20

Il signor Aldrin viene a dirci che la compagnia non accetta di fornirci il trattamento Lungavita per ora, benché non è escluso… e lui tiene a sottolineare che questa è solo una possibilità… che acconsenta ad assistere quelli di noi che vorranno sottoporvisi dopo il presente trattamento, se esso avrà successo. — È troppo rischioso sottoporsi contemporaneamente a tutti e due — spiega. — E poi se qualcosa non dovesse funzionare la sua durata sarebbe più lunga.

Credo che dovrebbe dirlo chiaro e tondo: se il trattamento dovesse causare danni maggiori, noi subiremmo un grosso peggioramento delle nostre condizioni e la compagnia dovrebbe mantenerci più a lungo. Ma io so che le persone normali non parlano mai chiaro.

Non parliamo tra di noi dopo che lui è uscito. Gli altri mi guardano, ma nessuno dice niente. Spero che Linda accetti comunque il trattamento. Lei mi chiede se sono sicuro di ciò che faccio. Non sono sicuro, sono soltanto abbastanza sicuro. Poi chiamo il signor Aldrin e glielo dico. Anche lui chiede se sono sicuro. — Sì — dico, e poi chiedo: — Lo farà anche suo fratello? — Ho pensato spesso anche al fratello.

— Jeremy? — Pare sorpreso. — Non lo so, Lou. Dipende da quanto numeroso sarà il gruppo. Non so poi se accetterebbero anche estranei. In questo caso potrei chiederglielo. Se lui potesse vivere da solo, essere più felice…

— Non è felice? — domando.

Il signor Aldrin sospira. — No, Lou, non è felice. È molto… molto handicappato. I dottori… e i miei genitori… ha bisogno di molte cure e non ha mai imparato a parlare bene. — Credo di capire. Suo fratello è nato troppo presto, prima del trattamento che ha aiutato me e tanti altri. Probabilmente Jeremy si trova nelle condizioni in cui mi trovavo io quando ero piccolo.

— Spero che il nuovo trattamento sia efficace — dico. — E spero che possa far qualcosa anche per lui.

Il signor Aldrin emette un suono che non capisco, quindi risponde con voce rauca: — Grazie, Lou. Sei… sei un uomo buono.

Non sono un uomo buono. Sono solo un uomo come lo è anche lui, ma sono contento che lui pensi che sono buono.


Tom, Lucia e Marjory sono riuniti in salotto quando arrivo. Stanno parlando del prossimo torneo. Tom mi guarda.

— Lou… hai deciso?

— Sì — dico. — Lo farò.

— Bene. Dovrai riempire questo modulo di partecipazione…

— No, non parlavo di questo. — Mi rendo conto che lui non poteva sapere che mi stavo riferendo ad altro. — Non parteciperò a quel torneo… — Parteciperò mai ad altri tornei? Il mio io futuro vorrà ancora tirare di scherma? Si può tirare di scherma nello spazio? Sarebbe difficile, penso, in caduta libera.

— Ma avevi detto… — dice Lucia, poi il suo viso cambia, appare come appiattito dalla sorpresa. — Oh… vuoi dire… che hai deciso di accettare il trattamento?

— Sì — rispondo. Guardo Marjory. Sta guardando Lucia. Poi guarda me, poi ancora Lucia. Non ricordo se ho parlato a Marjory del trattamento o no.

— Quando? — chiede Lucia.

— Comincerò lunedì — spiego. — Ho molto da fare. Dovrò trasferirmi in clinica.

— Stai male? — chiede Marjory, che è diventata pallida. — Qualcosa non va?

— Non sono malato — dico. — C’è un trattamento sperimentale che può farmi diventare normale.

— Normale! Ma, Lou, tu stai benissimo come sei. A me tu piaci come sei. Non c’è bisogno che tu diventi esattamente come gli altri. Chi ti ha messo in testa questa idea? — Sembra in collera. Non so se lo sia con me o con qualcuno che secondo lei mi ha detto che devo cambiare. Ma le dirò tutto.

— È cominciato perché il nostro capo il signor Crenshaw voleva eliminare la nostra unità — dico. — Lui sapeva di questo trattamento, e diceva che avrebbe fatto risparmiare denaro.

— Ma questa… questa è costrizione. È illegale. Non può fare una cosa simile…

È davvero arrabbiata adesso, le sue guance diventano alternativamente rosse e poi pallide. Ciò mi fa desiderare di abbracciarla. Ma non sarebbe appropriato.

— È cominciato così — dico. — Però tu hai ragione: lui non ha potuto fare ciò che diceva di voler fare. Il signor Aldrin, il nostro supervisore, ha trovato il modo di fermarlo. — Io ne sono ancora sorpreso. Ero sicuro che il signor Aldrin non ci avrebbe aiutati. Ancora non capisco cos’abbia fatto per ostacolare il signor Crenshaw e fargli perdere il posto ed essere scortato dalle guardie con le sue cose in una scatola. Riferisco ciò che ha detto il signor Aldrin e gli avvocati nella riunione. — Adesso però io voglio cambiare — concludo.

Marjory tira un respiro profondo. Questo mi piace molto: il davanti della sua camicetta si tende. — Perché? — domanda con voce più calma. — Non è a causa di… a causa di… di noi? Di me?

— No — rispondo. — Non è a causa di te. È a causa di me.

Le sue spalle si afflosciano, non so se per sollievo o tristezza. — Allora a causa di Don? È per colpa sua che fai questo, perché ti ha convinto che ti manca qualcosa essendo come sei?

— Non è per colpa di Don… o almeno non solo… — Eppure è evidente, penso, e mi chiedo come faccia Marjory a non capirlo. Era lì quando la guardia all’aeroporto mi fermò e io rimasi senza parole e lei dovette aiutarmi. Era lì quando dovevo parlare con l’agente di polizia e mi si bloccò la lingua e Tom dovette aiutarmi. Non mi piace essere quello che ha sempre bisogno di aiuto. — Si tratta di me — spiego. — Voglio non avere problemi all’aeroporto e talvolta con altra gente, quando mi è difficile parlare e tutti mi guardano. Voglio andare in posti e imparare cose che non sapevo di poter vedere e imparare…

Il viso di Marjory cambia di nuovo, si rilassa, e la sua voce è più calma. — In cosa consiste questo trattamento, Lou? Cosa accadrà?

Apro la cartella che ho portato. Non dovremmo parlare del trattamento, perché è brevettato e sperimentale, ma secondo me questa non è una buona idea. Se qualcosa dovesse andar male, è bene che qualcuno al di fuori della compagnia ne sappia qualcosa. Non ho detto a nessuno che portavo via la cartella e nessuno mi ha fermato.

Comincio a leggere, ma Lucia m’interrompe quasi subito.

— Lou… adesso riesci a capire questa roba?

— Sì… credo di sì. Dopo Cego e Clinton, sì.

— Perché non lasci che legga io, allora? Posso comprendere meglio di che si tratta se vedo le parole. Poi possiamo parlarne.

Non c’è nulla di cui parlare in realtà. Io sono deciso a tentare il trattamento. Ma porgo a Lucia la cartella, Marjory le si avvicina e cominciano a leggere insieme. Guardo Tom. Lui alza le sopracciglia e scuote la testa.

— Sei un uomo coraggioso, Lou. Lo sapevo già, ma questo… Io non so se avrei il fegato di lasciare che qualcuno trafficasse con il mio cervello.

— Ma tu non ne hai bisogno — dico. — Tu sei normale. Sei un professore titolare. Hai Lucia e questa casa. — Non posso dire altre cose che penso, che lui è a suo agio con il proprio corpo, che vede e sente e gusta e annusa e prova sensazioni come gli altri, così che la sua realtà può coincidere con la loro.

— Pensi che tornerai da noi? — mi chiede Tom. Sembra triste.

— Non lo so — dico. — Spero che continuerò ad amare la scherma, perché è divertente, ma non lo so.

— Hai tempo di rimanere, stasera?

— Sì — dico.

— Allora usciamo. — Si alza e mi fa strada verso il ripostiglio. Lucia e Marjory restano in salotto a leggere. Nel ripostiglio Tom mi parla. — Lou, sei certo che non stai facendo questo perché sei innamorato di Marjory? Perché vuoi essere un uomo normale per lei? Sarebbe una nobile azione, ma…

Mi sento caldo dappertutto. — Non lo faccio per lei. Lei mi piace. Desidero toccarla e stringerla e… fare cose che non sono appropriate. Ma questo è… — Allungo una mano e tocco la rastrelliera dove sono appese le armi, perché di colpo sto tremando e ho paura di cadere. — Le cose non rimangono uguali — dico. — Io non sono lo stesso. Non posso evitare di cambiare. Questo… è solo un cambiamento più affrettato. E io l’ho scelto.

— "Temi il cambiamento e ti distruggerà; abbraccia il cambiamento e ti farà più grande" — dice Tom con la voce che usa per le citazioni. Non so cosa stia citando. Poi continua con la sua voce normale e con una piccola vena di scherzo: — Allora scegli le tue armi: se non verrai qui per un po’ di tempo, voglio essere sicuro di prendermi la mia batosta questa sera.

Io prendo le armi e la maschera e ho già infilato il giubbotto quando ricordo che non ho fatto gli stiramenti. Siedo nel patio e comincio. Lì fa più freddo, il lastricato sotto di me è duro e gelido.

Tom mi siede di fronte. — Io i miei li ho fatti, ma farne di più fa bene, specie quando uno sta diventando vecchio — dice. Quando si piega per appoggiare il viso sul ginocchio, vedo che i capelli in cima al capo gli si stanno diradando e che c’è parecchio grigio in essi. — Cosa farai dopo aver subito il trattamento?

— Mi piacerebbe andare nello spazio — dico.

— Tu…? Lou, tu non smetti mai di sorprendermi. Non sapevo che volessi andare nello spazio. Quando hai cominciato a desiderarlo?

— Quando ero piccolo — dico. — Ma sapevo di non poterlo fare. Sapevo che non era appropriato.

— Quando penso allo spreco… — dice Tom, piegando di nuovo la testa per appoggiare il viso sull’altro ginocchio. — Lou, questa tua decisione mi preoccupava molto, ma adesso penso che hai fatto bene a prenderla. Il tuo potenziale è troppo alto perché tu debba restare impacciato da un handicap per il resto della tua vita. Però farà soffrire Marjory il fatto che tu finirai per staccarti da lei.

— Non voglio far soffrire Marjory — dico. — Non credo che finirò per staccarmi da lei.

— Lo so. Lei ti piace molto… no, tu l’ami, è chiaro. Ma, Lou… tu stai per subire un grande cambiamento. Non sarai la stessa persona.

— Comunque lei mi piacerà sempre… no, l’amerò sempre — dico. Non avevo pensato che diventare normale mi rendesse questo più difficile o addirittura impossibile. E non capisco perché Tom lo creda.

— Sono certo che sarà così, Lou, ma non sarà la stessa cosa. Non è possibile che lo sia. Vedi, se io perdessi un piede potrei ancora tirare di scherma, ma i miei schemi dovrebbero cambiare, no?

Non mi piace pensare che Tom perda un piede, ma capisco quello che vuoi dire. Annuisco.

— Così, se tu subirai un enorme cambiamento in ciò che sei, allora la configurazione che si è creata fra te e Marjory cambierà. Può darsi che voi due vi avviciniate di più o può darsi che vi allontaniate.

Adesso so ciò che non sapevo pochi minuti fa, che io avevo nutrito un profondo e nascosto desiderio riguardo Marjory, il trattamento e me. Avevo sperato che se fossi diventato normale avremmo potuto essere normali insieme, sposarci e avere bambini e vivere una vita normale.

— Non sarà la stessa cosa, Lou — ripete Tom da dietro la maschera. Vedo lo scintillio dei suoi occhi.

— Non può esserlo.

Tirare di scherma è la stessa cosa e non lo è. Gli schemi di Tom sono sempre più chiari per me ogni volta che c’incontriamo, ma i miei schemi… non riesco a tenerli a fuoco. La mia attenzione oscilla. Marjory verrà fuori? Vorrà battersi con me? Cosa staranno dicendo, lei e Lucia, del contenuto della cartella? Quando mi concentro posso colpire Tom, ma poi perdo la concentrazione ed è lui a colpire me. Quando Lucia e Marjory arrivano, io e Tom ci siamo giusto fermati per riprendere fiato. Nonostante la notte sia molto fresca, siamo sudati.

— Bene — dice Lucia. Io aspetto, ma lei non aggiunge altro.

— A me sembra pericoloso — commenta Marjory.

— Armeggiare con il riassorbimento neurale e poi con la rigenerazione…

— Ci sono troppe possibilità che finisca in un disastro — spiega Lucia. — Inserzione virale di materiale genetico bene, una tecnologia vecchia e sperimentata. Nanochirurgia per le cartilagini, contenimento dell’infiammazione, benissimo. Ma quel pasticciare con le mutazioni dei geni… e quel trafficare col midollo per la rigenerazione delle ossa… e poi…

Lucia continua a enumerare procedimenti di cui non so e non capisco nulla, ma non voglio sentire altre ragioni per avere paura.

— Comunque dopo tutto la decisione è tua — conclude.

— Sì — dico, e guardo Marjory. Non riesco a vietarmelo.

— Lou… — Poi lei scuote la testa e io so che non dirà quello che stava per dire. — Vuoi batterti? — chiede.

Non voglio battermi, voglio sedere accanto a lei. Voglio toccarla. Voglio andare a cena con lei e coricarmi con lei. Ma tutto ciò non posso farlo, non ancora. Mi alzo e rimetto la maschera.

Quel che sento quando la sua lama tocca la mia non posso descriverlo. È la sensazione più forte che io abbia mai provata. Sento il mio corpo vibrare e reagire in un modo che non è appropriato ma è stupendo. Vorrei che tutto ciò continuasse in eterno e vorrei smettere e prenderla tra le braccia. Rallento, così da non toccarla troppo presto e perché l’incontro possa durare.

Potrei però ancora chiederle se vuol venire a cena con me. Potrei farlo prima o dopo il trattamento. Forse.


Giovedì mattina. Tempo freddo e ventoso, con nuvole grigie che corrono attraverso il cielo. Mentre attraverso il parcheggio della compagnia verso il nostro edificio il vento m’investe. Sento un’automobile dietro di me e mi volto. È quella di Linda, che parcheggia al suo solito posto. Esce senza guardarmi.

Alla porta inserisco la mia chiave magnetica e apro il battente. Lo tengo aperto e aspetto Linda. Lei ha sollevato lo sportello del portabagagli e sta tirando fuori uno scatolone. È come quello che aveva il signor Crenshaw.

Non ho pensato a portare una scatola per metterci le mie cose. Mi chiedo se riuscirò a trovarne una durante la pausa pranzo. Mi chiedo se Linda ha portato una scatola perché ha deciso di accettare il trattamento.

La tiene sotto il braccio e cammina in fretta, col vento che le getta all’indietro i capelli. Il suo viso sembra diverso, nudo e scolpito come quello di una statua, sgombro di paure e di ansie.

Mi passa davanti reggendo la scatola e io la seguo all’interno dell’edificio. Bailey è nell’atrio.

— Hai una scatola — dice a Linda.

— Pensavo che potesse servire a qualcuno — spiega Linda. — L’ho portata per questo.

— Io ne porterò una domani — dice Bailey. — Lou, te ne vai oggi o domani?

— Oggi — rispondo. Linda mi guarda e mi tende la scatola. — Mi può servire — dico, e lei me la dà senza incontrare i miei occhi.

Entro nel mio ufficio. Ha un’aria già estranea come l’ufficio di un altro. Sposto il piccolo ventilatore che fa muovere le girandole e le spirali, poi lo riporto dov’era. Siedo sulla mia poltrona e mi guardo intorno. L’ufficio è lo stesso, ma io non sono la stessa persona.

Guardo nei cassetti della mia scrivania e non trovo altro che una vecchia pila di manuali per l’aggiornamento del sistema. Era vietato stamparli, ma è più agevole leggere le cose scritte sulla carta. Tutti usavano i miei manuali. Non voglio lasciare queste copie vietate qui mentre io sarò in clinica. C’è anche una copia del Manuale degli impiegati. Tiro fuori tutto e metto il Manuale degli impiegati sopra agli altri manuali. Non so cosa fare con questa roba.

Nel cassetto di fondo c’è una vecchia decorazione con dei pesci che tenevo appesa finché il pesce più grande non si deformò. Adesso la superficie lucente dei pesci è coperta di piccole macchie nere. La tiro fuori e la getto nel cestino della carta straccia, rabbrividendo ai piccoli tintinnii che emette.

Nel cassetto centrale tengo penne colorate e un piccolo contenitore di plastica con degli spiccioli per la macchina che vende le bibite. Mi metto in tasca il contenitore e metto le penne sulla scrivania. Guardo gli scaffali. Contengono informazioni sui progetti, schedari, tutte cose di proprietà della compagnia. Non dovrò toccar nulla, lì. Tolgo dal soffitto le girandole e le spirali cominciando da quelle che non sono le mie favorite, quelle gialle e argento, quelle arancioni e quelle verdi.

Sento nell’atrio la voce del signor Aldrin che parla con qualcuno. Apre la mia porta.

— Lou, ho dimenticato di ricordare a tutti di non portar via dal campus qualunque materiale relativo al vostro lavoro. Se avete materiale del genere, riunitelo ed etichettatelo spiegando che deve andare in archivio.

— Sì, signor Aldrin — dico.

— Verrai al campus domani?

— Non credo — dico. — Non voglio cominciare un lavoro che poi lascerei incompiuto. Entro oggi avrò sgomberato tutto, qui.

— Bene. Hai ricevuto la lista dei preparativi raccomandati?

— Sì.

— Bene. Io… — Getta un’occhiata alle proprie spalle, poi entra nel mio ufficio e chiude la porta. Mi sento di colpo nervoso. — Lou… — il signor Aldrin esita, si schiarisce la gola e guarda altrove. — Lou, io… io voglio dirti che mi dispiace per quanto è avvenuto.

Non so quale risposta si aspetti. Non dico nulla.

— Io non avrei mai voluto… se le cose fossero dipese da me, nulla sarebbe cambiato…

Si sbaglia. Tutto sarebbe cambiato. Don sarebbe ugualmente andato in collera con me. Io mi sarei ugualmente innamorato di Marjory. Non so perché stia dicendo questo: lui dovrebbe sapere che le cose cambiano, sia che uno lo voglia sia che non lo voglia. Uno può giacere accanto a una piscina per mesi e anni pensando all’angelo che deve scendere, prima che qualcuno gli chieda se vuole esser guarito.

L’espressione sulla faccia di Aldrin mi ricorda come mi sono sentito tante volte. Mi rendo conto che ha paura. Lui ha spesso paura di qualcosa. Fa male aver paura per molto tempo, io lo so. Vorrei che non avesse quell’espressione, perché mi fa sentire che dovrei far qualcosa in proposito e non so cosa fare.

— Non è colpa sua — dico. Lo vedo rilassarsi. Era la cosa giusta da dire. Pure, è troppo facile. Io posso dirla, ma questo la rende vera? Le parole possono essere sbagliate. Le idee possono essere sbagliate.

— Vorrei essere sicuro che tu davvero sei… che davvero vuoi il trattamento — dice. — Nessuno più ti fa pressione…

Si sbaglia di nuovo, benché possa aver ragione nel dire che adesso la compagnia non ci costringe più. Ma adesso che io so che il cambiamento è inevitabile, adesso che so che è possibile, la pressione dentro di me cresce come l’aria gonfia un pallone o la luce pervade lo spazio. La luce non è passiva, preme contro qualunque cosa tocchi.

— È la mia decisione — dico. Intendo che io ho deciso, che sia giusto o sbagliato. Anch’io posso sbagliare.

— Grazie, Lou — dice il signor Aldrin. — Tu… voi tutti… significate molto per me.

Non so cosa voglia dire quel "significate molto per me". Letteralmente potrebbe voler dire che noi conteniamo molto significato che lui può ricevere da noi, ma non credo sia questo che il signor Aldrin intende. Comunque non chiedo spiegazioni. Sono ancora un po’ a disagio quando penso a tutte le volte che ci ha parlato. Non dico nulla. Dopo 9,3 secondi lui fa un cenno col capo e si volta per andar via. — Abbi cura di te — dice. — Buona fortuna.

Osservo che non dice "spero che tutto vada bene". Non so se lo faccia per ragioni di tatto o se pensi che tutto possa non andar bene. Esce nell’atrio e sento i suoi passi allontanarsi. Mi rilasso e tiro un respiro profondo. Finisco di togliere le mie girandole, spirali e decorazioni preferite. L’ufficio appare nudo, mentre la mia scrivania è ingombra. Non so se tutto entrerà nella scatola di Linda. Forse riuscirò a trovare un’altra scatola. Meglio sbrigarsi. Appena metto piede nell’atrio vedo Chuy alla porta che si dà da fare per tenerla aperta e infilarci dentro diverse scatole. Gli tengo aperto il battente.

— Ne ho portata una per ciascuno — dice. — Per risparmiare tempo.

— Linda ne ha portata una che sto adoperando io — spiego.

— Forse a qualcuno ne serviranno due — dice. — Tu puoi averne una se ti serve.

— Me ne serve una — dico. — Grazie.

Prendo una scatola più grande di quella portata da Linda e torno nel mio ufficio. Metto i manuali in fondo perché sono più pesanti, poi le penne tra i manuali e un lato della scatola, poi il ventilatore e infine le mie girandole, spirali e decorazioni. Penso al vento fuori. Sono leggere, potrebbero volar via.

Nell’ultimo cassetto trovo l’asciugamano che adopero per asciugarmi i capelli quando ho camminato dal parcheggio a qui nella pioggia. Lo ripiego e lo metto sulla scatola a riparare tutto il resto. Prendo su la scatola, nella quale è entrato tutto. Adesso sto facendo quello che ha fatto il signor Crenshaw: porto una scatola con dentro le mie cose fuori del mio ufficio. Se qualcuno mi guardasse, forse gli ricorderei lui, tranne che accanto a me non ci sono guardie. Io e il signor Crenshaw non ci somigliamo. Questa è la mia scelta; non credo che lui se ne sia andato di sua scelta. Mentre mi avvicino alla porta Dale esce dal suo ufficio. Mi apre il battente.

Fuori, le nuvole sono più spesse e la giornata sembra più scura e più fredda. Forse pioverà. Il vento è alle mie spalle e mi spinge. Vado alla mia macchina e giro dalla parte del passeggero. Metto a terra la scatola e con un piede tengo fermo l’asciugamano che il vento vorrebbe portar via. Apro lo sportello e metto sul sedile la scatola. Mi chiedo se devo tornare dentro, ma sono sicuro di aver portato via tutto. Non desidero mettere da parte il materiale relativo al mio ultimo lavoro perché sia riposto in archivio. Non voglio più vedere quel lavoro.

Però vorrei vedere ancora Dale, Bailey, Chuy, Eric e Linda. Una prima goccia di pioggia gelida mi cade sulla guancia, poi un’altra. Scuoto la testa e torno all’edificio. Apro la porta. Tutti gli altri sono nell’atrio, alcuni portano scatole colme e altri stanno lì e basta.

— Volete andare a mangiare? — chiede Dale.

— Sono soltanto le dieci e dodici — dice Chuy. — Non è óra di pranzo. Io sto ancora lavorando. — Lui non ha una scatola, Linda non ha una scatola. Sembra strano che quelli di noi che non se ne vanno abbiano portato le scatole per gli altri.

— Potremmo andare alla pizzeria più tardi — propone Dale. Ci guardiamo.

— Potremmo andare da qualche altra parte più tardi — dice Chuy.

— No, alla pizzeria — dice Linda.

Non diciamo altro. Io penso che non andrò.

Mi sembra molto strano guidare in un’ora mattutina in un giorno feriale. Ritorno a casa e parcheggio in uno spazio molto vicino all’entrata. Porto la scatola nel mio appartamento. Il palazzo è molto silenzioso. Metto la scatola nell’armadio a muro, dietro le scarpe.

L’appartamento è ordinato e tranquillo. Ho lavato le stoviglie della colazione prima di uscire, come faccio sempre. Mi tolgo di tasca il contenitore di plastica con gli spiccioli e lo metto sopra i cestini dei panni da lavare.

Ci hanno detto di portare tre cambi d’indumenti. Posso prepararli adesso. Non so che tempo farà e se avremo bisogno di abiti da passeggio oltre agli abiti da casa. Prendo la valigia dall’armadio e prendo le prime tre camicie di maglia dal secondo cassetto, poi tre cambi di biancheria e tre paia di calzini. Quindi due paia di calzoni avana e un paio di calzoni blu. E una felpa blu, in caso facesse freddo.

Ho uno spazzolino da denti, un dentifricio e una spazzola nuovi che tengo per le emergenze, ma non ne ho mai avute. Questa non è un’emergenza, comunque se li impacchetto adesso dopo non dovrò pensarci più. Metto lo spazzolino da denti, il dentifricio, il pettine, la spazzola, il rasoio e il sapone da barba nel borsello apposito e ripongo tutto in valigia. Consulto di nuovo la lista che ci hanno consegnata. È tutto qui. Allaccio le cinghie della valigia, poi la chiudo con la lampo e la metto via.

Il signor Aldrin aveva detto di contattare la banca, il gerente del palazzo e gli amici che eventualmente potrebbero preoccuparsi. Ci ha dato una dichiarazione da consegnare alla banca e al gerente. Lì si spiega che saremo assenti per un incarico temporaneo affidatoci dalla compagnia, che i nostri stipendi continueranno a essere versati in banca e che la banca s’incaricherà dei nostri pagamenti. Trasmetto la dichiarazione alla mia banca.

Scendo le scale. La porta dell’appartamento della gerente è chiusa, ma all’interno sento il ronzio di un aspirapolvere. Suono il campanello e il ronzio s’interrompe. Non sento rumore di passi, ma la porta si apre.

— Signor Arrendale. — La signora Tomasz, la gerente, pare sorpresa. Non si sarebbe aspettata di vedermi a metà mattina in un giorno feriale. — Non sta bene? Ha bisogno di qualcosa?

— Devo assentarmi per un incarico affidatomi dalla compagnia per cui lavoro — dico. Avevo provato questo discorso per esser certo di pronunciarlo scorrevolmente. Le porgo la dichiarazione. — Ho incaricato la banca di pagare l’affitto. Lei può contattarla se non dovesse farlo.

— Oh! — La donna prende il foglio e prima di leggerlo mi guarda. — Ma… resterà assente a lungo?

— Non lo so con precisione — rispondo — ma tornerò. — Non so nemmeno questo, però non voglio che lei si preoccupi.

— Non se ne va perché quell’uomo le ha tagliato le gomme nel parcheggio e poi l’ha assalita?

— No — dico. Non so perché lei pensi questo. — È un incarico speciale.

— Io rimasi tanto inquieta, ma tanto — dice la signora Tomasz. — Volevo salire per dirle… per dirle quanto mi dispiaceva, ma lei, sa… lei è sempre molto riservato.

— Sto bene — dico.

— Lei ci mancherà — dice. Non capisco come questo possa essere vero, dato che per la maggior parte del tempo nemmeno mi vede.

Quando torno nel mio appartamento vedo che è già arrivata la risposta automatica della banca. Dice che il messaggio è stato ricevuto, che il manager mi risponderà quanto prima e grazie per averci contattati.

Decido di scendere e andare a piedi al piccolo forno per il pranzo: avevo visto il cartello che offriva panini su ordinazione il giorno che avevo comprato là il pane. Il negozio non è affollato, ma non mi piace la musica che la radio trasmette: è troppo forte e ritmata. Ordino un panino al prosciutto. Fa un freddo eccessivo per mangiarlo fuori, così ritorno a casa e lo mangio nella mia cucina.

Potrei chiamare Marjory. Potrei portarla a cena questa sera o domani sera o sabato sera, se lei accettasse. Conosco i suoi numeri di telefono, sia sul lavoro che a casa. Appendo intanto le girandole e le spirali nel mio appartamento dove cominciano a girare per la corrente d’aria che filtra dalle vecchie finestre. I lampi di luce colorata che si riflettono sulle pareti sono riposanti e mi aiutano a pensare.

Se la chiamo e lei viene a cena con me, perché lo farebbe? Forse perché le piaccio, forse perché si preoccupa per me e forse perché le dispiace per me. Ma io non so con certezza se lo farebbe perché le piaccio. Per avere lo stesso sentimento in direzioni opposte, io dovrei piacerle come lei piace a me. Altrimenti non si avrebbe uno schema simmetrico.

Di che cosa potremmo parlare? Delle funzioni cerebrali lei non sa più di quanto ne sappia io adesso. Non è il suo campo. Ambedue tiriamo di scherma, ma non credo che potremmo parlare di scherma tutto il tempo. E non credo che lei s’interessi allo spazio; come il signor Aldrin, sembra lei pensi che il lavoro che si fa lì sia uno spreco di denaro.

Se torno… se il trattamento funziona e io divento come gli altri uomini nel cervello come nel corpo… lei mi piacerà come mi piace adesso?

O Marjory è un altro caso della piscina con l’angelo… e io l’amo perché credo sia l’unica che posso amare?

Mi alzo e metto su la Toccata e Fuga in Re minore di Bach. La musica costruisce un complicato panorama di valli e montagne e grandi golfi di aria fresca e ventosa. Amerò ancora Bach quando tornerò, se tornerò?

Per un istante il terrore mi ghermisce in tutto l’essere e precipito nel buio, più velocemente di quanto qualsiasi luce possa raggiungermi, ma la musica si alza sotto di me, mi solleva come un’onda oceanica e io non ho più paura.


Venerdì mattina. Vorrei andare al lavoro, ma nel mio ufficio non c’è niente da fare, e non c’è niente da fare nemmeno nel mio appartamento. La conferma della banca è arrivata.

Mi chiedo se devo mettermi in contatto con gli altri, ma decido di no. Non desidero parlare con loro. Non sono abituato ad avere un giorno così, una vacanza non pianificata, e non so cosa fare. Potrei andare a vedere un film o leggere un libro, però sono troppo nervoso per questo. Potrei andare al Centro, ma non mi va neanche questo.

Lavo i piatti della colazione e li ripongo. Di colpo l’appartamento è troppo silenzioso, troppo grande e vuoto. Non so dove andrò, ma devo andare da qualche parte. Metto in tasca il portafogli e le chiavi ed esco. Esco con soli cinque minuti di ritardo rispetto ai giorni lavorativi.

Anche Danny sta scendendo le scale. Mi dice: — Ciao, Lou, come va? — tutto d’un fiato. Penso che abbia fretta e non abbia voglia di parlare. Gli dico "ciao" e niente di più.

Fuori il tempo è nuvoloso e freddo, ma in questo momento non piove. C’è vento, però non quanto ieri. Mi dirigo alla mia macchina ed entro. Non giro la chiave di avviamento, perché ancora non so dove andrò. Prendo la mappa dallo scompartimento del cruscotto e l’apro. Potrei andare al grande parco fuori città a guardare le cascate. Molta gente va a farci camminate in estate, ma credo che di giorno il parco sia aperto anche d’inverno.

Un’ombra cade sul finestrino. È Danny. Abbasso il vetro.

— Stai bene? — mi chiede. — Qualcosa non va?

— Oggi non vado al lavoro — rispondo. — Sto decidendo dove andare.

— Allora è tutto a posto — dice. Sono sorpreso: non sapevo che s’interessasse tanto a me. E se è così, forse vorrà sapere che sto per andarmene.

— Sto per andarmene — annuncio.

Il suo viso cambia espressione. — Ti trasferisci? A causa di quel mascalzone? Ma ormai non può più farti del male, Lou.

È interessante che sia lui che la gerente abbiano subito pensato che volessi andar via a causa di Don.

— No, non mi trasferisco — spiego. — Però starò fuori per diverse settimane. C’è un nuovo trattamento sperimentale e la mia compagnia vuole che lo provi.

Danny sembra preoccupato. — La tua compagnia… ma tu vuoi provarlo? Stanno cercando di costringerti?

— No, è una decisione mia — dico. — Ho deciso io di sottopormici.

— Be’… allora… Spero che tu abbia ricevuto buoni consigli.

— Sì — dico, ma non dico da chi.

— Quindi hai il giorno libero? O te ne vai oggi? Quando ti verrà somministrato quel trattamento?

— Oggi non devo lavorare. Ho sgomberato ieri il mio ufficio. Il trattamento viene somministrato alla clinica del campus dove lavoro, ma in un edificio differente. Comincerà lunedì. Oggi non ho nulla da fare e pensavo di andare a Harper Falls.

— Abbi cura di te, Lou. Spero che ti vada tutto bene. — Danny picchia sul tetto della macchina e si allontana.

Non capisco con chiarezza cosa lui spera che mi vada bene. La gita a Harper Falls o il trattamento? Non so nemmeno perché abbia picchiato sul tetto della macchina. So però che non m’incute più paura, un altro cambiamento che mi è capitato da solo.


Al parco pago il biglietto e mi fermo nel parcheggio. Cartelli indicano i diversi itinerari: ALLE CASCATE, 290,3 METRI. BUTTERCUP MEADOW, 1,7 KM. ITINERARIO JUNIOR 1,3 KM. L’itinerario junior e il sentiero completamente accessibile sono asfaltati, ma il sentiero per le cascate è inghiaiato. M’incammino, e le mie scarpe fanno scricchiolare i sassolini. Non c’è nessuno. Gli unici suoni sono quelli della natura.

Gli alberi ormai hanno perduto quasi tutte le foglie, che giacciono a terra fradice per la pioggia di ieri. Sotto di me posso vedere foglie rosse risplendere perfino in una giornata come questa, su aceri che sopravvivono in questa zona più fresca.

Mi sento rilassato. Agli alberi non importa se sono normale o no. Non importa nemmeno alle rocce e al lichene. Loro non fanno differenza tra un essere umano e un altro, e questo è riposante. Qui non sono obbligato a pensare a me stesso.

Mi fermo per sedermi su una roccia e lascio penzolare le gambe. Se qualcuno dicesse agli ultimi aceri che potevano cambiare e vivere felici in un clima più caldo, loro avrebbero scelto di farlo? E se poi questo avesse significato la perdita di quelle foglie trasparenti che diventano di un colore così stupendo ogni anno?

Tiro un respiro profondo e annuso le foglie bagnate, il muschio sulle rocce, i licheni, le rocce stesse, la terra… Alcuni testi dicono che gli autistici sono troppo sensibili agli odori, ma nessuno si lamenta di questa caratteristica in un gatto o in un cane.

Ascolto i fievoli rumori del bosco che si sentono perfino oggi, con le foglie umide ormai quasi tutte cadute e giacenti silenziose a terra. Alcune, poche, sono ancora sui rami e si agitano al vento. Ali si agitano, e sento il cinguettio di un uccello che non si vede. Alcuni testi dicono che gli autistici sono troppo sensibili ai rumori di fondo, ma nessuno si lamenta di questa caratteristica negli animali.

Tuttavia qui nessuno di quelli che si lamentano è presente. Io ho tutta la giornata per godermi le mie sensazioni eccessive e sregolate, caso mai non dovessi più averle tra una settimana. Spero però che godrò quelle che avrò allora, quali che siano.

Mi chino e tocco con la lingua la pietra, il muschio, i licheni e poi, chinandomi ancora di più, le foglie bagnate alla base della roccia. Poi la corteccia di una quercia (amara, pungente) e quella di un pioppo (dapprima insapore, poi dolciastra).

Scendo il lieve pendio… trovo una felce da toccare con la lingua… ha solo una foglia ancora verde e non ha sapore. E le cortecce di altri alberi, per la maggior parte non li conosco ma posso dire che sono diversi dalle loro configurazioni. Ognuno ha un sapore lievemente differente, indescrivibile, un odore lievemente differente, un differente sentore al tatto nella corteccia, che è più ruvida o più liscia sotto le mie dita. Il rumore della cascata, dapprima un rombo sordo, si dissolve nei molti suoni che lo compongono: il boato della cascata principale che martella le rocce al di sotto, gli echi di quel boato che si trasformano in scrosci, il trillo degli spruzzi e delle cascatelle, il quieto sgocciolare delle perle di umidità che si staccano dalle foglie delle felci bruciate dal gelo.

Guardo l’acqua che cade cercando di distinguerne ogni parte individuale, le masse apparenti che convergono sull’orlo e poi cadono separandosi… Cosa proverebbe una goccia nello scivolare su quel bordo di roccia per cadere nel nulla? L’acqua non ha mente, non può pensare, ma la gente… la gente normale… scrive di fiumi veementi e di onde furiose come se non credesse a questa impassibilità.

Una sbavatura di vento mi porta uno spruzzo sul viso. Alcune gocce hanno sfidato la gravità e si sono innalzate nel vento, ma non per ritornare da dove erano venute.


Sto quasi per pensare alla mia decisione, all’ignoto che mi aspetta, all’impossibilità di tornare indietro, però oggi non voglio pensare. Voglio provare tutte le sensazioni che posso per serbarle nella memoria, se avrò memorie in quel futuro inconoscibile. Mi concentro sull’acqua, cercando di percepirne gli schemi, l’ordine nel caos e il caos nell’ordine.


Lunedì, nove e ventinove. Sono nella clinica, che si trova all’estremità opposta del campus rispetto alla sezione A. Siedo su una poltroncina tra Dale e Bailey.

Le poltroncine sono di plastica grigio chiaro con imbottiture di tweed azzurro, verde e rosa sullo schienale e sul sedile. Dall’altra parte della stanza c’è un’altra fila delle medesime poltroncine. Le pareti sono a strisce in due toni di grigio fino a una certa altezza, e poi sono state rifinite in color avorio. Di fronte a noi ci sono due quadri; uno rappresenta un paesaggio con campi verdi e una collina sullo sfondo, l’altro un mazzo di papaveri in un bricco di rame. All’estremità opposta della stanza c’è una porta. Non so dove conduca, non so se è da essa che dovremo passare.

Il mio stomaco è un grumo di gelo in un grande spazio vuoto. Mi sento la pelle come se qualcuno l’avesse tirata troppo.

Quando cerco d’immaginare il futuro… il resto di questo giorno, domani, la settimana prossima, il resto della mia vita… mi par di guardare nella pupilla del mio occhio e vedo solo il nero rispondere al mio sguardo. È il buio che si trova già lì prima che la luce arrivi, ignoto e inconoscibile prima di quell’arrivo.

La non conoscenza viene prima della conoscenza; il futuro viene prima del presente. Da questo momento passato e futuro sono uguali ma in opposte direzioni; però io sto andando da quella parte e non da questa.

E quando ci arriverò, la velocità della luce e quella del buio saranno uguali.

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