera ed una timoniera quadrata come un macinino.

«Certo che no,» rispose il pilota.

Abner Marsh si rivolse a Joshua York. «Joshua,» disse, «voi siete il vero comandante, ed io non voglio darvi troppi suggerimenti. Ma la verità è che sono terribilmente curioso di sapere qual è quel battello davanti a noi. Perché non dite a Daly di raggiungerlo, così che possa rilassarmi un pochino, eh?»

York sorrise. «Certamente,» disse. «Mister Daly, avete sentito il Capitano Marsh. Pensate che il Fevre Dream sia in grado di raggiungere quel battello davanti a noi?»

«Il Fevre Dream può raggiungere qualsiasi battello,» disse il pilota. Domandò al macchinista, giù sul ponte di manovra, che aumentasse il vapore e tirò nuovamente la sirena. Il lamento selvaggio, cupo come l’urlo spettrale di uno spirito presago di morte, echeggiò sul fiume, quasi volesse avvertire il battello lì davanti che il Fevre Dream stava arrivando dietro di lui.

Il clamore della sirena bastò ad evacuare il salone dei passeggeri che si riversarono in massa sul ponte. Persino i passeggeri da un dollaro si levarono dai loro giacigli di sacchi di farina. Un paio salirono sul ponte di comando e tentarono di entrare nella cabina di pilotaggio, ma Marsh li rispedì di sotto, insieme agli altri tre che vi aveva trovato. Com’era prevedibile, tutti gli spettatori si precipitarono verso la parte anteriore del battello, per sciamare successivamente verso babordo, quando fu palese che quello sarebbe stato il lato col quale avrebbero affiancato e superato il battello. «Maledetti passeggeri,» mugugnò Marsh rivolgendosi a York. «Riescono sempre a sbilanciare un battello. Uno di questi giorni correranno tutti sullo stesso lato e faranno capovolgere qualche povero battello, ci giurerei.»

Malgrado le lamentele, Marsh era all’apice della felicità. Whitey, dabbasso, gettava più legno nelle bocche dei forni ed essi ruggivano, e le grandi ruote si muovevano più veloci, sempre più veloci. Tutto avvenne in un lampo. Il Fevre Dream parve divorare le miglia che lo separavano dall’altro battello, e mentre lo sorpassava una clamorosa acclamazione esplose dai ponti sottostanti: dolce musica per le orecchie di Marsh.

Nel passare accanto alla murata del piccolo battello, York lesse il suo nome sulla timoniera. «Sembra si tratti del Mary Kaye,» disse.

«Ah! Tant’acqua per bollirci un uovo!» esclamò Marsh.

«È un battello famoso?» chiese York.

«No, figuriamoci,» disse Marsh. «Mai sentito nominare. L’avreste mai detto?» Al che proruppe in una risata fragorosa e diede a York poderose pacche sulla spalla. Di lì a poco tutti nella cabina di pilotaggio scoppiarono a ridere.

Prima dell’alba, il Fevre Dream aveva raggiungo e superato mezza dozzina di battelli, compreso un vapore con le ruote laterali grande quasi quanto lui, ma non fu mai così emozionante come lo era stato la prima volta, quando avevano sorpassato il Mary Kaye. «Volevate sapere come avremmo cominciato,» disse Marsh a York mentre si allontanavano dalla cabina di pilotaggio. «Ebbene, Joshua, è cominciato.»

«Sì,» disse York, lanciando un’occhiata dietro di loro, dove il Mary Kaye stava diventando un punto lontano. «È cominciato davvero.»

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