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Il Partitum Mutante era una vera goduria per almeno uno dei suoi esecutori: Benjamin Lamb. Evidentemente Pino Fugazza aveva un debole per le litanie reboanti dei monaci tibetani e nel suo brano aveva inserito a profusione qualcosa di molto analogo per le parti destinate al basso.

Se gli altri componenti del Coro Courage dovevano imparare melodie complesse e acrobatiche in tonalità ingrate, a Benjamin veniva richiesto di mormorare come un organo battuta dopo battuta. All’inizio del brano, i suoi vocalizzi erano intesi a comunicare nientemeno che la nascita dell’universo, compito che lui affrontava con una risonanza agghiacciante degna di un santo himalayano… anzi di molti.

— Muooooooiiiinnng, muoooooiiiiinnng, muooooooiiiinnng, — cantava, dal profondo del grosso ventre.

Pino Fugazza, però, era un tipo scaltro: aveva cronometrato le discese del baritono in modo che Roger coprisse le pause di Ben per riprendere fiato, creando l’illusione di un’incessante sirena di basso. E, proprio quando sembrava che la musica dovesse rimanere abissalmente cupa in eterno, Julian si inseriva intonando la prima vera parola con voce alta e pura: «Dio»… in sol maggiore, naturalmente.

Il vero problema sorgeva con l’ingresso delle voci femminili, un riflesso indubbiamente della filosofia italiana, filtrata dalla tradizione giudaico cristiana, in materia di rapporti umani. A quel punto il manoscritto assumeva una complessità preoccupante, le note affollavano le linee divisorie delle battute come truppe compatte di formiche schiacciate in massa incontro a qualcosa di irresistibile.

Dagmar e Catherine cantarono fino a grondare sudore, che colava dalla fronte andando a imbrattare le pagine. Cantarono fino ad avere mal di gola. Cantarono finché non si sentirono indotte a fissarsi con aria implorante, come due schiave in una piantagione desiderose che l’altra non crolli, perché questo spianerebbe la strada a un destino ben più infausto. Le ore passavano, non in un flusso lineare, bensì in ripetizioni infinite di due minuti qua, cinque minuti là, poi gli stessi due minuti di prima, e avanti così a oltranza.

Finalmente, mentre calava di nuovo la sera, il Coro arrivò alla fine del brano e, uno a uno, i vari cantanti si dileguarono, lasciando Catherine a portare il Partitum Mutante a conclusione. L’ultimissima nota era un do altissimo, da raggiungere scalando varie battute a partire da due ottave più giù, e da tenere per quindici secondi, aumentando il volume, prima di lasciarlo sfumare nel nulla. Estatica all’idea di scorgere la fine, Catherine cantò quella nota con la purezza e la sicurezza di un piffero.

Per vari secondi dopo che lei ebbe pilotato le ultime tracce della nota verso l’oblio, il resto del Coro Courage rimase muto. Nella quiete straordinaria del bosco di Martinekerke respiravano come bambini, e nessuno voleva essere il primo a parlare.

— Devo confessare che quella nota mi preoccupava un po’, — disse Roger alla fine. — Ben fatto.

Catherine arrossì nascondendosi la gola dietro la mano.

— Si direbbe che riesco a prendere note sempre più alte, — disse.

Non appena ebbe concluso, tornò a insediarsi il silenzio, perciò riprese a parlare, usando la conversazione per colmare il vuoto.

— Se da piccola avessi avuto una di quelle madri che ti stanno col fiato sul collo, forse a quest’ora sarei un soprano leggero.

Dagmar stava liberando le gambe dalla posizione del loto con una smorfia di disagio, e intanto agitava i piedi nudi — la sua soluzione personale al dilemma delle ciabatte.

— Perché, che tipo di madre avevi? — chiese.

Catherine alzò gli occhi al soffitto, cercando un’indicazione lassù sul tipo di madre che aveva avuto.

— A dire il vero era una violoncellista, — rispose meditabonda, — suonava nell’orchestra sinfonica della Bbc.

— Intendevo che tipo di persona era.

— Umm… non saprei, — mormorò Catherine, la visione sempre più indistinta mano a mano che fissava il raffinato mosaico di crepe nella vernice sovrastante. — Andava via spesso, e poi si è suicidata quando io avevo dodici anni.

— Oh, mi dispiace, — disse Dagmar.

Era strana quell’uscita così fiacca e formale pronunciata nei toni vigorosi della ragazza tedesca. L’asprezza dell’accento faceva sembrare l’espressione di cordoglio tutt’altra cosa, eppure non c’era una sola nota insincera: anzi, era proprio la sincerità di Dagmar a creare quella dissonanza. La frase: «Oh, mi dispiace» sembrava fatta apposta per essere cantata sottovoce in una cadenza femminile.

— Figurati, non c’è problema, — disse Catherine, abbassando lo sguardo per sorridere a Dagmar. L’immagine persistente azzurro spettrale del lampadario appeso al soffitto fluttuò come un’aura intorno al viso della ragazza tedesca. — È capitato a me trovarla… o di trovarla. Come si dice, Roger? — Gli lanciò un’occhiata, non abbastanza lunga però da cogliere l’espressione corrucciata e il sopracciglio che si agitava segnalandole di stare zitta. — L’ha fatto a letto, con i sonniferi e una busta di plastica ficcata in testa.

Dagmar strinse gli occhi senza dire niente, immaginando la scena e l’effetto che poteva aver prodotto su una bambina. Julian, invece, non riuscì a trattenersi.

— Ha lasciato un biglietto? — si informò.

— No, — rispose Catherine. Roger intanto, alla periferia della sua attenzione, si alzava facendo frusciare dei fogli. — Anche se la busta di plastica non era una qualsiasi. Era dell’Unicef, con delle immagini di bambini sorridenti. Mi sono sempre chiesta che cosa significasse.

Perfino Julian non sapeva più che pesci pigliare.

— Brutta storia, — disse, alzandosi in piedi per seguire Roger in cucina.

Dagmar si asciugò la fronte con il braccio. Nel compiere quel gesto, il tessuto della maglietta le si incollò ai seni, mettendola in guardia sul fatto che aveva perso il latte dai capezzoli.

— Scusami, — disse.


— Secondo te quanto tempo è passato, — chiese Roger quella sera a letto, — dall’ultima volta che abbiamo fatto l’amore? — Guidare un gruppo canoro gli aveva insegnato a celare la sua pedanteria sotto le mentite spoglie della consultazione.

— Non lo so, — disse lei sinceramente. — Un bel po’, direi —. Sarebbe stato… poco diplomatico dare a intendere qualcosa di diverso, ovviamente.

Il silenzio arcano del bosco di Martinekerke tornò a insediarsi nella camera da letto nero inchiostro. Catherine si chiese che fine avesse fatto la luna, avrebbe giurato che la notte prima era quasi piena. Dovevano esserci le nuvole a nasconderla.

— Allora secondo te abbiamo un problema? — disse Roger dopo un po’.

— Niente che non possa risolversi nel migliore dei modi, ne sono sicura, — disse Catherine. — Il dottore l’ha detto che gli antidepressivi potevano inibire… cioè… il desiderio —. La parola risultò di un romanticismo da far aggricciare, il genere di parola alla Barbara Cartland, a meno di non voler risalire a William Blake.

What is it that women do require?

The lineaments of gratified desire.

Che cosa richiedono le donne?

I lineamenti del desiderio appagato.

In parte era proprio per risparmiarsi di scoprire cosa mai potessero significare parole come lìneaments che Catherine aveva permesso a Roger di sottrarla al Magdalen’s College.

— Mi stai ascoltando? — la sollecitò lui nel vuoto della notte priva di rumori.

— Sì, — lo rassicurò lei. — Stavo solo pensando.

— A che cosa?

— Non me lo ricordo più —. Si lasciò sfuggire una risatina imbarazzata.

Roger rimase immobile per qualche altro secondo o per qualche minuto, poi si girò sul fianco, portandosi di fronte a lei. Non lo vedeva in faccia, però sentì il suo gomito affondare sul bordo del proprio cuscino e avvertì, al centro del letto vicino alle cosce, il calore del suo… be’, del suo desiderio.

— Sei ancora una bella donna, lo sai, — disse lui con voce pacata, profonda.

Catherine, incapace di controllarsi, sbottò in una sonora risata. Quel blando complimento, porto in modo così solenne, così seducente, in un momento in cui nessuno dei due vedeva un emerito accidenti, per qualche motivo le sembrava intollerabilmente spassoso.

— Scusa, scusa, — bisbigliò, umiliata all’idea che Julian potesse sentirli attraverso la parete. — Devono essere gli antidepressivi.

Roger piombò sulla schiena con una veemenza che fece oscillare le molle del letto.

— Magari sarebbe ora che smettessi di prenderli, — le propose stancamente. — Voglio dire, hai avuto idee suicide ultimamente?

Catherine fissò fuori dalla finestra, sollevata nel vedere un pallido bagliore lunare trapelare in cielo.

— Vanno e vengono, — disse.

Qualche ora dopo, mentre lui dormiva, Catherine si mise a piangere in silenzio. Avrebbe tanto voluto cantare una canzone fra sé, qualcosa di dolce e ritmato, un piccolo Lied di Schubert o magari una filastrocca. Stella, stellina, la notte si avvicina sarebbe stata perfetta. Ma ovviamente non era possibile. Le bruciava la gola per aver cantato il Partitum Mutante, e poi aveva il terrore di svegliare il marito, in una strana camera da letto in mezzo a un bosco belga, mentre quella vipera di Julian Hind stava con l’orecchio teso pronto a cogliere il minimo fruscio al di là del muro. Mio Dio, com’era arrivata a quel punto?

A un tratto, sentì un breve grido acutissimo levarsi da grande distanza. Non era Axel, almeno non le sembrava; quel bambino dormiva come un angioletto tutta la notte e, di giorno, a malapena si lasciava sfuggire un suono a meno di non mandare a fuoco una fetta di pane belga proprio sotto il suo naso.

Catherine sentì la pelle corsa da un brivido elettrico al ripetersi del grido. Non sembrava umano o, ammesso che lo fosse, era in parte anche qualcos’altro. Quanto avrebbe voluto scivolare dall’altro lato del letto, nel grande abbraccio protettivo di qualcuno che di sicuro non le avrebbe fatto niente se non tenerla al caldo e al sicuro. Tipi difficili da trovare, stando alla sua esperienza.

Invece, si tirò le coperte fino alla bocca e rimase immobile, a contare le grida finché non si addormentò.

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