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Le prove andarono male quel giorno. Ben, Dagmar e Catherine erano abbastanza partecipi, mentre Roger era irascibile, stranamente turbato. Julian aveva la testa fra le nuvole e perdeva il segno sullo spartito alla minima distrazione: Gina che se ne andava, per esempio. La guardò dalle finestre linde e lucenti caricare l’attrezzatura in macchina, trascurando bellamente di inserirsi per cantare le parole del Creatore.

L’educato battibecco fra Julian e Roger grazie al cielo fu interrotto da un’altra telefonata. Era il giornalista di un quotidiano lussemburghese a caccia di un articolo sul Benelux Contemporary Music Festival.

I componenti del Coro che non erano Roger Courage si sedettero pigramente mentre Roger faceva fronte ai quesiti, il primo dei quali evidentemente fu perché il brano di Pino Fugazza si intitolasse Partitum Mutante. Era una delle tante domande che Catherine non aveva mai pensato di porre a Roger, perciò tese l’orecchio per sentire la risposta.

— Be’, il mio italiano è abbastanza elementare, — disse nel microfono coi toni ronzanti del gatto che fa le fusa, sottintendendo l’esatto contrario, — ma mi pare di capire che il titolo non è esattamente italiano, e nemmeno latino. È più una specie di gioco di parole che si muove su più livelli. Gioca su partita, naturalmente, nel senso di suite musicale, ma fa anche riferimento al partum, cioè alla nascita. Mutante perciò allude alla nascita mutante, o a una forma musicale mutante…

L’attenzione di Catherine vagò verso il bosco all’esterno. Un cervo pascolava a breve distanza dalla finestra. Era davvero di una bellezza sconvolgente là fuori, visto dall’interno. Doveva andare a passeggio nel bosco più spesso, affrontare le sue paure, smetterla di essere così infantile.

— Sono convinto che sia di estrema importanza dare agli esecutori di un brano commissionato per la prima volta un tempo ragionevole per le prove, — stava dicendo Roger al giornalista lussemburghese. — Troppo spesso andando alla première di un’opera vocale contemporanea si sentono i cantanti cavarsela, diciamo così, per il rotto della cuffia, con un brano che hanno appena imparato. È mancato il tempo per padroneggiarlo appieno, per coglierne inflessioni e sfumature. Non dimentichi che quando un gruppo vocale tradizionale canta il Messia di Händel o un brano altrettanto noto, in teoria potrebbe anche cantarlo nel sonno. Quello che noi del Coro Courage stiamo cercando di fare con il Partitum Mutante qui, in questo magnifico castello, è impararlo così bene da essere in grado di cantarlo nel sonno. È allora che si comincia davvero a lavorare.

Qualche attimo dopo, quando Roger si sedette con i colleghi del Coro dopo aver riattaccato il telefono, Catherine disse:

— Credevo che significasse slip.

Dagmar rise di cuore, allentando la tensione. Roger guardò la moglie come in fiduciosa attesa che recuperasse la ragione da un momento all’altro, se solo l’avesse fissata negli occhi con sufficiente intensità.

Mutante, — spiegò Catherine. — Avrei giurato che significasse slip.

— Sono sicuro che ha a che fare con la mutazione, cara, — l’ammoni blandamente Roger, ruotando gli occhi da una parte all’altra per ricordarle che non erano soli nel loro appartamento. Ma lei non intendeva farsi liquidare tanto facilmente. Era stata in Italia soltanto l’anno prima, a cantare Dowland e Byrd. Lungo la strada, aveva fatto un po’ di shopping a Roma, elettrizzata e terrorizzata all’idea di non stare al guinzaglio di Roger per un’ora.

— Ricordo che quando ero a Roma, — disse, — mi servivano delle mutandine. Ero in un grande magazzino e non sapevo come chiederle. Ovviamente non potevo far vedere le mie, giusto? Così ho cercato come si diceva in una guida. Sono sicura che c’era scritto mutante —. Rise, un po’ imbarazzata. — Non so perché mi ricordo certe cose.

Roger sorrise stancamente.

— Riprendiamo quella nota, — disse, — qualcuno vuole un po’ di caffè?

Quando tornarono nuovamente a sedersi, Roger li informò che Pino Fugazza in persona sarebbe venuto a trovarli il giorno dopo, per vedere — o meglio, per sentire — come procedevano con il suo capolavoro. Prima di allora, naturalmente, si rendeva necessario discutere quali passi del Partitum Mutante andavano provati con maggiore impegno, in modo da fare la migliore impressione possibile sul compositore.

Fu una discussione tesa, almeno fra quelli del Coro che avevano un’opinione in merito, Julian riteneva che i passaggi dove predominava il tenore non fossero sufficientemente sviluppati, mentre Dagmar era convinta che le armonie di contralto e tenore non fossero certo l’ideale; secondo Roger, invece, quelle pecche potevano essere aggiustate con tutto comodo una volta incorniciate entro solide e chiare linee guida baritonali. Si arrivò a un’impasse che impedì di cantare. Julian andò in bagno, Roger andò prendere una boccata d’aria fresca e Dagmar andò a dare un’occhiata ad Axel.

Rimasta da sola con Ben, Catherine disse:

— Le ho ancora quelle mutandine, a dire il vero. Hanno fatto un’ottima riuscita. Non mi meraviglierei se le avessi indosso proprio ora.

Ben poggiò il testone sulle mani e socchiuse gli occhi, sorridendo.


A letto, quella sera, Roger finalmente si concesse una scorrettezza.

— Tu non mi ami più, — disse, mentre Catherine si faceva piccola piccola acciambellandosi al suo fianco.

— Non lo so, non lo so, — ribatté Catherine, la voce un pigolio strozzato dalle lacrime e dal troppo canto.

— Ci hai pensato poi a smettere di prendere gli antidepressivi? — s’informò lui con voce atona, tirando le coperte per coprire le parti che lei aveva scoperto.

— Ho già smesso, — disse lei. Era vero. Era vero da giorni. In effetti, nonostante a Londra Roger le avesse gentilmente ricordato più volte tutte le cose che doveva assicurarsi di portare con sé in Belgio, chissà come era riuscita a lasciare quelle pillole a casa. La scatola di cartone che le conteneva per qualche motivo si era inzuppata di barbabietola e maionese, e lei non aveva saputo come risolvere il problema. La scatola delle pillole, il cibo che si era versato, la busta in cui era successo: aveva lasciato tutto quanto a casa, sotto il letto. Il letto dove dormiva da sola, nella camera degli ospiti.

— Davvero? — disse Roger, steso accanto a lei in Belgio. — E come ti senti?

Lei scoppiò a ridere. Cercò disperatamente di smettere, ricordando che Julian era nella stanza accanto, ma non ci riusciva; rise ancora più forte, singhiozzando fino a sentire una fitta ai fianchi.

Più tardi, quando l’accesso si fu placato, Roger si stese poggiandole la testa e una mano contro la schiena.

— Domani avremo una giornata pesante, — sospirò, gravato dalla solitudine e sul punto di addormentarsi.

— Non ti lascerò, — lo rassicurò Catherine.

Non appena il respiro di lui si fece profondo e regolare, ecco riecheggiare sinistramente il primo grido nel bosco all’esterno.

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