CAPITOLO TRENTADUESIMO

Piantagione Julian
LOUISIANA
Maggio 1870

Lasciarono New Orleans nel mezzo della notte, rollando e sferragliando lungo strade scure e sconnesse in un carro che Joshua aveva acquistato. Vestito di un abito scuro, un mantello con cappuccio che svolazzava dietro di lui, Joshua appariva bello come ai vecchi tempi, mentre faceva schioccare le redini e spronava i cavalli. Abner Marsh sedeva cupamente dietro di lui, rimbalzando e sobbalzando quando passavano su rocce e buchi, tenendo ben stretto il fucile a doppia canna che aveva poggiato sulle ginocchia. Le tasche della giacca erano rigonfie di cartucce.

Joshua lasciò la strada maestra, non appena furono fuori città, e abbandonarono altrettanto in fretta anche la strada secondaria, e così si mossero velocemente su sentieri poco percorsi, adesso completamente deserti, nel buio della notte. Le strade divennero sentieri stretti, tortuosi, che correvano tra fitte macchie di pini gialli, magnolie e cipressi, alberi della gomma e querce. A volte, gli alberi si intrecciavano sulle loro teste, cosicché sembrava che stessero attraversando un lungo tunnel buio. Marsh scoprì, alle volte, di essere quasi cieco, quando gli alberi erano fitti e oscuravano la luna, ma Joshua non rallentò mai il ritmo della corsa. Aveva occhi adatti al buio. Infine, il bayou apparve alla loro sinistra e la strada lo costeggiò per un bel tratto. La luna splendeva pallida e immobile sull’acqua scura e tranquilla. Le lucciole vagavano nella notte pigra e Marsh udì il profondo gracchiare delle rane e odorò i forti, ricchi aromi che provenivano dagli stagni, in cui i lillà d’acqua crescevano fitti, mentre sulle loro rive si affollavano le sanguinelle bianco neve e sotto i vecchi, torreggianti alberi prosperavano i vitalba. Può essere l’ultima notte della mia vita, pensò Abner Marsh. Così, inspirò profondamente, assorbendo tutti gli odori che poteva offrire l’aria, quelli dolci e quelli amari.

Joshua York aveva lo sguardo fisso in avanti, e continuava a guidare il carro a tutta velocità, dimentico di tutto, con un’espressione dura, perduto nei suoi pensieri.

Verso l’alba — una vaga luminosità era già comparsa ad est e alcune stelle sembravano svanire — aggirarono una vecchia quercia spagnola, ora morta, con filamenti di muschio grigio che pendevano dai rami rinsecchiti, e sbucarono in un campo largo e ricoperto di erbacce. In lontananza, Marsh intravide una fila di baracche, nere come denti marci, mentre, lì vicino, sorgevano le mura carbonizzate e prive di tetto della vecchia casa della piantagione, con le finestre vuote simili ad orribili cavità. Joshua York si fermò. «Lasceremo il carro qui e procederemo a piedi,» disse. «Non è lontano.» Guardò verso l’orizzonte, dove la luminosità stava allargandosi inghiottendo le stelle. «Non appena sarà giorno fatto, colpiremo.»

Abner Marsh grugnì in maniera assente e saltò giù dal carro, afferrando strettamente il fucile. «Sarà un bel giorno,» disse a Joshua. «Forse sarà soltanto un tantino “sfarzoso”.»

York sorrise e si calcò il cappello sugli occhi. «Da questa parte,» disse. «Ricordatevi il piano. Io abbatterò la porta e affronterò Julian. Quando tutta l’attenzione sarà puntata su di me, entrate e sparategli in viso.»

«Per l’inferno,» esclamò Marsh. «Non me lo dimenticherò. Gli ho sparato in viso per anni, nei miei sogni.»

Joshua camminò velocemente, a grandi passi, e Abner Marsh lo seguì pesantemente, stentando a mantenere l’andatura dell’altro. Marsh aveva lasciato il bastone a New Orleans. Quel mattino, tra tutti gli altri, si sentiva di nuovo giovane. L’aria era dolce e fresca, colma di fragranza e lui stava per riavere indietro la sua bella creatura, il suo dolce battello, il suo Fevre Dream.

Superarono la casa della piantagione. Oltrepassarono le baracche degli schiavi. Attraversarono un altro campo, in cui il cotone stava inselvatichendo, in una profusione di fiori rosa e rossi. Svoltarono intorno ad un alto, vecchio salice piangente, i cui rami rampicanti sfiorarono il viso di Marsh gentilmente, come la mano di una donna. Poi, si addentrarono in una macchia di alberi più fitta, soprattutto cipressi e qualche palma, con canne fiorite, sanguinella e gigli di ogni colore che crescevano un po’ dappertutto. Il terreno era umido e lo diveniva sempre più, man mano che avanzavano. Abner Marsh sentì l’umidità penetrare attraverso le suole dei suoi vecchi stivali.

Joshua si chinò sotto una spessa massa grigia di muschio spagnolo, che pendeva da un ramo basso e contorto, e Marsh lo imitò, stando ad un passo dietro di lui e poi… vide il battello.

Abner Marsh strinse con forza il fucile. «Per l’inferno,» fu tutto quello che disse.

L’acqua aveva riempito nuovamente il vecchio canale secondario e circondava il Fevre Dream, ma non era abbastanza profonda, e così il battello non galleggiava. Giaceva su una secca di fango e sabbia, la prua dritta in aria, inclinata di dieci gradi a babordo, le pale in alto, quasi in secca. Una volta era stato bianco, blu e argento. Adesso era quasi grigio, il grigio del legname vecchio e rovinato, che aveva visto troppo sole, troppa umidità e poca pittura. Sembrava come se Julian e i suoi dannati vampiri gli avessero risucchiato la sua vitalità. Sul tamburo della ruota, Marsh poté vedere delle tracce del volgare scarlatto applicatovi da Billy la Serpe e le lettere OZ, molto sbiadite, come vecchi ricordi. Ma il resto delle lettere era scomparso, così che si poteva intravedere di nuovo il vecchio nome originale, laddove la nuova tinta si era staccata e scrostata. La vernice delle ringhiere e dei colonnati era quella in condizione peggiore, era in quelle parti che il battello era più grigio e, qua e là, Marsh scorse delle macchie verdi aggrappate al legno, ed in espansione. Quando vide il Fevre Dream, iniziò a tremare. L’umidità, il calore e il marciume, pensò, e aveva qualcosa nell’occhio. Se lo sfregò con rabbia. I fumaioli sembravano storti, a causa del modo in cui il battello si era inclinato. Festoni di muschio spagnolo ornavano un lato della cabina di pilotaggio e pendevano dal pennone dell’asta della bandiera. Le corde che tenevano a posto la scaletta di babordo si erano spezzate da tempo e la scaletta si era schiantata sul castelletto. La scala principale, quella grande estensione ricurva di legno lucidato, era resa scivolosa dai funghi. Dappertutto, Marsh scorgeva fiori selvatici che avevano messo radice nelle fessure tra le tavole del ponte. «Dannazione,» imprecò. «Dannazione, Joshua, come diavolo avete permesso che si riducesse in questo stato? Come diavolo avete potuto…» Ma poi la sua voce si ruppe, lo tradì e Abner Marsh scoprì di non aver parole.

Joshua York gli poggiò gentilmente una mano sulla spalla e disse, «Mi dispiace, Abner. Ci ho provato.»

«Oh, lo so,» esclamò Marsh. «È stato lui a fargli tutto questo, è stato lui che l’ha distrutto, come distrugge ogni cosa che tocca. Oh, so chi è stato, che io sia dannato se non lo so. Quel che non so è perché diavolo mi avete mentito, York. Tutto quella storia sul Natchez e sul Robert E. Lee. Diavolo. Non potrà superare nessuno, questo battello, non potrà mai più muoversi.» Sapeva che il suo viso era divenuto rosso come una barbabietola, e la sua voce stava iniziando ad alzarsi. «Dannazione, per tutti gli inferni, potrà solo starsene lì a marcire, dannazione, e voi lo sapevate!» Improvvisamente, s’interruppe, consapevole che urlando in quel modo avrebbe fatto svegliare tutti i dannati vampiri.

«Lo sapevo,» ammise Joshua York, ed i suoi occhi erano tristi. Il sole del mattino gli splendeva alle spalle e lo faceva apparire pallido e debole. «Ma avevo bisogno di voi, Abner. Non erano tutte bugie. Julian ha progettato il piano di cui vi ho parlato, ma Billy gli ha spiegato in quali pessime condizioni fosse il Fevre Dream, e lui ha rinunciato immediatamente ad attuarlo. Il resto è tutto vero.»

«Come diavolo posso credervi?» disse Marsh con tono piatto. «Dopo tutto quello che abbiamo passato, voi mi avete mentito. Dannazione a voi, Joshua York, voi siete il mio dannato socio, e mi avete mentito!» «Abner, ascoltatemi. Per favore. Lasciate che vi spieghi.» Joshua si portò una mano alla fronte e sbatté le palpebre.

«Avanti,» disse Marsh. «Continuate. Sto ascoltando, dannazione a voi.»

«Avevo bisogno di voi. Sapevo che non c’era verso che potessi sottomettere Julian da solo. Gli altri… perfino quelli che sono con me, non possono resistergli, resistere a quegli occhi… può far fare loro ogni cosa. Voi eravate la mia sola speranza, Abner. Voi e gli uomini che io pensavo avreste portato con voi. È una triste ironia. Noi della notte ci siamo cibati del popolo del giorno per migliaia di anni e ora devo contare su di voi per salvare la mia razza. Julian ci distruggerà. Abner, il vostro sogno può essere svanito, ma il mio può ancora vivere! Vi ho aiutato una volta. Non avreste potuto costruire il battello senza di me. Aiutatemi voi, adesso!»

«Avreste potuto semplicemente chiedermelo,» disse Marsh. «Avreste potuto dirmi la dannatissima verità.»

«Non sapevo se avreste accettato di venire per salvare il mio popolo. Sapevo che sareste venuto sicuramente per il battello.»

«Sarei venuto per voi, dannazione. Siamo soci, vero? Beh, non è così?»

Joshua York lo guardò con gravità. «Sì.»

Marsh alzò lo sguardo verso il grigio rottame marcio che era stato il suo orgoglioso battello e vide che un dannato uccello aveva costruito il nido in uno dei fumaioli. Altri uccelli si muovevano e svolazzavano da un albero all’altro, emettendo leggeri cinguettii che abbatterono enormemente Marsh. La luce del mattino cadeva sul battello in raggi luminosi di color giallo, filtrando obliquamente attraverso gli alberi e trasportando con sé miriadi di particelle di polvere. Le ultime ombre venivano ricacciate indietro dall’alba, nel sottobosco. «Perché diavolo proprio adesso?» chiese Marsh, guardando di nuovo accigliato York. «Se non era per il Natchez e il Robert E. Lee, per che cosa, allora? Cosa rende il presente diverso dagli ultimi tredici anni, tanto da farvi improvvisamente fuggire e scrivermi lettere?» «Cynthia è incinta,» spiegò Joshua. «Di mio figlio.»

Abner Marsh ricordò quel che York gli aveva detto tanto tempo prima. «Avete ucciso qualcuno insieme?»

«No. Per la prima volta nella nostra storia, il concepimento è stato privo della maledizione della Sete rossa. Cynthia ha utilizzato la mia pozione per anni. È divenuta… sessualmente ricettiva… perfino senza il sangue, senza la febbre. Io ho risposto all’impulso. È stato potente, Abner. Forte quanto la Sete, ma diverso, più pulito. Una Sete di vita, piuttosto che di morte. Ella morirà quando verrà il momento del parto, a meno che la vostra gente non l’aiuti. Julian non lo permetterebbe mai. E c’è anche il bambino a cui pensare. Io non voglio che venga corrotto, che sia schiavo di Damon Julian. Desidero che questa nascita sia un nuovo inizio per la mia razza. Dovevo fare qualcosa.»

Un maledetto bambino vampiro, pensò Abner Marsh. Stava per andare ad affrontare Damon Julian per un bambino che poteva crescere e diventare ciò che era Julian. Ma forse no. Forse sarebbe cresciuto come Joshua, invece. «Se volete fare qualcosa,» disse Marsh, «allora perché diavolo non entriamo, invece di starcene qui fuori a ciarlare?» E puntò il fucile in direzione del grande battello in rovina.

Joshua York sorrise. «Mi dispiace per la bugia,» si scusò. «Abner, non c’è nessuno come voi. Avete tutti i miei ringraziamenti.»

«Non pensate a questo, ora,» disse rudemente Marsh, imbarazzato dalla gratitudine di Joshua. Lasciò l’ombra degli alberi per incamminarsi verso il Fevre Dream e i marci tini di indaco, tinti di viola, che si profilavano dietro di esso. Quando fu vicino all’acqua, i suoi stivali produssero osceni suoni di risucchio, mentre tentava di liberarli dalla presa del fango. Marsh controllò di nuovo il fucile, per assicurarsi che fosse carico. Poi trovò una vecchia tavola consumata che giaceva nell’acqua bassa e stagnante, appoggiata contro una delle fiancate dello scafo e che raggiungeva il ponte di comando del battello. Joshua York, muovendosi rapidamente e in silenzio, lo seguì. Si trovarono dì fronte allo scalone, che conduceva all’oscurità del ponte di coperta, alle cabine chiuse da tende dove dormivano i loro nemici, alla lunga penombra del salone. Marsh non si mosse subito. «Voglio vedere il mio battello,» disse alla fine, e girò intorno alle scale, dirigendosi verso la sala macchine.

Le giunture di due caldaie erano scoppiate. La ruggine aveva mangiato i tubi del vapore. I grandi motori erano scuriti e stavano cadendo in pezzi. Marsh dovette camminare con attenzione per assicurarsi che uno dei suoi piedi non sfondasse un’asse marcia del pavimento. Si avvicinò ad una fornace. All’interno, vi era della cenere vecchia e fredda e qualcos’altro, qualcosa di marrone e giallo, annerito qua e là. Immerse un braccio nella fornace e ne tirò fuori un osso. «Ossa nella fornace,» disse. «Il ponte distrutto. Dannate manette da schiavi ancora sul pavimento. Ruggine. Dannazione. Dannazione.» Si voltò. «Ho visto abbastanza.»

«Ve l’avevo detto,» disse Joshua York.

«Desideravo vederlo.» Uscirono nuovamente alla luce del sole che illuminava il castelletto. Marsh si guardò indietro, verso le ombre, le ombre arrugginite e marce di tutto quello che il suo battello era stato e di tutto quello che aveva sognato. «Diciotto grandi caldaie,» disse rauco. «Whitey amava i suoi motori.»

«Abner, venite. Dobbiamo fare quello per cui siamo venuti.»

Salirono l’imponente scalinata, con cautela. La fanghiglia sui gradini era viscida ed emanava un cattivo odore. Marsh si appoggiò con troppa forza su una ghianda intagliata nel legno ed essa gli rimase in mano. La passeggiata era grigia e deserta, sembrava insicura. Entrarono nel salone e Marsh aggrottò le ciglia di fronte ai novanta metri dì rovine, disperazione e bellezza rovinata. Il tappeto era macchiato, lacero e mangiato da funghi e muffa. Chiazze verdi si erano diffuse come un cancro che divorava l’anima del battello. Qualcuno aveva ricoperto di vernice l’osteriggio, pitturando di nero tutti quei bei vetri colorati. Era buio. Il lungo bancone di marmo era coperto di polvere. Le porte delle cabine di lusso pendevano rotte e divelte. Un lampadario era caduto. Camminarono attraverso le pile di vetri rotti. Un terzo degli specchi era spaccato o mancava. Il resto non rifletteva più nulla, l’argento si era staccato o si era scurito. Quando raggiunsero il ponte di coperta, Marsh fu ben lieto di vedere il sole. Controllò ancora una volta il fucile. Il ponte del Texas incombeva su di loro, con le sue cabine chiuse e come in attesa. «Si trova ancora nella cabina del capitano?» chiese Marsh. Joshua assentì. Salirono i pochi gradini che portavano al ponte del Texas e si avvicinarono alla cabina. Nelle ombre del portico del Texas, Billy Tipton la Serpe li stava aspettando.

Se non fosse stato per gli occhi, Abner Marsh non avrebbe mai potuto riconoscerlo. Billy la Serpe era distrutto quanto il battello. Era sempre stato magro. Ma ora era uno scheletro vivente: ossa aguzze che sporgevano da una carne di un giallo malaticcio. La pèlle aveva l’aspetto di quella di un uomo che sia stato costretto a letto per anni. Il suo viso era un dannato teschio. Un teschio giallastro e butterato. Aveva perso quasi tutti i capelli e la sommità della testa era ricoperta di croste e di piaghe vive. Era vestito di stracci neri e le unghie erano cresciute almeno di dieci centimetri. Soltanto gli occhi erano gli stessi: occhi color ghiaccio, come febbricitanti, che vi fissavano, tentavano di impaurirvi, cercavano di essere occhi di vampiro, proprio come quelli di Julian. Billy la Serpe sapeva che sarebbero venuti. Doveva averli sentiti. Quando girarono l’angolo, lui era là, col coltello in mano, quella mano mortalmente esperta. «Beh…» esclamò.

Abner Marsh caricò il fucile e fece fuoco con entrambe le canne, a bruciapelo, contro il petto di Billy. A Marsh non interessava sentire quel secondo «Beh.» Non quella volta.

Il fucile ruggì e rinculò con forza, illividendogli il braccio. Il petto di Billy la Serpe divenne rosso in un centinaio di punti, e l’impatto lo scaraventò all’indietro. La ringhiera marcia del portico del ponte del Texas cedette alle sue spalle e Billy si schiantò sul ponte sottostante. Impugnando ancora il coltello, tentò di rimettersi in piedi. Annaspò e barcollò in avanti, come un ubriaco. Marsh lo seguì con un salto e ricaricò il fucile. Billy la Serpe afferrò il calcio di una pistola che aveva alla cintura. Marsh gli sparò altri due colpi e lo fece volare via dal ponte di controcoperta. La pistola roteò, libera dalla presa di Billy, e Abner Marsh sentì l’orribile essere schiantarsi su qualcosa, di sotto. Andò a sbirciare dal castelletto. Billy giaceva a faccia in giù, contorto in una posizione innaturale, una macchia rossa sotto di lui. Impugnava ancora il suo dannato coltello, ma non sembrava potesse fare ancora danni con esso. Abner Marsh grugnì, prese due cartucce nuove dalla tasca e si voltò indietro a guardare il ponte del Texas.

La porta della cabina del capitano era completamente aperta e Damon Julian era uscito sul portico del Texas per affrontare Joshua, un pallido essere malvagio vestito in nero e con occhi invitanti. Joshua York se ne stava immobile, come un uomo in trance. Marsh costrinse i suoi occhi ad abbassarsi per guardare il fucile e le cartucce che aveva in mano. Fa’ finta che non sia lì, si disse. Sei al sole, non può farti nulla, non guardarlo, ricarica, ricarica il fucile e sparagli entrambi i dannatissimi colpi in pieno viso mentre Joshua lo tiene immobile. La mano gli tremava. Si sforzò di tenerla ferma e infilò una cartuccia. E Damon Julian rise. Al suono di quella risata, Marsh alzò lo sguardo, nonostante tutto quello che aveva pensato, con la seconda cartuccia ancora tra le dita. Julian aveva come una musica nella risata, un calore, del buon umore, che rendeva difficile aver paura di lui, difficile ricordare quel che era e le cose che poteva fare. Joshua era caduto in ginocchio. Marsh bestemmiò e fece tre passi impetuosi in avanti e Julian si voltò, ancora sorridente e iniziò ad avvicinarsi a lui. O tentò di farlo. Julian volteggiò sul ponte di comando, passando dal portico rovinato, ma Joshua lo vide, si alzò e lo seguì, afferrando Julian da dietro. Per un attimo, lottarono corpo a corpo sul ponte. Poi Marsh udì Joshua gridare di dolore, distolse lo sguardo, infilò il secondo proiettile nella canna e chiuse il fucile. Guardò di nuovo in alto e vide Julian avvicinarsi, con il viso pallido che incombeva su di lui e i denti che luccicavano, quei terribili denti. Il dito si strinse convulsamente sul grilletto, prima che avesse puntato il dannato fucile, e il colpo andò a vuoto. Il rinculo mandò a gambe all’aria Marsh e questo fu ciò che probabilmente gli salvò la vita. Julian lo mancò, roteò su se stesso… ed esitò quando vide Joshua rialzarsi, mentre quattro lunghe tracce sanguinanti gli scendevano sulla guancia sinistra.

«Guardami, Julian,» lo invitò dolcemente Joshua. «Guardami.»

Marsh aveva ancora un colpo in canna. Riverso sul ponte, sollevò il fucile, ma fu troppo lento. Damon Julian distolse gli occhi da Joshua e si accorse dell’arma che veniva puntata su di lui. Piroettò e il colpo tuonò attraverso l’aria vuota. Mentre Joshua York aiutava Abner Marsh a rimettersi in piedi, Julian era ormai scomparso giù per le scale. «Inseguitelo,» disse Joshua ansiosamente. «E state in guardia! Potrebbe tendervi un agguato.»

«E voi?»

«Mi assicurerò che non lasci la nave,» disse Joshua. Poi roteò e saltò dal bordo del ponte di comando, sul castelletto, rapido e agile come un gatto. Atterrò ad un metro dal punto in cui giaceva Billy la Serpe, duramente, con un tonfo, e rotolò. Un istante dopo era di nuovo in piedi e saliva con velocità fulminea la grande scalinata. Marsh prese altri due proiettili e caricò il fucile. Poi, si avvicinò alla scala, sbirciò dabbasso con circospezione e iniziò a scendere, gradino dopo gradino, con il fucile pronto a sparare. Il legno scricchiolò sotto i suoi passi, ma non sentì altro. Marsh sapeva che questo non significava nulla. Tutti loro, si muovevano così silenziosamente. Aveva il presentimento di sapere dove Julian si sarebbe nascosto. Nel salone, o in una cabina all’esterno. Marsh tenne il dito sul grilletto, e continuò, fermandosi per abituare gli occhi all’oscurità. All’estremità opposta del salone, qualcosa si mosse. Marsh mirò e venne invaso dal gelo, poi si rilassò. Era Joshua.

«Non ha abbandonato la nave,» disse Joshua, mentre, muovendo la testa, perlustrava la cabina con i suoi occhi — migliori di quelli di Marsh.

«Immaginavo che non l’avesse fatto,» commentò Marsh. Improvvisamente, un’aria gelida invase la cabina. Gelida e immobile, come il respiro che usciva da una tomba chiusa da lungo tempo. Era troppo buio. Marsh non riusciva a vedere nulla, se non ombre vagamente minacciose. «Ho bisogno di un po’ di dannata luce,» annunciò. Alzò il fucile e sparò un colpo contro l’osteriggio. La detonazione echeggiò sordamente, in quello spazio chiuso, e il vetro si disintegrò. Piovvero giù schegge e scintille di luce. Marsh prese un’altra cartuccia per ricaricare il fucile. «Non vedo nulla,» disse, avanzando con il fucile sotto il braccio. La cabina era totalmente calma e deserta, almeno a quanto poteva constatare lui. Forse Julian è acquattato dietro il bancone del bar, pensò Marsh. Con cautela si avvicinò ad esso.

Un vago tintinnio gli arrivò all’orecchio, il tintinnio di cristalli che si agitano nel vento. Abner Marsh aggrottò la fronte.

E Joshua urlò. «Abner! Sopra di voi!»

Marsh guardò in alto, proprio mentre Damon Julian lasciava la presa sul grande lampadario oscillante e piombava verso di lui. Marsh cercò di sollevare e puntare il fucile, ma era troppo tardi, e lui era così dannatamente lento. Julian atterrò proprio sopra di lui, fece roteare il fucile lontano dalla presa di Marsh ed entrambi caddero al suolo. Marsh cercò di liberarsi. Qualcosa lo afferrò, lo spinse. Marsh sferrò alla cieca un pugno massiccio. Il colpo di risposta venne dal nulla e quasi gli staccò la testa. Per un attimo, giacque stordito. Qualcuno gli afferrò il braccio e glielo torse contro la schiena. Marsh urlò. La pressione non gli permetteva di alzarsi. Cercò di rimettersi in piedi, e il braccio fu piegato verso l’alto con forza terribile. Lo sentì spezzarsi e urlò di nuovo, più forte, mentre il dolore lo martellava. Fu spinto brutalmente sul ponte, con il viso premuto sul tappeto ammuffito. «Fate resistenza, mio caro Capitano, e io vi romperò l’altro braccio,» gli disse la voce melliflua di Julian. «Restate fermo.»

«Allontanatevi da lui!» intervenne Joshua. Marsh alzò gli occhi e vide che York era in piedi, a venti passi di distanza.

«Non la penso così,» replicò Julian. «Non muoverti, caro Joshua. Se ti avvicinerai, tagliere la gola del Capitano Marsh prima che tu sia a cinque passi. Rimani dove sei e lo risparmierò. Capito?» Marsh cercò di muoversi e si morse il labbro dal dolore.

Joshua si bloccò, le mani a mezz’aria come artigli di fronte a lui. «Sì,» disse, «Capisco.» Gli occhi grigi erano animati da una luce mortale, mannello stesso tempo, tradivano la sua incertezza. Marsh cercò con lo sguardo il fucile. Era a cinque passi, ben oltre la sua portata.

«Bene,» disse Damon Julian. «Ora, perché non ci mettiamo comodi?» Marsh sentì Julian afferrare una sedia. Si sedette proprio dietro a Marsh. «Mi siederò qui, nell’ombra. Tu puoi sederti sotto quella striscia di luce che il capitano ha così gentilmente lasciato entrare nel salone. Avanti, Joshua. Fai come ti dico, a meno che tu non voglia vederlo morto.»

«Se lo uccidi, non ci sarà più nulla a separarci,» disse Joshua.

«Forse voglio correre questo rischio,» replicò Julian. «E tu?»

Joshua York si guardò intorno lentamente, aggrottò la fronte, prese una sedia e si diresse sotto l’osteriggio rotto. Si sedette al sole, a buoni quindici passi da loro. «Togliti il cappello, Joshua. Voglio vedere il tuo viso.» York fece una smorfia, si tolse il cappello a falda larga e lo lanciò nell’ombra. «Molto bene,» disse Damon Julian. «Ora possiamo aspettare insieme. Per poco, Joshua.» Rise leggermente. «Fino a sera.»

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