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Il giorno dopo, Roger telefonò a Pino Fugazza per dirgli che c’era un problema con il Partitum Mutante. Un problema tecnico, disse. Ormai l’avevano provato così a fondo, disse, che erano nella posizione di distinguere le asperità che derivavano da una scarsa dimestichezza con lo spartito da quelle che forse… be’, erano nello spartito stesso.

Mentre Roger parlava, gli altri componenti del Coro Courage erano seduti nei paraggi a chiedersi come avrebbe reagito Pino, soprattutto sentendo che Roger veniva indotto, poco a poco, a entrare sempre più nel merito del problema, vale a dire che, in un certo punto, le indicazioni temporali di Pino proprio non tornavano. L’ardita aritmetica musicale dell’italiano, un’intricata foresta di poliritmie indipendenti, doveva risolversi alla 404a barra (per simboleggiare i 4004 anni che andavano dalla Creazione alla nascita di Cristo), così che Roger e Catherine si ritrovavano a un tratto a cantare perfettamente all’unisono, raggiunti alla barra successiva da Julian e Dagmar, mentre Ben manteneva i toni bassi di sottofondo.

— Il fatto è, — disse Roger al telefono, — che alla 404a barra il baritono è una battuta indietro rispetto al soprano.

Dalla cornetta arrivava un chiacchiericcio stridulo, indecifrabile per gli altri.

— Be’… — disse Roger con una smorfia, assestandosi gli occhiali per guardare lo schermo del computer. — Può darsi che non abbia capito bene qualcosa, ma tre blocchi di 9/8 e uno di 15/16 ripetuti con una pausa di due battute… mi segue?

Altre chiacchiere.

— Sì. Ma allora, dal la bemolle si passa… Come? Uh… Sì, ce l’ho proprio qui davanti, signor Fugazza… Ma certo, tredici più otto non fa ventuno?

Detto questo la chiacchierata si risolse rapidamente. Roger depose il ricevitore e si girò verso gli ansiosi colleghi del Coro.

— Ci dà il suo beneplacito, — disse, increspando stupefatto la fronte. — Possiamo fare come ci pare e piace.

Era una libertà che nessuno di loro avrebbe previsto.


Quel pomeriggio, mentre il Coro Courage faceva una pausa per rinfrescarsi la gola con il succo di frutta, una macchina si fermò davanti alla casa. Roger aprì la porta, e fece entrare un fotografo brizzolato che aveva tutta l’aria di un prete spretato.

— Salve! Il Coro Courage? Carlo Pignatelli.

Era italiano, ma lavorava per un giornale lussemburghese che l’aveva mandato a fare un servizio sul Benelux Contemporary Music Festival. Aveva già visionato il materiale pubblicitario sul Coro, e sapeva esattamente che cosa voleva.

Dagmar era sola in salotto con un bicchiere di succo d’albicocca fra le mani mentre i membri inglesi del gruppo si aggiravano intorno al forno cercando di tostare il pane. Pignatelli andò dritto sparato verso la ragazza tedesca, che indossava un pantacollant nero e una camicia di cotone bianca.

— Lei è Dagmar Belotte, giusto? — La cosa preoccupante era che sembrava aver imparato l’inglese guardando le soap operas in londinese stretto con i sottotitoli; in realtà aveva appena fatto ritorno in seno alla stampa europea dopo dieci anni etilici a Londra.

— Giusto, — disse Dagmar, deponendo il bicchiere sul pavimento. Aveva già capito che con quel tizio le servivano tutt’e due le mani.

— Lei è un’appassionata di alpinismo, giusto? — disse Pignatelli, come se azzardasse qualche deduzione dopo un’intervista lunga e estenuante.

— Giusto, — disse Dagmar.

— Non è che per caso ha con sé qualche attrezzo?

— Per farne che?

— Una foto.

— Una foto di cosa?

— Una foto di lei con gli attrezzi da alpinista. Corde —. Indicò con la mano pelosa da quale punto del corpo avrebbero dovuto pendere le corde, usando fortunatamente il proprio petto anziché quello di Dagmar per la dimostrazione. — Piccone —. Mimò un piccolo gesto violento contro l’invisibile parete di una rupe.

— Qui non ci sono montagne, — disse Dagmar in tono uniforme.

Il fotografo era pronto ai compromessi. Facendosi immediatamente un’idea dello spirito che regnava nel castello, posò per qualche microsecondo gli occhi sulla serie di flauti dolci antichi, poi disse:

— Suona il flauto?

— No.

— Le dispiace reggerne uno?

Dagmar rimase un attimo senza parole, cosa che lui prese per un assenso. Sorprendentemente lesto di gambe, raggiunse d’un balzo i flauti e scelse il più grosso. Porgendolo a Dagmar, le lanciò uno sguardo di incoraggiamento poi, servendosi di una sola mano, estrasse la macchina fotografica dalla custodia in un gesto consumato. Dagmar incrociò le braccia sul petto, stringendo il flauto in pugno come il manganello di un poliziotto.

— Non è che potrebbe metterlo in bocca? — suggerì il fotografo.

— Se lo può scordare, — disse Dagmar, scagliando lo strumento sul cuscino del divano.

— Non c’è un pianoforte a coda? — ribatté il fotografo, con la rapidità di un lampo. Di sicuro non avrebbe avuto obiezioni ad appoggiarsi al piano e giocherellare con le corde, con il coperchio a farle scudo.

— No, è… — La parola che Dagmar cercava non voleva saperne di tradursi dal tedesco. Considerò l’eventualità di dire «eretto», ma subito la declinò. — Non è a coda, — disse, gli occhioni stretti in una fessura.

Imperterrito, il fotografo diede un’occhiata fuori per valutare le condizioni atmosferiche. Per fortuna, da un qualche punto della casa si levò il rumore sonoro di un grido umano sconsolato che non poteva essere ignorato.

— Mi scusi, — borbottò Dagmar, allontanandosi a gran passi in cerca del figlio.

Il fotografo spostò immediatamente l’attenzione su Catherine.

— È vero, — disse, raccogliendo il bicchiere di succo mezzo vuoto di Dagmar, — che un soprano è capace di mandare il cristallo in frantumi?

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