CAPITOLO VENTICINQUESIMO

A bordo dell’Eli Reynolds
FIUME MISSISSIPPI
Ottobre 1857

Abner Marsh stava guardando fuori dalla cabina di pilotaggio dell’Eli Reynolds, quando il Fevre Dream iniziò a tagliare il fiume. Batté il bastone con forza e bestemmiò, ma, nel suo intimo, non sapeva se essere deluso oppure sollevato. Sapeva benissimo che vedere la sua creatura fracassarsi su quella dannata secca gli avrebbe spezzato il cuore. D’altronde, in quel momento il Fevre Dream era ancora dietro di loro, e se avesse raggiunto il Reynolds, non c’era alcun dubbio che sarebbe stato Damon Julian a strappargli il cuore. In un modo o nell’altro, quella sembrava una partita persa. Marsh rimase lì, accigliato, mentre il pilota dell’Eli Reynolds fece ruotare il timone e iniziò anch’egli a tagliare il fiume. Sempre al loro inseguimento attraverso l’oscurità, il Fevre Dream costituiva una visione spaventosa. Marsh l’aveva costruita affinché eguagliasse in velocità l’Eclipse, affinché fosse la nave più veloce mai andata a vapore, ed ora doveva superarla con una delle più vecchie e più misere navi del fiume. «Non possiamo farci nulla,» disse ad alta voce, voltandosi verso il pilota. «Questa è una gara. Fate in modo che non ci raggiungano.» L’uomo lo guardò come se fosse pazzo, e forse lo era davvero. Abner Marsh scese sul ponte di coperta per vedere cosa poteva fare. Cat Grove e il primo ufficiale di macchina, Doc Turney, stavano già facendo tutto il possibile. Il ponte era inondato dal calore. La fornace ruggiva e crepitava, e lingue di fiamma ne lambivano la bocca e talvolta ne fuoriuscivano, non appena i fuochisti gettavano dentro legna fresca. Grove aveva radunato là tutti i suoi magazzinieri, i quali stavano sudando per alimentare quelle fauci rosso arancio, e per ricoprire i tronchi di pino e di faggio con il lardo prima di gettarli dentro la fornace. Grove girava tra gli uomini con un secchio di whiskey ed un grande mestolo di rame, cosicché essi potessero bere a turno, prendendosi delle pause il più brevi possibile. Il sudore colava dal suo petto nudo in rivoli, e come i magazzinieri, il suo viso era rosso a causa del terribile calore. Era difficile capire come potessero sopportarlo, ma la fornace veniva alimentata continuamente.

Doc Turney teneva d’occhio le lancette del manometro che indicava la pressione della caldaia. Marsh si avvicinò e vi lanciò anche lui un’occhiata. La pressione aumentava sempre più. L’ufficiale di macchina lo guardò. «Non abbiamo mai raggiunto una pressione così alta, nei quattro anni che sono stato su questa nave,» urlò. Bisognava urlare per farsi sentire, urlare più forte dello sfrigolio e del tossire della fornace, del sibilo del vapore, del battito del motore. Marsh allungò una mano con cautela, la ritirò immediatamente. La caldaia era troppo calda per essere toccata. «Come farò con la valvola di sicurezza, Capitano?» chiese Turney.

«La disenserisca,» gridò Marsh. «Abbiamo bisogno di vapore, signore.»

Turney aggrottò la fronte e fece come gli era stato ordinato. Marsh osservò la lancetta; l’ago saliva costantemente. Il vapore praticamente usciva urlando attraverso i tubi, ma lo sforzo stava dando i suoi frutti: il motore fremeva e picchiava come se stesse per andare in pezzi, e la ruota stava girando, più veloce di quanto avesse fatto in quegli anni, whapwhapwhapwhap, così in fretta che si lasciava dietro una scia di schiuma spumosa, e l’intera nave vibrava, avanzando ad una velocità che non aveva mai raggiunto in precedenza.

L’ufficiale di macchina in seconda e i macchinisti stavano danzando intorno ai motori, oliando e ingrassando, per mantenere regolare il tempo. Sembravano delle scimmiette ricoperte di catrame. Si muovevano anche svelti come scimmie. Dovevano farlo. Non era facile ingrassare delle parti in movimento, specialmente al ritmo a cui si stava muovendo il vecchio motore dentato del Reynolds. «PIÙ IN FRETTA!» ruggiva Grove. «Più in fretta con quel lardo!» Un grosso fuochista dai capelli rossi si allontanò barcollando dalla bocca della fornace, stordito dal calore. Cadde sulle ginocchia, ma un altro prese immediatamente il suo posto, e Grove raggiunse l’uomo caduto e gli versò un mestolo di whiskey sulla testa. L’uomo alzò la testa, bagnato, ammiccò, aprì la bocca, e l’ufficiale gli versò dell’altro alcool giù per le budella. In un istante fu di nuovo in piedi, a spalmare lardo sui tronchi di pino.

L’ufficiale di macchina fece una smorfia e aprì i tubi di fuoriuscita, scaricando il vapore surriscaldato che si disperse sibilando nella notte, e facendo calare un po’ la pressione della caldaia. Poi ricominciò a farla aumentare. Lo saldature su alcuni tubi si stavano fondendo, ma c’erano uomini pronti a rappezzare ogni buco. Marsh era immerso nel sudore provocato dal caldo umido del vapore e da quello secco emanato della furia della fornace. Tutti quelli che gli stavano intorno correvano, urlavano, si passavano legna e lardo, alimentavano la fornace, sorvegliavano la caldaia e i motori. Il motore e la ruota facevano un terribile fracasso, le fiamme della fornace li avvolgevano tutti in una mutevole luce rossa. Era un inferno di sudore, un inferno di frastuono, attività, fumo, vapore e pericolo. Il battello si scuoteva, gemeva e tremava come un uomo che stesse per avere un collasso o stesse per morire. Ma si muoveva, e laggiù non c’era niente che Abner Marsh potesse dire o fare per farlo andare più veloce.

Uscì fuori sul castelletto con sollievo, via da quell’orribile calore, con la giacca, la camicia e i pantaloni bagnati come se fosse caduto nel fiume. Il vento gli soffiò intorno, e per un istante provò una meravigliosa sensazione di fresco. In lontananza, vide un’isola che divideva in due il fiume, e una luce alle sue spalle, sulla riva occidentale. Si stavano muovendo verso di essa a grande velocità. «Dannazione,» esclamò Marsh. «Di sicuro stiamo filando a venti miglia all’ora. Per l’inferno, forse addirittura trenta» disse ad alta voce, quasi gridandolo, come se il tuonare della sua voce lo rendesse verosimile. L’Eli Reynolds era una nave che al massimo arrivava a otto miglia all’ora. Naturalmente, in quel momento avevano la corrente a favore. Marsh si lanciò su per la scala, attraversò il salone, arrivò sul ponte di passeggiata, da dove poté gettare un’occhiata a poppa. Le sommità dei corti e tozzi fumaioli stavano vomitando scintille dappertutto e lasciavano dietro di sé scie di fuoco, e Marsh vide il vapore uscire ribollendo dalle bocche dei tubi, non appena Doc Turney li aprì di quel tanto che bastava ad impedire alla dannata caldaia di esplodere e di spedirli tutti all’inferno. Il ponte si muoveva sotto i piedi di Marsh, come la pelle di un qualche essere vivente. La ruota di poppa stava girando così rapidamente che sollevava un dannato muro d’acqua, simile ad una cascata, dall’alto verso il basso. E dietro di loro c’era il Fevre Dream, semi oscurato, con il fumo e il fuoco eruttati dai neri ed alti fumaioli che si levavano a sfiorare la luna. Sembrava che si fosse avvicinato di venti metri, da quando Marsh era sceso di sotto. Il Capitano Yoerger gli si avvicinò. «Non possiamo tenerle testa,» disse nel suo tono stanco e grigio. «Abbiamo bisogno di più vapore! Più calore! La ruota non può non girare più velocemente, Capitano Marsh. Se Doc starnutisce nel momento sbagliato, la caldaia scoppia e ci uccide tutti. Il motore ha sette anni, andrà in pezzi. Il lardo poi sta finendo. Quando sarà finito, l’alimenteremo solo con la legna. Questa è una vecchia barca, Capitano, una vecchia signora ormai. Voi l’avete fatta danzare come nella notte delle sue nozze, ma non potrà sopportarlo a lungo.»

«Dannazione,» esclamò Marsh. Si girò a guardare indietro. Il Fevre Dream si avvicinava sempre più. «Dannazione,» ripeté. Yoerger aveva ragione, lo sapeva. Marsh guardò in avanti. Stavano puntando sull’isola. Il fiume, ed il canale centrale, curvavano verso est. La biforcazione occidentale era un braccio, ma uno minore. Perfino a quella distanza poteva vedere quanto fosse stretto, come gli alberi incombessero sulle sue sponde, ricoprendolo con le loro sagome nere e nodose. Ritornò alla cabina di pilotaggio ed entrò. «Imbocca il braccio occidentale,» disse al pilota. Il pilota lo guardò stupefatto. Sul fiume, era il pilota a prendere decisioni del genere. Il capitano forse poteva dare qualche suggerimento, ma non dava ordini.

«Nossignore,» replicò il pilota, meno furiosamente di quanto avrebbe fatto un uomo più anziano. «Guardate le sponde, capitano Marsh. Il fiume si restringe, io conosco quei bracci, non sono navigabili in questo periodo dell’anno, se porto la nave lì dentro ci resteremo sopra fino alle piene di primavera.»

«Forse è così, ma se non ci passiamo noi, allora nessuna potenza infernale vi farà passare il Fevre Dream. Dunque, dovrà fare il giro. E lo semineremo. In questo momento, seminarlo è una cosa più importante di qualsiasi tronco d’albero o secca in cui possiamo imbatterci, mi capite?»

Il pilota aggrottò la fronte. «Non avete alcuna competenza per dirmi come devo pilotare su questo fiume, Capitano. Io ho la mia reputazione, finora non ho mai fatto naufragare una nave e non ho intenzione di cominciare questa notte. Resteremo sul fiume.»

Abner Marsh si sentì ribollire. Si voltò a guardare indietro. Il Fevre Dream era a circa cento metri dietro di loro, e acquistava velocità. «Dannato stupido,» disse Marsh. «Questa è la gara più importante che sia mai stata condotta su questo fiume, e io ho uno stupido per pilota. Ci avrebbero già raggiunti se avessero avuto al timone il signor Framm o se avessero un ufficiale in seconda che sapesse come guidarlo. Probabilmente lo stanno alimentando con arbusti di cotone.» Puntò il suo bastone verso il Fevre Dream. «Ma guardate, per quanto lentamente stia andando, ci raggiungerà dannatamente presto, a meno che non dimostriamo una maggiore perizia nel pilotaggio. Mi sentite? Imboccate quel dannato braccio del fiume

«Potrei denunciarvi alla mia associazione,» replicò rigidamente il pilota.

«Potrei gettarvi fuoribordo,» esclamò Abner Marsh. Avanzò minaccioso.

«Calate una scialuppa, Capitano,» suggerì il pilota. «Scandaglieremo il fondo e vedremo se il battello può passare.»

Abner Marsh sbuffò disgustato. «Levati di mezzo,» disse, strattonando rudemente il pilota. L’uomo inciampò e cadde. Marsh s’impadronì del timone, lo girò con forza tutto a babordo, e la prua dell’Eli Reynolds, per tutta risposta, virò. Il pilota imprecò e andò in collera. Marsh lo ignorò e si concentrò sulla manovra, fin quando il battello ebbe superato l’alta punta fangosa dell’isola, iniziando a percorrere il sinuoso braccio occidentale. Marsh si voltò a guardare indietro abbastanza a lungo per notare che il Fevre Dream — che adesso si trovava a sessanta metri scarsi — rallentava, si fermava, e incominciava ad indietreggiare furiosamente. Quando guardò di nuovo, il Fevre Dream stava iniziando a virare verso la diramazione orientale del fiume. Poi non ci fu più tempo per guardare poiché l’Eli Reynolds colpì qualcosa di duro, un grande tronco, almeno a giudicare dal suono che produsse. L’impatto fece stringere a Marsh i denti talmente forte che quasi si mozzò la lingua e dovette afferrarsi saldamente al timone per rimanere in piedi. Il pilota, che si era appena rialzato, ricadde di nuovo e gemette. La velocità stessa del battello gli permise di passare al di sopra dell’ostacolo, e Marsh lo intravide: un tronco d’albero nero ed enorme, semi sommerso. Seguì un orribile fracasso, uno stridio metallico e un rombo assordanti, e la nave tremò come se un folle gigante l’avesse afferrata e la stesse scuotendo, e poi ci fu un violento strappo e il terribile suono di legno che si frantuma in schegge, quando la ruota colpì il tronco.

«Dannazione!» imprecò il pilota, rimettendosi in piedi. «Datemi il timone!»

«Con piacere!» esclamò Abner Marsh, facendosi da parte. L’Eli Reynolds si era lasciato dietro il tronco secco e ora navigava privò di ogni controllo attraverso le acque basse del canale, scuotendosi tutto ogniqualvolta urtava in una secca. Ognuna di esse lo rallentava, e il pilota lo rallentava ancor più, facendo squillare i campanelli della sala macchine come un pazzo. «Fermo!» avvertì. «Fermate la ruota!» Quest’ultima girò lentamente ancora due volte e gemette nel fermarsi, e due alti e lunghi pennacchi di vapore bianco si elevarono sibilando dai tubi di scarico. L’Eli Reynolds perse la rotta e iniziò a beccheggiare un po’, e la ruota del timone girò liberamente tra le mani del pilota. «Abbiamo perso il timone,» disse, mentre il battello incappava in un’altra secca.

Fu quella che fece fermare del tutto la nave.

Questa volta Abner Marsh si morse davvero la lingua, quando incespicò in avanti, urtando contro il timone. Sottocoperta, qualcuno stava urlando. Sentì le grida mentre si tirava su e sputava una boccata di sangue. Provava un dolore infernale. Fortunatamente non si era reciso del tutto la lingua.

«Dannazione!» disse il pilota. «Guardate. Date solo un’occhiata.» Non soltanto l’Eli Reynolds aveva perso il timone, ma anche metà della ruota a pale. Era ancora attaccata al battello, ma pendeva sghemba, e metà delle pale di legno erano distrutte o mancanti. La nave scaricò ancora una volta vapore, gemette, e si adagiò nel fango, inclinandosi leggermente a babordo.

«Ve l’avevo detto che non potevamo entrare in questo braccio,» disse il pilota. «Ve l’avevo detto. In questo periodo dell’anno non è altro che sabbia e tronchi d’albero. Non è stata colpa mia e non permetterò che nessuno sostenga il contrario!»

«Chiudete quella stupida boccaccia,» disse Abner Marsh. Stava guardando a poppa, dove il fiume era ancora a malapena visibile attraverso gli alberi. Il fiume sembrava deserto. Forse il Fevre Dream se n’era andato. Forse. «Quanto tempo ci vuole per uscire da questo buco?» chiese Marsh al pilota.

«Dannazione, ma cosa diavolo ve ne importa? Non andremo da nessuna parte fino a primavera. Avrete bisogno di un nuovo timone, di una nuova ruota, e di una buona piena per disincagliare il battello da questa secca.»

«Quanto tempo ci vorrà per uscire dal canale?» insisté Marsh. Il pilota borbottò, «Trenta minuti, forse venti, se il battello andasse alla velocità di poco fa, ma perché vi importa? Vi dico che…» Abner Marsh aprì di scatto la porta della cabina di pilotaggio e chiamò a gran voce il Capitano Yoerger. Dovette chiamare tre volte, e passarono almeno cinque minuti prima che Yoerger comparisse. «Scusate Capitano, era dabbasso, sul ponte di coperta. Irish Tommy e Big Johanssen si sono ustionati in maniera grave.» Vide ciò che rimaneva della ruota e si interruppe. «Mia povera vecchia ragazza,» mormorò con tono abbattuto.

«Alcuni tubi sono scoppiati?» chiese Marsh.

«Molti,» ammise Yoerger, distogliendo lo sguardo dalla ruota a pale danneggiata. «C’è vapore dappertutto, poteva andare peggio se Doc non avesse aperto i tubi di scarico in fretta e li avesse tenuti aperti. Quel colpo che abbiamo subito ha messo tutto a soqquadro.»

Marsh parve rattrappirsi. Era il colpo finale. Anche se riuscivano a disincagliarsi dalla secca, a montare un nuovo timone, a uscire in qualche modo dal canale con quello che rimaneva della ruota a pale, e a spostare in qualche modo quel dannato albero per passare — e nessuna di quelle cose era facile a farsi — avevano anche fatto scoppiare i tubi e forse dovevano vedersela anche con una caldaia danneggiata. Imprecò a voce alta e a lungo.

«Capitano,» disse Yoerger, «non riusciremo ad inseguirli, come voi avevate progettato, ma almeno siamo salvi. Il Fevre Dream svolterà la curva, quelli a bordo crederanno che noi siamo molto avanti e ci inseguiranno ancora sul fiume.»

«No. Capitano, voglio che costruiate delle barelle per gli ustionati, e che li trasportiate attraverso la foresta.» Indicò con il bastone. La sponda era a tre metri, separata dal battello da un tratto d’acqua bassa. «Dirigetevi verso una città. Ce ne deve essere una nelle vicinanze.»

«Tre chilometri da quest’isola,» puntualizzò il pilota.

Marsh annuì. «Bene, portateli lì, allora. Voglio che andiate tutti, e presto.» Ricordò il luccichio dorato degli occhiali di Jeffers quando gli erano caduti, quel terribile piccolo riflesso. Non accadrà di nuovo, pensò, non succederà di nuovo a causa mia. «Trovate un dottore che li rimetta in sesto. Sarete al sicuro, suppongo. Vogliono me, non voi.»

«Voi non verrete?» chiese Yoerger.

«Io ho il mio fucile,» disse Abner Marsh. «E ho un presentimento. Aspetterò.»

«Venite con noi.»

«Se scappo, mi inseguiranno. Se mi prendono, sarete salvi. O almeno immagino che sarà così.»

«E se non vengono…»

«Allora vi seguirò alle prime luci dell’alba,» disse Marsh. Batté il bastone da passeggio sul ponte con impazienza. «Sono ancora il capitano qui, giusto? Smettetela di farmi la predica e fate come vi dico. Voglio che sbarchiate tutti dal mio battello, capito?»

«Capitano Marsh,» disse Yoerger, «almeno lasciate che Cat ed io vi aiutiuamo.» «No. Andate.»

«Capitano…»

«ANDATE!» urlò Marsh, adirato. «ANDATE!» Yoerger impallidì e, afferrato per un braccio lo stupefatto pilota, lo condusse fuori dalla cabina di pilotaggio. Quando furono usciti, Abner Marsh si voltò indietro a guardare ancora una volta il fiume — ancora nulla — e poi scese nella sua cabina. Staccò il fucile dal muro, lo controllò, lo caricò, e infilò la scatola delle cartucce nella tasca della giacca bianca. Armatosi, Marsh ritornò sul ponte di coperta e fissò la sedia in un punto da cui poteva tenere d’occhio il fiume. Se erano intelligenti, Abner Marsh pensò, avrebbero saputo quanto basso era il livello del fiume. Probabilmente, avrebbero saputo che l’Eli Reynolds poteva aver attraversato quel braccio di fiume oppure no, ma che, anche nell’ipotesi migliore, avrebbe dovuto procedere lentamente, sondando tutto il percorso. Avrebbero saputo, una volta svoltata la curva, che l’avevano battuto. E se lo sapevano, non avrebbero più continuato a discendere il fiume. Avrebbero fatto stazionare il Fevre Dream all’uscita del braccio, aspettando il Reynolds. E nel frattempo, gli uomini — o i membri del popolo della notte — fatti sbarcare vicino all’estremità dell’isola avrebbero percorso il braccio su di una scialuppa, nel caso in cui il Reynolds si fosse fermato o avesse attraccato. Quello era ciò che Abner Marsh avrebbe fatto, comunque.

Il breve tratto di fiume che poteva vedere era ancora deserto. Sentì un leggero frescolino, mentre aspettava. In ogni istante, la scialuppa avrebbe potuto comparire, dopo aver superato quella fila di alberi, piena di nere figure silenziose con facce pallide e che sorridevano compiaciute sotto i raggi della luna. Verificò di nuovo il suo fucile e sperò che Yoerger fosse già lontano.

Yoerger e Grove e il resto dell’equipaggio dell’Eli Reynolds erano partiti da quindici minuti, e sul fiume non si muoveva ancora nulla.

Si udivano parecchi rumori nella notte. L’acqua che gorgogliava intorno al relitto del suo battello, il vento che agitava gli alberi, gli animali in caccia nella foresta. Marsh si alzò, con il dito sul grilletto del fucile, e scrutò il fiume con circospezione. Non c’era nulla da vedere, niente altro che l’acqua sabbiosa del fiume che bagnava la secca, le radici nodose, il tronco nero dell’albero che aveva distrutto le pale del battello. Vide dei rami alla deriva sul fiume e niente altro. «Forse non sono così intelligenti,» mormorò sottovoce.

Con la coda dell’occhio, Marsh intravide qualcosa di pallido sull’isola aldilà del fiume. Ruotò verso di essa, portando il fucile alla spalla, ma non c’era nulla, soltanto gli alberi neri come la pece e lo spesso fango del fiume. Venti metri di acque basse si stendevano tra lui e l’isola buia e silenziosa. Abner Marsh stava respirando con difficoltà. E se non utilizzano la scialuppa per attraversare il braccio? pensò. E se fossero sbarcati e stessero venendo a piedi? L’Eli Reynolds scricchiolò sotto di lui, e in Marsh crebbe l’ansia. È soltanto l’assestamento, si disse, si è incagliata e si sta assestando sulla sabbia. Ma un’altra parte di sé stava bisbigliando, bisbigliando che forse quello scricchiolio era un rumore di passi, che forse gli si sarebbero avvicinati di soppiatto mentre se ne stava ad osservare il fiume. Forse erano già sulla nave. Forse Damon Julian stava salendo, proprio in quel momento, su per le scale, scivolando furtivamente attraverso il salone — sapeva quanto furtivamente Julian potesse camminare — controllando le cabine, muovendosi verso le scale che lo avrebbero condotto lì, sul ponte di coperta. Marsh girò la sedia in modo da poter guardare verso la scala, nel caso che un viso dal pallore mortale improvvisamente vi facesse capolino. Le mani stavano sudando, nei punti in cui erano a contatto con il fucile, rendendo il calcio sdrucciolevole. Le asciugò sui pantaloni. Il suono di un fievole sussurro provenne dalla tromba delle scale. Erano di sotto, pensò Marsh, stavano decidendo come prenderlo. Lui era intrappolato lì sopra, da solo. Non che l’essere da solo gli importasse. Aveva avuto dell’aiuto in passato, e ciò, per loro, non aveva fatto alcuna differenza. Marsh si alzò e si avvicinò alla sommità delle scale, guardando in basso, verso l’oscurità solcata dalla pallida luce della luna. Afferrò con forza il fucile, sbatté le palpebre, aspettò che qualcosa gli comparisse davanti. Aspettò a lungo, e ascoltando quei vaghi sospiri, il suo cuore batteva come il vecchio e stanco motore del Reynolds. Essi volevano che lui li sentisse, pensò Abner Marsh. Volevano che avesse paura. Erano arrivati di soppiatto dal fiume, come spettri, così furtivi e silenziosi che non li aveva visti, e adesso stavano cercando di fargli paura. «Lo so che siete lì sotto,» urlò. «Venite su. Ho qualcosa per voi, Julian.» Sollevò il fucile. Silenzio. «Dannazione a voi,» imprecò Marsh. Qualcosa si mosse ai piedi delle scale, una figura guizzante, pallida e veloce. Marsh preparò il fucile, pronto a far fuoco, ma la figura scomparve addirittura prima che potesse cominciare a prendere la mira. Imprecò e scese due scalini, poi si fermò. Questo è quello che vogliono che io faccia, pensò. Stavano cercando di attirarlo in basso, sulla passeggiata e verso le cabine buie e l’oscuro polveroso salone con la luce della luna che filtrava attraverso l’osteriggio altrettanto polveroso. Sul ponte di coperta, avrebbe potuto tenerli a bada. Non avrebbero potuto raggiungerlo tanto facilmente, lassù; avrebbe potuto scorgerli mentre salivano per le scale, oppure si arrampicavano lungo le murate. Ma sotto, sarebbe stato alla loro mercé. «Capitano,» lo chiamò una voce morbida, proveniente dal basso. «Capitano Marsh.» Marsh sollevò il fucile, socchiudendo gli occhi per tentare di vedere qualcosa.

«Non sparate, capitano. Sono io. Sono soltanto io.» Comparve in fondo alle scale, in piena vista. Valerie. Marsh esitò. Gli stava sorridendo, i suoi capelli neri catturavano i raggi della luna, lo stava aspettando. Indossava pantaloni e una camicia arricciata da uomo, sbottonata sul davanti. La pelle era morbida e pallida, e i suoi occhi incontrarono lo sguardo di Marsh e lo catturarono, luccicanti come fari viola, profondi, belli, infiniti. Avrebbe potuto nuotare in quegli occhi per sempre. «Venite da me, capitano», lo invitò Valerie. «Sono sola. Mi ha mandato Joshua. Venite giù, così possiamo parlare.» Marsh scese ancora due scalini, ipnotizzato da quegli occhi brillanti. Valerie tese le braccia. L’Eli Reynolds gemette e si assestò, inclinandosi improvvisamente a babordo. Marsh vacillò, urtò con lo stinco contro la scala, e il dolore gli fece spuntare le lacrime agli occhi. Sentì una lieve risata salire dal basso, vide il sorriso di Valerie esitare e svanire. Bestemmiando, Marsh portò il fucile alla spalla e fece fuoco. Il rinculo quasi gli fracassò la spalla e andò a sbattere con la schiena contro gli scalini. Valerie se n’era andata, svanita come un fantasma. Marsh imprecò, si mise in piedi e si frugò in tasca alla ricerca di un’altra cartuccia, mentre risaliva la scala. «Joshua, per l’inferno!» ruggì verso l’oscurità. «Ti ha mandato Julian, che sia dannato!»

Quando ritornò sul ponte di coperta, ora inclinatosi di trenta gradi, Marsh sentì qualcosa di molto duro premergli tra le scapole. «Bene, bene,» disse una voce alle sue spalle, «guarda un po’ se qui non abbiamo il caro Capitano Marsh.» Gli altri comparvero, uno ad uno, quando Marsh lasciò cadere con un tonfo il fucile sul ponte. Valerie uscì per ultima e non osò guardarlo. Abner la insulto senza pietà, come avrebbe meritato una prostituta traditrice. Infine, lei gli rivolse un terribile sguardo accusatore.

«Pensate che avessi scelta?» chiese amaramente, e Marsh cessò la sua tirata. Non furono le sue parole a calmarlo, ma lo sguardo nei suoi occhi. Perché in quelle vaste e violette profondità, intraviste per un attimo, Marsh percepì la vergogna e il terrore… e la Sete. «Muoviti,» disse Billy Tipton la Serpe.

«Dannazione a te,» disse Abner Marsh.

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