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— Vieni a fare un giro in bici? — la invitò Dagmar la mattina dopo colazione.

Catherine arrossì, portando le mani tremanti alla gola. Nemmeno se un branco di focosi inuit l’avesse invitata a nuotare nuda nelle acque artiche si sarebbe sentita così confusa.

— Ah… sarebbe bellissimo, Dagmar, davvero, ma…

Guardò Ben in cerca d’aiuto, ma lui era alle prese con l’havermout, contento come… be’, come un agnellino.

— Tanto per cominciare non ho la bici, — fece notare sollevata.

— Ne ho trovata una dietro il castello, — disse Dagmar. — È vecchia ma solida. Un’ottima bicicletta olandese. Ma se un modello vecchio ti crea qualche problema, puoi sempre usare la mia.

Sconfitta, Catherine si lasciò condurre fuori casa. Le cosce e i glutei della ragazza tedesca si flettevano come quelli di un olimpionico mentre camminava, l’acquamarina lucente dei pantacollant creava un brusco contrasto con l’azzurrino dei jeans uniformemente sbiaditi di Catherine. Le due bici erano già parcheggiate fianco a fianco sul ciglio della strada e scintillavano al sole. L’unica via di scampo consisteva nel dire: No, non voglio, che per Catherine era sempre stato impossibile.

— Dicono che una volta imparato a portare la bici, non si dimentica più, — disse, avvicinandosi con circospezione ai velocipedi, — solo che, sai, io ho dimenticato le cose più incredibili.

— Tranquilla, ce la prenderemo comoda, — disse Dagmar, intenta a legarsi in spalla lo zaino con Axel.

Catherine esaminò i sellini delle bici, tastando le curve della pelle, cercando di immaginare quanto sarebbero risultati duri o morbidi fra le gambe.

— Ehm… quale delle due è meglio per una che non ha… come dire…

Dagmar si strinse nelle spalle, una bella impresa visto che aveva un essere umano di sei chili sulla schiena.

— Una ha un centinaio di marce, l’altra non ne ha nessuna, — disse. — Ma andando piano su una strada completamente piatta non fa una grande differenza.

E così cominciò. La preoccupazione di Catherine si trasformò in sollievo scoprendo che sapeva ancora guidarla benissimo. L’altro timore, che Dagmar prendesse la fuga lasciandola indietro, si rivelò ugualmente infondato. La ragazza tedesca manteneva un’andatura lenta e regolare — non perché si sforzasse particolarmente di essere premurosa, ma soltanto perché aveva dato istruzione alle gambe di ruotare a un certo numero di giri al minuto. Qualunque fosse il motivo, Catherine riusciva a tenerle dietro e, con piacere via via crescente, si ritrovò a pedalare lungo la strada scura e levigata, il bosco che le scorreva sfocato ai lati, un venticello prodotto da lei stessa fra i capelli.

Dopo un paio di miglia, si sentì perfino tanto sicura da parlare.

— Non puoi sapere quanto mi sto divertendo, — disse forte in direzione di Dagmar.

Axel, annidato contro la schiena della madre, la faccia a malapena visibile sotto il cappellino di lana, spalancò gli occhi. Non era abituato ai compagni di viaggio.

— Stasera canterai meglio, — dichiarò Dagmar con convinzione. — Fa bene ai polmoni, fa bene al diaframma, fa bene a tutto.

— La prossima volta mi ritroverò a fare alpinismo con te! — Era il genere di commento che nei Paesi Bassi si poteva fare senza timori.

— Grande idea, — disse Dagmar. — Ci sono delle montagne niente male appena superato il confine tedesco, a Eifel. Non sono più di trecento chilometri di viaggio.

Catherine rise educatamente, forse non tanto forte da coprire il ronzio delle ruote e farsi sentire da Dagmar. In lontananza, la guglia di una chiesa annunciò l’approssimarsi di Martinekerke.


Era una Catherine fiera e raggiante quella che giunse in bicicletta davanti alla porta dello Château de Luth un’ora dopo. Aveva esplorato il vasto mondo, facendo una piccola ricognizione dei servizi offerti dal luogo. Ora lei e Dagmar rientravano con le provviste.

I tre uomini le guardarono ammutoliti mentre loro, due donne rosse in viso e sudate, portavano la spesa in cucina.

Va tenuto presente che in realtà Catherine non era riuscita a trasportare granché sulla sua bicicletta, non avendo pensato di prendere una sporta di qualche tipo prima di uscire. Però si era assunta la responsabilità delle uova, avvolgendole in un maglioncino che non aveva indossato perché faceva troppo caldo, e sistemandole nel nido sicuro del cestino della strana bicicletta olandese.

— Forse è meglio che fai un’altra doccia, cara, — suggerì Roger sottovoce mentre lei mandava un grosso bicchiere di latte giù per la gola lucente. — Pino Fugazza sarà qui da un momento all’altro.

Di punto in bianco, senza motivo apparente, il piccolo Axel si mise a strillare.

Di tutti i compositori che il Coro Courage aveva conosciuto, Pino Fugazza si rivelò quello dotato di minor fascino. Forse, scoprire che la sua considerevole fortuna non derivava dall’onesta popolarità della musica d’avanguardia bensì dalla ditta di famiglia che produceva armi automatiche avrebbe dovuto metterli sul chi vive. Vero è che, animati dallo spirito di non far ricadere sui figli le colpe dei padri, si erano guardati dall’esprimere giudizi. In ogni caso, come aveva fatto notare Ben, Tobias Hume, il compositore seicentesco che il Coro Courage più apprezzava nel suo repertorio, in realtà a suo tempo era stato un killer professionista, ma questo nulla toglieva al valore dei canti per viola che aveva composto.

L’immagine dell’impetuoso Tobias Hume che depone la spada per scrivere l’immortale «Con gioia, cambiar quella nota» venne bruscamente eclissata dall’arrivo più che reale, a bordo di una Porsche nera, di Pino Fugazza. Entrò nel castello con incedere maestoso, vestito di una camicia rossa di Galliano con decine di piccole orecchie nere stampate sopra, un pantalone largo di Armani tintinnante di spiccioli e un paio di scarpe con le nappine. Il sorriso era sbalorditivamente sgradevole.

— Piacere di conoscerla, — disse Catherine, giocando a fare la padrona di casa, anche se le bastò una sola occhiata per capire che non era vero.

— Prima, prima, — esclamò il compositore, zompettando per la casa con un passo leggero acquisito forse grazie alle poche pretese accampate dalla gravità sulla sua figura che non superava il metro e mezzo. Già calvo a ventinove anni, aveva la faccia che sembrava quella di un macaco. Perfino Ben Lamb, che di norma si premurava di non guardare con tanto d’occhi le persone dalle strane fattezze fisiche, non credeva a quello che gli aveva riservato il destino.

Pino aveva parcheggiato la Porsche quanto più vicino possibile alla porta senza entrare direttamente in casa e, mentre il signor Courage e consorte si adoperavano ad accoglierlo nel migliore dei modi, lui continuava a lanciare occhiate fuori dalla finestra, quasi temendo che qualche delinquentello fra gli animali del bosco filasse via a bordo della sua splendida vettura.

Quando finalmente si fu calmato, allargò le braccia in un gesto magnanimo invitandoli a dare inizio alla musica.

Il Coro Courage cantò il Partitum Mutante — tutti i trentuno minuti e mezzo, senza interruzione — e cantò piuttosto bene, tutto considerato. Come sempre, al momento della sfida posta dalla vera esibizione davanti a un pubblico — sia pure un pubblico costituito da una sola persona — muovevano cielo e terra per superare le divergenze. Julian sfoderò un accenno di umiltà, Dagmar si adeguò per il bene comune, Roger rallentò il tempo quando la moglie ebbe un tentennamento, riconducendola all’ovile. E, sul finale, Catherine cantò quell’ultima nota con virtuosismo perfino maggiore che in precedenza.

Un silenzio arboreo calò sulla casa quando il Coro Courage approdò, sfinito, ai lidi situati al di là dell’armonia convenzionale. Avevano nuotato a lungo in turbolente acque sonore senza quasi una pausa per riprendere fiato. Sconcertati, mentre lottavano per emergere dal mare, si accorsero che un macaco con una giacca del pigiama da poppante li guardava dall’alto in basso.

— Bravi, — disse il macaco con l’occhio furbetto.

Pino Fugazza fu, brevemente, prodigo di lodi, poi, profusamente, prodigo di critiche. Parlando, teneva a fianco lo spartito senza degnarsi di consultarlo; sembrava farsi un baffo delle mere minuzie pedantesche. Riteneva invece che fossero questioni più grandi quelle che il Coro non riusciva ad afferrare. Questioni come la natura e lo spirito stessi del brano.

Gesticolando come un ballerino, Fugazza oscillò davanti a loro, i pantaloni che tintinnavano mentre si sforzava di farsi capire in quella sua personalissima versione avanguardistica dell’inglese.

— Dovrebbe essere più estremo, ma anche più morbido, — esclamò dopo vari tentativi falliti. Per illustrare un qualche tipo di sublime paradosso, scagliò con violenza i tozzi artigli nell’aria, lasciandoli poi ricadere languidamente come polipetti morenti. — Come una cosa mo-o-o-olto persa, dal fondo di un pozzo.

Ci fu una pausa.

— Più sommesso? — cercò di tradurre Roger.

Fugazza annuì, contento che finalmente si facessero progressi.

— Sì, molto più sommesso, — disse, — ma senza perdere la… la sonorità psichica, capite? Sommesso ma sonoro dentro le orecchie… Come il rumore dell’acqua che gocciola da un… un…

— Rubinetto?

— Cannella. Gocciola di notte, quando tutto è sommesso. Perciò è sonoro, sì? Silenzio, amplificato.

Rimasero tutti un istante a riflettere, poi Roger disse:

— Pensa che dovremmo cantare molto sommessamente ma avere dei microfoni che amplifichino la voce?

— No! No! No microfoni! — urlò Pino, agguantando invisibili oggetti ingiuriosi nell’aria davanti a sé e scagliandoli direttamente in un lago di fuoco. — La sonorità viene da… dall’intensità, sì?

— Intensità di emozioni?

— Intensità di… di concentrazione. Concentrati come… come…

— Dadi da brodo? — suggerì Dagmar in un mormorio velenoso, giocherellando con una ciocca di capelli.

— Come un proiettile, — affermò il compositore trionfante. — Un proiettile è molto piccolo, sì? Ma l’effetto è… è… — Fece una smorfia, tradito ancora una volta da una lingua tanto inferiore all’italiano.

Catherine, resistendo alla tentazione di abbandonare il corpo per librarsi verso il soffitto dopo il grande sforzo, ce la mise tutta per aiutarlo a trovare la parola giusta. Immaginò l’effetto di una pallottola che penetra la carne di qualcuno — qualcuno che non vuole morire.

— Devastante, — disse.


— Lo odio, — sibilò Dagmar quando se ne fu andato.

— Probabilmente è un problema di comunicazione, — disse Roger fiaccamente.

— Lo odio, — ripeté Dagmar, tormentandosi con determinazione i capelli umidi tra il pollice e l’indice. — È questo che sto comunicando a voi.

— Be’, — sospirò Roger, — lui ha la sua idea del brano, noi abbiamo la nostra…

Ben si aggirava con passo felpato per la casa come un orso, andando da una finestra all’altra, spalancandole tutte. Solo mentre apriva la più grande e più vicina i colleghi del Coro si resero conto che l’intero castello era impestato dal genere di profumo che forse si ottiene grattando lo scroto di roditori rarissimi.

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