Il giorno in cui arrivò la buona notizia, Catherine trascorse le prime, poche ore dal risveglio trastullandosi con l’idea di buttarsi dalla finestra del suo appartamento. Trastullarsi è forse un termine troppo blando; in realtà aprì la finestra e si sedette sul davanzale, chiedendosi se quattro piani bastassero a garantirle la morte. Non contemplò l’eventualità della tetraplegia: odiava gli ospedali, con quella loro sintesi di noia e trambusto. Meglio dritti alla tomba. Se solo avesse potuto piombare da mille piani d’altezza, forse il corpo si sarebbe addirittura seppellito da solo al momento dell’impatto con il terreno morbido e spugnoso.

— Buone notizie, Kate, — disse il marito senza alzare la voce, nonostante fosse rintanato nello studio a leggere la posta del giorno.

— Davvero? — fece lei, premendo una mano contro le pieghe della vestaglia per impedire al vento gelido di continuare a soffiarle nello spazio fra i seni.

— Le due settimane di prove a Martinekerke si faranno.

Catherine guardava il terreno sottostante. Una mezza dozzina di bambini dai vestiti colorati gironzolavano per il parcheggio, e lei si chiese perché mai non fossero a scuola. Poi si chiese come avrebbero reagito vedendo una donna cadere, apparentemente dal cielo, e scoppiare come un grosso frutto proprio sotto i loro occhi.

A quel pensiero sentì una misteriosa sostanza chimica naturale affluire goccia a goccia nell’organismo, un’iniezione molto più efficace dei suoi antidepressivi.

— Caro, è… è festa a scuola? — disse forte rivolta a Roger, scivolando giù dal davanzale per tornare sul tappeto. Il pelo berbero sembrava bollente a contatto con i piedi scalzi e gelidi, come appena uscito da un’asciugatrice. Fatto qualche passo, si accorse di essere insensibile dalla vita alle ginocchia.

— A scuola? Non chiederlo a me, — rispose il marito, con una punta di esasperazione non mitigata dal filtro delle pareti. — Dal sei al venti luglio.

Catherine zoppicò fino allo studio, passandosi le dita tra i capelli scompigliati.

— No, no, — disse, facendo capolino da dietro la porta. — Oggi. È festa oggi a scuola?

Roger, seduto come sempre alla scrivania, alzò lo sguardo dalla lettera che aveva in mano. Sbirciò da sopra gli occhiali da lettura poggiati sulla punta del naso con fare tollerante. La pancia digitale del suo pc emise un discreto blurp.

— Non ne ho la più pallida idea, — disse. A cinquantadue anni, veterano dai capelli grigi di un matrimonio rimasto scrupolosamente senza prole per tre decenni, riteneva ovviamente di essersi guadagnato il diritto a trascurare certe inezie. — Perché?

Lei, che l’aveva già dimenticato, fece spallucce. La vestaglia le scivolò giù dalle spalle nude, facendo scattare all’insù un sopracciglio del marito. In quello stesso istante, Catherine si accorse che lui non era più in pigiama, ma si era vestito con cura e di tutto punto. Riannodando la vestaglia, si sforzò di ricordare come lei e Roger fossero riusciti ad avviare con tanta disparità la loro giornata. Si erano svegliati insieme quella mattina? Anzi, avevano dormito insieme o era stata una di quelle notti in cui lei si raggomitolava nella camera degli ospiti ad ascoltare il canto piano e sommesso dei cd di Roger attraverso il muro in attesa del silenzio? Non riusciva a ricordarlo; i giorni si affastellavano nella sua mente. La notte appena trascorsa era già lontanissima.

Sfoggiando un sorriso, scrutò la scrivania in cerca della tazza preferita dal marito senza riuscire a individuarla.

— Metto il bollitore sul fuoco, va bene? — si offrì.

Lui estrasse dal nulla la sua tazza di caffè bollente.

— Sarebbe meglio qualcosa da mangiare, — disse.


Deciso a comportarsi normalmente, Roger prese il telefono e fece il numero di Julian Hind.

Scattò la segreteria telefonica, e la penetrante voce tenorile di Julian intonò: — Be-elzebub has a devil put aside for me-e-e… for me-e-e… for mee-eeeee! — toccando gigionescamente punte da soprano senza nulla perdere in volume. Roger aveva ormai imparato a tenere la cornetta lontana dall’orecchio per tutta la durata dell’esibizione.

— Salve, — disse poi la voce, — sono Julian Hind. Se avete un diavolo in serbo per me, o qualunque altra cosa, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.

Roger lasciò il messaggio, sapendo che con tutta probabilità Julian era lì, accanto al telefono, la testa dalla frangetta floscia china da un lato, in ascolto.


Subito dopo, Roger fece il numero di Dagmar. Squillò a lungo prima che lei rispondesse, e Roger si chiese se non fosse di nuovo assente ingiustificata. Avrebbe fatto meglio ad andarci piano con l’alpinismo, date le circostanze!

— Sì? — rispose Dagmar alla fine, l’accento tedesco che impregnava anche una parola così piccola. Non sembrava in vena di chiacchiere.

— Ciao, sono Roger, — disse lui.

— Roger chi? — Le vocali avevano le sonorità di una tromba, anche al telefono.

— Roger Courage.

— Ah, ciao, — fece lei. A un tratto le parole risultavano incomprensibili, coperte da strani fruscii: doveva aver incastrato la cornetta tra la mascella e la spalla. — Ho appena finito di parlare con un Roger. Cercava di vendermi un’attrezzatura termale da alpinismo per una cosa come un milione di sterline. Non mi sembravi lui.

— Lo spero bene, — disse Roger, mentre il ciangottio del bimbo di Dagmar cominciava a borbogliare nel suo orecchio. — È per quelle due settimane a Martinekerke.

— Fammi indovinare, — disse Dagmar, con quella sfiducia allegramente sprezzante per lo Stato — qualsiasi Stato — che le veniva quasi naturale. — Ci diranno che bla bla, il taglio dei fondi, l’aria che tira, sono spiacenti…

— Be’, no, a dire il vero la cosa si farà.

— Ah. — Sembrava quasi delusa. — Magnifico. — Poi, prima di riattaccare: — Non dobbiamo per forza viaggiare insieme, vero?


Dopo un sorso di caffè, Roger telefonò a Benjamin Lamb.

— Ben Lamb, — tuonò l’omaccione in persona.

— Ciao, Ben. Sono Roger. Le due settimane a Martinekerke si faranno.

— Bene. Dal sei al venti luglio, giusto?

— Sì.

— Bene.

— Bene… Allora ci vediamo al terminal.

— Bene. Ciao.


Roger ripose la cornetta e si appoggiò allo schienale della poltrona girevole. La partitura del Partitum Mutante di Pino Fugazza, che prima delle telefonate baluginava sul monitor del pc in tutta la sua diabolica complessità, era ora sostituita da un salvaschermo. Una sfera colorata rimbalzava nell’oscurità dello spazio, esplodendo in fulgidi frammenti, per poi ricomporsi in un’altra tonalità, a ripetizione.

Roger diede un colpetto al mouse con una delle dita lunghe e forti. L’intricata griglia di note di Pino Fugazza balzò fuori dal buio, illuminando lo schermo. Il cursore era dove l’aveva lasciato, esitante sotto qualcosa che secondo Roger non era umanamente possibile cantare.

— La minestra è servita, — disse Catherine, entrando nella stanza con una ciotola di terracotta fumante fra le mani. La depose sulla scrivania a una bella distanza dalla tastiera, come le era stato insegnato. Lui la osservò mentre si chinava; aveva indossato una T-shirt sotto la vestaglia.

— Grazie, — le disse. — Sono rimasti dei panini?

Lei abbozzò un ghigno imbarazzato, portandosi una ciocca dei capelli mezzi grigi dietro l’orecchio.

— Ho appena provato a scaldarli nel microonde. Non so cos’è andato storto. Sembra che la loro struttura molecolare si sia completamente alterata.

Lui sospirò, girando la minestra con il cucchiaio.

— Tra i cinque e i dieci secondi, non serve di più, — le ricordò.

— Mm, — fece lei, l’attenzione che già vagava fuori dalla finestra sopra la spalla di Roger. Per quanto meticolosa in materia di tempi musicali, ultimamente aveva grossi problemi, nella cosiddetta vita normale, a distinguere dieci secondi da dieci anni.

— Mi auguro proprio che questo castello sia un posto allegro, — mormorò, mentre lui cominciava a mangiare. — Dovrebbe esserlo, non trovi? Per indurre persone della nostra levatura ad andarci.

Roger la rassicurò con un grugnito, la faccia leggermente arcana al bagliore del monitor attraverso il vapore della minestra.


Il Coro Courage di Roger Courage era, senza tema di esagerare, il settimo ensemble vocale più famoso del mondo. Di sicuro era più intransigente rispetto ad alcuni fra i gruppi più celebri: non era mai sceso così in basso da accompagnare i sassofonisti New Age con salmodie rinascimentali, o da gorgheggiare le solite cantilene di Lennon-McCartney nei concerti alla Royal Albert Hall.

Un dato di fatto noto a pochi era che, di tutti gli ensemble puramente vocali del mondo, il Coro Courage vantava la percentuale più alta di brani contemporanei nel suo repertorio. Mentre altri adottavano una dieta a base di successi antichi facendo sporadiche incursioni nel Ventesimo secolo, il Coro Courage era sempre pronto ad accogliere la sfida lanciata dall’avanguardia. Nessuno aveva eseguito la Stimmung di Stockhausen con altrettanta frequenza (quattro volte a Monaco, due a Birmingham e una, memorabile, a Reykjavik) e accettava sempre di buon grado l’invito ad affrontare nuove opere di compositori promettenti. Poteva rivendicare a buon diritto un’amicizia con l’ultima generazione — anzi, due dei componenti erano meno che quarantenni, e Dagmar Belotte aveva solo ventisette anni. Impavidamente lungimirante, il Coro aveva già firmato un contratto con il Festival di Barcellona del 2005 per cantare un’opera bellicosamente post-millenaristica dal titolo 2K + 5 composta dall’enfant terrible della musica vocale spagnola, Paco Barrios.

E adesso, al gruppo venivano concesse due settimane di prove in un castello settecentesco nel Belgio rurale, per prepararsi a sguinzagliare l’impressionante Partitum Mutante di Pino Fugazza in un mondo ignaro.

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