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Più tardi, quella prima notte allo Château de Luth, raggomitolata in uno strano letto morbido accanto a Roger, Catherine girava le pagine di Extended Vocal Techniques scritto dall’Extended Vocal Techniques Ensemble californiano. Era un libro al quale a volte ricorreva per prendere sonno, ma quella sera aveva in più la funzione di escludere qualsiasi forma di contatto fisico.

Roger leggeva un librone illustrato su Karel Appel, un artista danese, che aveva scovato nella libreria al piano di sotto — o meglio, Catherine ipotizzò che guardasse le immagini; non credeva che il marito fosse riuscito a imparare l’olandese in occasione di quella avventura. Sarebbe anche stato il tipo, ma immaginò che in tal caso lei se ne sarebbe quantomeno accorta.

Ogni tanto gli lanciava una timida occhiata, senza muovere la testa. Lui sprofondava sempre più nel letto, un centimetro dopo l’altro. Presto l’insonnia pressoché invincibile di Catherine le avrebbe concesso un margine di vantaggio, almeno così sperava. Continuò a leggere.

«Le vocali possono essere definite linguisticamente dalla caratteristica fascia di suoni armonici che ciascuna contiene. Tali fasce si riducono a specifici toni, così che la voce del cantante risuona in modo da rinforzare una singola parte armonica del passo cantato. Un’armonia così rinforzata rende possibile inserire otto parti per quattro cantanti».

Catherine si chiese se, anziché perdere la ragione, non stesse semplicemente invecchiando.

— Un vero mattacchione, questo Karel Appel, — osservò Roger.

— Mm, — fece lei, sollevando un po’ le ginocchia sotto la trapunta per sostenere meglio il libro. Avrebbe tanto voluto che quel nuovo brano di Pino Fugazza non richiedesse a lei e Dagmar di fare tutte quelle cose che distorcevano la normale percezione. Qualcuno poteva anche trovare elettrizzante che due donne cantassero a intervalli di terza conferendo un brusio arcano alle onde acustiche, ma Catherine scopriva che i suoi nervi non la reggevano più. Perfino il modo in cui un la bemolle sostenuto tendeva a far ronzare l’aria condizionata di un auditorium ultimamente le dava i brividi. Era come se le sbattessero in faccia che la musica si riduceva a onde sonore e atomi una volta privata dell’involucro barocco. Ma un eccesso di nudità sonica non fa bene allo spirito. Questo almeno andava scoprendo ultimamente, da quando aveva cominciato ad andare… alla deriva. Un po’ di Bach o di Monteverdi poteva essere una cura migliore di quello che Pino Fugazza si aspettava da lei.

Sentimenti vigliacchi, lo sapeva, da parte di una componente del Coro Courage.

Quando Roger finalmente si addormentò, era passata da un pezzo la mezzanotte. Lei non sapeva con esattezza che ora fosse, perché l’unico orologio della stanza era quello al polso di Roger, nascosto sotto il cuscino mentre lui respirava pacatamente al bordo del letto. Strane le cose che ci si dimentica di portare in un paese straniero.

Catherine poggiò cautamente in terra Extended Vocal Techniques, si tirò la trapunta fino al mento e spense la luce sul comodino. Il silenzio che calò su di lei era così assoluto da innervosirla. Era come se l’intero universo si fosse spento.

Sul punto di prendere sonno, si sorprese a chiedersi come una persona potesse meditare il suicidio in un ambiente come quello.


All’alba, si sentivano gli uccellini. Niente su scala granché vasta, solo qualche cinguettio e pigolio come di ottavino emessi da specie sconosciute. Era strano che la mattina, a Londra, nell’appartamento che Catherine aveva in prossimità di una mezza dozzina di alberi piantati dal comune, nugoli di uccelli si sgolassero per allietare il mondo, mentre lì, nel bel mezzo del bosco, si levassero così poche voci. O là fuori c’era solo una manciata di uccelli, che si spolmonavano nel vano tentativo di colmare un vuoto, oppure erano milioni, e stavano tutti zitti. Appollaiati sui rami, in attesa del momento opportuno.

Catherine rimase atterrita scoprendo che cominciava ad avere paura: paura dei milioni di uccelli silenziosi, che infestavano gli alberi, in attesa. E, sapendo quanto fosse irrazionale quella paura, si disprezzò. Di sicuro era troppo matta per vivere, di sicuro era arrivato il momento di liberare la faccia della terra dalla sua presenza, se bastava il pensiero degli uccelli appollaiati tutti contenti nel bosco a darle l’angoscia. Era come se il cablaggio logoro e aggrovigliato della sua anima, consegnato a Dio perché lo riparasse, fosse stato affidato a dei novellini incompetenti, e ora lei si ritrovasse programmata per vedere un pericolo in ogni passerotto, un ammonimento infausto nella musica, una minaccia letale nell’amore di suo marito.

Roger dormiva come un sasso al suo fianco. Ma poteva svegliarsi da un momento all’altro; non era tipo da tirare su col naso né da dimenarsi prima del risveglio, si limitava ad aprire gli occhi ed eccolo lì, lucidissimo e pronto a ripartire. Catherine guardò la testa del marito sul cuscino, la testa che un tempo quasi non riusciva a trattenersi dall’accarezzare e baciare adorante. Quanta gratitudine aveva provato quando lui l’aveva voluta, quanta devozione vedendo che era convinto di poterla plasmare facendone qualcosa di più dell’ennesima ragazza perduta e votata all’autodistruzione con una bella voce da soprano.

— Ce l’hai nel sangue, — le aveva assicurato.

Bramosa, terrorizzata, lei alla fine si era decisa a lasciare la casa del padre, consegnandosi invece a Roger Courage.

Ora era stesa al suo fianco in quello strano letto morbido in Belgio, con una gran voglia di fargli inalare un magico cloroformio inodore dalla bocca aperta per assicurarsi che dormisse mentre lei cercava il coraggio per affrontare la giornata.


A colazione, Catherine accennò a quel silenzio soprannaturale con gli altri. Ormai il sollievo era tale da darle alla testa: era balzata giù dal letto e si era preparata prima che Roger riuscisse a destarsi da un sonno insolitamente profondo. Era già in cucina, vestita di tutto punto, prima che lui scendesse per unirsi ai colleghi del Coro. Catherine stava preparando l’havermout — peraltro conosciuto come porridge — per un Ben famelico e non ancora sbarbato, tenendo in linea di massima una condotta da persona sana di mente.

— Buongiorno, caro, — disse, vedendo comparire il marito. Lui sembrava un po’ perplesso mentre scendeva le scale con ai piedi solo i calzini dal disegno a spina di pesce. (Tutti gli uomini avevano solo i calzini, a dire il vero, indecisi tra le regole del castello che vietavano di portare le scarpe in casa e la riluttanza a indossare gli zoccoli di pelle forniti appositamente per loro).

Julian, l’aria sonnacchiosa ed elegantemente stropicciata, stringeva un caffè tra le mani senza berlo. Non appena Catherine accennò al silenzio, disse che ci aveva fatto caso anche lui, e che era innaturale. L’aveva tenuto sveglio tutta la notte.

Catherine rabbrividì; l’idea di lei e Julian svegli esattamente nello stesso momento e nella stessa casa, con soltanto una parete a separarli, in qualche modo la inquietava. Non che lui non le piacesse, solo che data la situazione era così esposta, così ipersensibile, che quell’insonnia simultanea in un’oscurità condivisa le sapeva di sgradita intimità.

— E poi non sentire quasi il canto di un uccello in un bosco così grande: fa un po’ impressione, non vi pare? — disse esitante, attenta a non porsi sotto il riflettore dell’instabilità mentale, pur apprezzando l’idea di comunicare con gli amici.

Dagmar tagliava il pane fresco sul ripiano della cucina mentre il figlioletto dormiva avvolto in una coperta sulla stessa superficie, proprio accanto alla tavoletta del pane, come se subito dopo volesse affettare anche lui.

— È il silenzio che senti quando scali una montagna, — disse, riferendosi al suo passatempo preferito. — A me piace.

Non avendo trovato soddisfazione sul versante femminile, Catherine tornò agli uomini. Ben, però, era alle prese con l’havermout, che infilava tra le grosse labbra morbide un cucchiaio dopo l’altro, e Julian aveva rivolto l’attenzione al caffè, sicché restava solo Roger.

Il marito sondò un istante il proprio animo in cerca di un commento adeguato.

— A pensarci, un’acustica vocale così silenziosa dev’essere rarissima, — disse. — Cioè, basta pensare a quella registrazione dei canti di Hildegard fatta dalle Gothic Voices… Emma Kirkby canta come un’allodola e, in sottofondo, si sentono le macchine che sfrecciano in strada!

Julian si vide costretto a dissentire.

— È perché i tecnici del suono hanno messo i microfoni a una distanza eccessiva dai cantanti, — disse, — nel tentativo di cogliere quell’acustica da monastero. Avrebbero fatto meglio a piazzarglieli davanti alla bocca, e ad aggiungere qualche risonanza in un secondo momento.

— Non dirai sul serio, — protestò Roger. Catherine aveva cessato di esistere, dimenticata mentre cercava di tostare il pane per il marito sotto il grill del forno. — L’acustica di un luogo è unica e preziosa.

— Per un’esibizione dal vivo senz’altro, — acconsentì Julian. — La mia voce non è mai risuonata bene come in quella cantina di Reykjavik, con le pareti di pietra e tutto il resto. Ma le Gothic Voices non cantavano dal vivo, registravano un disco. Che bisogno c’è della chiesa di St Jude-on-the-Wall a Hampstead se basta premere un interruttore o un fader per avere un’acustica da chiesa, senza un’accidenti di Volvo che romba in strada?

In cucina cominciò a diffondersi un odore di pane bruciato. Il piccolo Axel prese a tossire agitando dolcemente i braccìni sul ripiano della cucina, come se cercasse di volare verso un quadrato d’aria più pura.

— Scusate, — disse Catherine.

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