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Al calare del buio, verso le nove di sera, finalmente comparve Dagmar. Il direttore era andato via da un pezzo; il Coro Courage era tutto preso a disfare i bagagli, lanciarsi voci, mangiare Corn Flakes (Nieuw Super Knapperig!) e in altre attività di insediamento. Fu Ben a scorgere, dalla finestra al piano di sopra, la minuscola figura che si avvicinava in bicicletta da grande distanza. Si riversarono tutti fuori, un comitato di benvenuto per il loro contralto prodigo.

Dagmar aveva pedalato dalla stazione di Duidermonde con un pesante zaino in spalla e i cestini anteriore e posteriore della bicicletta stracolmi. Il sudore luccicava sul collo e impregnava la larga T-shirt bianca rendendola trasparente a contatto con il reggiseno nero e la cassa toracica abbronzata; scuriva le ginocchia dei pantacollant sportivi blu elettrico e scintillava nella frangetta scompigliata dei capelli nerissimi. Eppure lei sembrava ancora piena di energie mentre scendeva dalla bici portandola a mano verso i colleghi del Coro.

— Scusate se ci ho messo tanto; quelli del traghetto mi hanno fatto un mucchio di storie, — disse, gli occhioni castani che si stringevano leggermente per l’imbarazzo. Come tutti gli anticonformisti vistosi, preferiva sfrecciare davanti a quelli che la guardavano ammirati, lasciandoli a bocca aperta sulla sua scia, anziché farsi esaminare con tutto comodo mentre pedalava coprendo miglia e miglia di una strada piatta per raggiungerli.

— Tranquilla, tranquilla, non abbiamo ancora cominciato, — disse Roger, avanzando per liberarla dall’ingombro della bici, che però lei decise di affidare a Ben. Nonostante la stazza imponente, poco adatta per pedalare, Dagmar era sicura che lui sapesse cosa farne.

Dondolando leggermente sulle Reebok che aveva ai piedi, Dagmar si asciugò la faccia con la T-shirt. La parte bassa del torace, come il resto della pelle, aveva il colore dei toffee.

— Be’, vedo che il parto non ha deturpato il tuo fisico d’atleta, — fu il commento di Julian.

Dagmar liquidò quel complimento incompetente e vacuo con una scrollata di spalle.

— In realtà ho perso un casino di tono muscolare, — disse. — Cercherò di recuperarlo qui.

— Tonificare i muscoli! — cinguettò Julian, sforzandosi, come sempre succedeva dopo qualche minuto che si trovava in presenza di Dagmar, di mantenere un atteggiamento amichevole. — Non è per questo che siamo venuti?

Il pensiero del figlio di otto settimane di Dagmar risvegliò Catherine dal suo torpore. — Chi si occupa del piccolo Axel? — chiese.

— Non è un problema, — rispose Dagmar. — Starà qui con noi.

Quella rivelazione proiettò drasticamente in avanti il mento di Julian. Già la gravidanza di Dagmar era stata un duro colpo per lui; ma ora la prospettiva del bambino che l’avrebbe raggiunta era veramente troppo.

— Io… non… credo che sia una buona idea — disse, il tono meditabondo e musicale, come se Dagmar gli avesse chiesto un parere e lui avesse riflettuto a lungo prima di rispondere.

— Ma davvero? — fece lei freddamente. — E come mai?

— Be’, pensavo solo che se ci hanno dato questo spazio, questo spazio letterale e metafisico, per fare le prove, lontano dal rumore e dalle distrazioni, be’… sembra strano portarci un neonato e i suoi piagnistei, ecco tutto.

— Veramente mio figlio non è tipo da piagnistei, — disse Dagmar, sventolando l’orlo della T-shirt per far entrare l’aria fresca. — Per essere un maschio, è molto meno rumoroso di tanti altri —. E passò davanti a Julian per impossessarsi del proprio territorio allo Château de Luth.

— Be’, avremo modo di appurarlo, — osservò Julian mestamente.

— È quello che penso anch’io, — disse Dagmar da sopra la spalla. Sulla schiena, annidato nello zaino rigonfio, un neonato dai capelli dritti dormiva il sonno del giusto.


Quando il Coro Courage si predispose alla prima vera prova del Partitum Mutante era ormai buio. Le luci brunite riversavano un bagliore ramato sulla stanza, e le finestre riflettevano cinque improbabili individui con luminosa chiarezza. A Catherine, quelle persone riflesse sembravano legate da un sodalizio: cinque moschettieri pronti a dare battaglia.

Se solo fosse riuscita a concentrarsi su quell’immagine irreale, che brillava su una lastra di vetro con un bosco alle spalle, si sarebbe vista attaccata con le unghie e con i denti al proprio ruolo all’interno di quella piccola confraternita. Le prove costituivano sempre la sfida più ardua; l’esibizione finale era una passeggiata in confronto. Il pubblico, che li vedeva sul palco come se fossero una lontana proiezione, sapeva solo che erano un clan affiatato, e questo a loro permetteva di comportarsi come tale. La pedana da concerto, con la sua artificiosità, era a prova di eventi sgradevoli: nessuno litigava, né metteva il broncio, né faceva a Catherine domande a cui non sapeva rispondere, né si aspettava che acconsentisse a fare sesso. Si limitavano a cantare, in perfetta armonia. Anzi, nel caso del Partitum Mutante di Pino Fugazza, in perfetta disarmonia.

— Fa diesis, Kate, non fa naturale.

— Dici sul serio?

— È quello che c’è scritto. Almeno sul mio spartito.

— Scusa.

Il trucco stava nel superare la distanza che li separava dalla prima.

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