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Arrivati al sei luglio, se l’aria del primo mattino inglese era ancora pungente, il mezzogiorno belga risultava decisamente soffocante. Il messaggio inviato da Dio sembrava essere che il Coro Courage non doveva lasciarsi ingannare dalla brevità del tragitto aereo e ferroviario né dalla minima differenza di latitudine: avevano oltrepassato un confine che separava due mondi a sé stanti.

Nel parcheggio di acciottolato fuori dalla stazione di Duidermonde li aspettava un minibus a undici posti, la carrozzeria giallo banana che scintillava al sole. Al posto di guida, dietro un paio di strepitosi occhialetti tondi, un giovanotto elegante occhieggiava a caccia di cantanti inglesi. Era Jan van Hoeidonck, il direttore del Benelux Contemporary Music Festival. Individuati i suoi ospiti che scendevano dal treno troppo infagottati, fece lampeggiare gli abbaglianti del minibus a rao’ di benvenuto.

— Il Coro Courage, sì? — urlò dal finestrino laterale del veicolo, quasi ad assicurarsi che non fosse un’altra banda di viaggiatori dall’aspetto straniero quella che trascinava i bagagli oltre le transenne dei binari.

Dall’alto della sua stazza, Benjamin Lamb agitò la mano in segno di saluto. Sorrideva sollevato nel vedere che non c’erano tornelli dentro i quali strizzarsi: la maledizione della sua vita di viaggiatore. Le proporzioni ragguardevoli della sua obesità erano la caratteristica precipua del Coro Courage anche se, quando qualcuno che non li aveva mai visti chiedeva come riconoscerli, Roger si limitava diplomaticamente a consigliare: «Cercate un uomo con i capelli grigio argento e gli occhiali»… lui, naturalmente.

— Ma non dovevate essere in cinque? — chiese il direttore mentre Roger, Catherine, Julian e Ben si avvicinavano alla fiancata del minibus.

— Infatti, — disse Roger, aprendo lo sportello scorrevole e caricando a bordo l’enorme valigia della moglie. — Solo che il nostro contralto viaggia con i propri mezzi.

Jan van Hoeidonck tradusse quell’espressione in olandese all’istante, e si rilassò al posto di guida mentre il Coro caricava i suoi averi. Catherine pensò che aveva l’aria di un giovanotto intelligente e alla mano, ma la colpì vederlo tutt’altro che interessato a scendere e aiutarli. Sono in un paese straniero, si disse. Non le era parso reale fino a quel momento. In aereo e in treno dormiva sempre come un cadavere, dal momento della partenza all’istante dell’arrivo.

Dopo aver caricato il proprio bagaglio accanto a quello della moglie, Roger si portò senza pensarci sulla parte anteriore del veicolo e montò accanto al direttore. Non si prese la briga di interpellare nessuno. Era fatto così.

Catherine salì sul pulmino giallo banana insieme ai componenti del Coro Courage. In puro stile britannico, si sedettero tutti quanto più possibile distante dagli altri, distribuendosi nei nove posti disponibili con precisione matematica. Vero è che a Ben Lamb servivano due posti, dati i suoi centotrenta chili di carne.

Catherine lanciò un’occhiata trasversale a Julian. Erano tre mesi che non lo vedeva, almeno così le aveva detto Roger. Sembravano più di tre anni. Di profilo, la faccia altezzosa dalle palpebre pesanti, i capelli neri all’ultima moda e gli zigomi classici lo facevano sembra un divo del cinema, stessa aria da canaglia giovane e scocciata. Avrebbe potuto essere il fratello maggiore che Catherine non aveva mai avuto, il tipo arrogante sempre pronto a buttarsi nelle intemperanze dell’età adulta con aria di sufficienza, pur non riuscendo mai a eclissare del tutto il bimbetto con i calzoni corti e un taglio di capelli dozzinale che lei serbava nel ricordo. Eppure aveva solo trentasette anni, dieci meno di lei.

Mentre il pulmino si allontanava dalla stazione, Catherine rifletté sul fatto che si sentiva quasi sempre molto più giovane degli altri, a meno che non fossero chiaramente minorenni. Non era vanità la sua; era senso di inferiorità. Tutti avevano superato il passaggio all’età adulta tranne lei. Aspettava ancora che arrivasse il suo turno.

Jan van Hoeidonck parlava con suo marito sul sedile anteriore. A sentire il direttore, sembrava che promuovesse eventi culturali dai tempi della Seconda guerra mondiale. Ma del resto avevano tutti lo stesso tono, pensò Catherine, tutti quei giovani amministratori pieni di sé. Il tizio del Barbican non era da meno: nato troppo tardi per ricordare i Beatles, parlava come se Peter Pears avesse pianto sulla sua spalla quando era morto Benjamin Britten.

Strana cosa la fiducia in se stessi, a pensarci. Catherine strizzò gli occhi per guardare fuori dal finestrino, accarezzandosi la spalla, mentre il pulmino li traghettava in un bosco piacevolmente surreale. Condotta da un autista a un nido preparato per lei dagli ammiratori, riusciva comunque a sentirsi un’imbrogliona; anche sotto un sole scintillante, viaggiando senza scosse attraverso un placido paesaggio silvestre, sentiva emergere un alito di paura. Com’era possibile? Eccola lì, un’artista di fama internazionale, a chiedersi in segreto se appariva trasandata e mentecatta agli occhi di Jan van Comesichiama che, dal canto suo, pur essendo un burocrate di primo pelo con ancora i segni dei brufoli sul collo rosa, dava i propri meriti per scontati. Perfino Roger ascoltava rispettosamente mentre Jan esponeva i suoi progetti per dirigere la nave dell’arte dei Paesi Bassi in acque nuove e inesplorate.

— Naturalmente, — stava dicendo Jan, mentre il minibus si addentrava sempre più nel bosco, — gli eventi multimediali non sono tanto insoliti quando si tratta di musica rock. Ha visto i Towering Inferno?

— Ah… il film sul grattacielo che va a fuoco? — Roger era più tipo da Bergman e Truffaut.

— No, — lo ragguagliò Jan, — sono un gruppo musicale multimediale che viene dall’Inghilterra. Si sono esibiti in un brano sull’Olocausto intitolato Kaddish in tutta Europa… e anche nel vostro paese. Il brano si avvaleva di molti proiettori video, di un’orchestra, della cantante ungherese Marta Sebestyén, e di altre cose del genere. Mi auguro che questo Partitum Mutante si presti a qualcosa di analogo, in senso più classico —. Il direttore rallentò e suonò il clacson per spaventare un fagiano che si era piantato in mezzo alla strada. Non avevano incontrato altro traffico fino a quel momento. — Wim Waafels, — continuò, — è uno dei giovani esponenti della video art fra i più quotati nei Paesi Bassi. Verrà a trovarvi più o meno fra una settimana, così vedrete sotto quali proiezioni canterete.

Julian Hind, che aveva intercettato quelle parole, osservò:

— Sicché noi saremo i Velvet Underground e questo tizio dei video rifarà l’Exploding Plastic Inevitable di Andy Warhol, eh?

Roger lanciò un’occhiata da sopra la spalla a Julian con aria interrogativa, ma il direttore annuì e disse: — Già —. Catherine non aveva nemmeno capito di cosa parlassero, sapeva solo che a Roger non piaceva farsi surclassare quando si trattava di musica.

Catherine sentì il petto stringersi per la delusione quando, come da copione, il marito si prese la sua meschina rivincita. Cercò di concentrarsi sull’incantevole paesaggio all’esterno, ma era inevitabile sentire quello che lui stava facendo: spostava abilmente la conversazione sulla burocrazia delle arti europee, argomento di cui Julian era quasi totalmente digiuno. Roger ricordò con affetto l’amministrazione socialista francese che aveva reso tanto piacevole partecipare alla Biennale parigina del 1985, e si disse preoccupato per la strada intrapresa dall’amministrazione dell’Amsterdam Concertgebouw. L’irritazione di Catherine si stemperò in noia; le palpebre calarono sotto la sfarfallante luce del sole.

— Insomma, — lo interruppe il direttore, evidentemente più preoccupato di dove andava a parare la conversazione che della sorte del Concertgebouw. — Il vostro è un Coro a conduzione familiare, sì?

Catherine drizzò di nuovo le orecchie; come se la sarebbe cavata questa volta il marito? In realtà gli unici due Courage dell’ensemble erano lei e Roger, e Catherine tendeva ad aggrapparsi al suo cognome da nubile ogni volta che le circostanze lo permettevano, terrorizzata all’idea di diventare famosa come Kate Courage. Non poteva affrontare il resto della vita con un nome che sembrava quello di una supereroina dei fumetti.

Con fare garbato, Roger riuscì più o meno a svicolare.

— Be’, che ci creda o no, — disse, — il Coro non prende esattamente il nome da me. Io mi considero semplicemente un componente dell’ensemble, e quando si è trattato di decidere come chiamare il gruppo abbiamo considerato varie ipotesi, solo che sembrava sempre ricorrere l’idea di coraggio.

Catherine si rese conto che la testa di Julian andava assumendo un’inclinazione spropositata. Osservò un sorrisetto incredulo prendergli forma sul viso mentre Roger e il direttore continuavano:

— Cioè avevate la sensazione che interpretare questo genere di musica richiedesse coraggio?

— Be’… questo lo lascio decidere al nostro pubblico, — disse Roger. — A dire il vero, quello che avevamo in mente era più il vecchio adagio di Wesley sul fatto di cantare inni, ha presente: «Canta di gusto e con coraggio».

Julian si girò verso Catherine strizzando l’occhio: — È questo che avevamo in mente? — le sussurrò da qualche sedile di distanza. — Non so com’è, ma non riesco proprio a ricordare questa memorabile conversazione.

Catherine ricambiò il sorriso, vagamente confusa. Non intendeva essere sleale nei confronti del marito, ma quella conversazione non la ricordava nemmeno lei. Girandosi per guardare fuori dal finestrino del minibus, si sforzò con scarso entusiasmo di riandare con la memoria a un tempo lontano lontano, prima che diventasse il soprano del Coro Courage. Centinaia di nitidi, esili alberi le sfrecciarono davanti agli occhi, confondendosi in pulsazioni tra il verde e il marrone. Quell’immagine, unita al lieve ronzio del motore, la cullò portandola, per la terza volta quel giorno, a un passo dall’addormentarsi.

Alle sue spalle, Benjamin Lamb cominciò a russare.


Durante l’ultimo paio di miglia il castello, benché distante, risultava perfettamente visibile.

— È lì che siamo diretti? — chiese Catherine.

— Sì, — rispose Jan.

— La casa di pan di zenzero della strega cattiva, — borbottò Julian per farsi sentire da Catherine.

— Come? — fece il direttore.

— Mi chiedevo qual è il vero nome del castello, — disse Julian.

— Il vero nome è ’t Luitspelershuisje, ma fiamminghi e visitatori lo chiamano Château de Luth.

— Ah… Château de Luth, carino, — ripeté Catherine, mentre il minibus percorreva a tutta velocità l’ultimo miglio — o 1,609 chilometri. Quando il direttore parcheggiò il veicolo davanti alla nuova casa lontano da casa, sfoderò un sorriso benevolo ma, ancora una volta, lasciò che se la sbrigassero da soli con i bagagli.

Lo Château de Luth era più bello, anche se un po’ più piccolo, di come Catherine se l’aspettava. Un cottage a due piani costruito a ridosso della lunga strada dritta che collegava Duidermonde a Martinekerke, senza l’ombra di altre case nei paraggi, dava quasi l’idea di un’antica stazione ferroviaria il cui binario fosse misteriosamente scomparso per essere sostituito da un perfetto nastro d’asfalto.

— Luciano Berio e Cathy Berberian hanno soggiornato qui, l’ultimo anno in cui sono stati insieme, — disse il direttore, incoraggiandoli tutti ad avvicinarsi e a entrare. — E anche Bussotti e Pousseur.

La casa era in perfette condizioni dati gli anni che aveva, a parte il palco di corna cervo magistralmente aggrovigliato che incoronava la porta d’ingresso, parzialmente rosicchiato dalla pioggia acida alla fine degli anni Ottanta. I mattoni rossi delle pareti e le tegole grigio scuro erano immacolati, i telai intagliati delle finestre pitturati di fresco di un bianco scintillante.

Tutt’intorno al cottage, il terreno boschivo garbatamente rigoglioso rifulgeva come una preziosa cartolina, ogni albero sembrava piantato con criterio e cura dei particolari. Un’elegante daina marrone baluginò fra i rami dritti e sottili, bloccandosi sull’attenti, simile al costoso modellino in scala ridotta di un cervo aggiunto come pièce de résìstance.

Catherine rimase impalata a guardare mentre Roger si occupava della valigia in qualche punto alle sue spalle.

— Sembra che Robin Hood e i suoi allegri compari debbano sbucare da un momento all’altro dalla vegetazione, — disse lei, mentre il direttore se la prendeva comoda.

— È strano sentirglielo dire, — commentò lui. — Negli anni Sessanta hanno girato una serie televisiva qui, una specie di avventure di Robin Hood francesi dal titolo Thierry la Fronde. Questa strada così piana che taglia il bosco era perfetta per le carrellate.

Il direttore la lasciò a cercare di scorgere la daina e si affrettò ad aprire la porta d’ingresso, dove gli altri aspettavano. Disposti come un trio stretto intorno a borse e valige, Ben dietro e i due più bassi davanti, sembravano un gruppo rock in posa per una foto pubblicitaria.

Jan si diede da fare con le serrature, servendosi dapprima di una massiccia chiave di ottone dall’aria antica e poi di un paio di normali chiavi d’acciaio inossidabile.

— Presto! — esclamò. Non avendo mai visto un prestigiatore all’opera, Catherine prese l’espressione per una direttiva musicale. Cosa poteva mai volere che facessero presto? Lei era in uno stato mentale che somigliava più all’adagio.


Il magnifico salone del castello, pieno di luce e oggetti antichi, era ovviamente il luogo in cui si sarebbero tenute le prove. Julian, com’era sua consuetudine, saggiò immediatamente l’acustica con alcuni mi sottovoce. Aveva fatto altrettanto in cantine e cattedrali da Aachen a Zyrardów; non riusciva a evitarlo, o almeno così diceva.

— Mi-mi-mi-mi-mi, — intonò, poi sorrise. Era un netto miglioramento rispetto al salotto ovattato di Ben Lamb.

— Sì, è ottimo, — disse sorridendo il direttore, e cominciò a mostrare il resto della casa.

Catherine era entrata da un paio di minuti appena quando cominciò a sentire un educato disagio insediarsi saldamente sulle spalle. Non dipendeva sicuramente dall’atmosfera del luogo che era affascinante, per non dire incantevole. Tutta la mobilia e buona parte degli accessori erano di legno scuro, un po’ cupo forse, ma c’era luce in abbondanza a riversarsi dalle tante finestre e un odore buonissimo, o forse era assenza di odore: aria carica di ossigeno non contaminata da congestione industriale o umana.

Tutte le comodità, moderne e antiche, erano a disposizione: pianoforte verticale Giraffe, doccia idromassaggio, trapunte ricamate, forno a microonde, frigorifero, uno xilofono da concerto, un arcolaio del Settecento, due computer, la serie completa anteguerra del Dizionario della musica e dei musicisti di Grove (in olandese), una serie di flauti dolci di legno su un espositore decorato (sopranino, discanto, alto, tenore, oltre a un flagolet), vari telefoni cordless e perfino un assortimento di ciabatte da portare in casa.

No, non era niente di tutto questo a preoccupare Catherine, mentre seguiva i colleghi del Coro nella visita guidata del castello. Si trattava esclusivamente del numero di camere da letto. Mentre il direttore li scortava da una stanza all’altra, lei teneva il conto e, arrivati alla minuscola cucina, un pezzo da esposizione di legno lucido degno di Vermeer, capì che non erano più di quattro. Una per Ben, una per Julian, una per Dagmar, e… una per lei e Roger.

— I negozi non sono esattamente dietro l’angolo, — stava dicendo il direttore, — perciò vi abbiamo lasciato un po’ di provviste negli armadietti. Non è cibo inglese, ma servirà a tenervi in vita nei casi di emergenza.

Non volendo apparire sgarbata, Catherine si sforzò di guardare nell’armadietto che lui teneva aperto affinché potessero constatare loro stessi. In primo piano c’era un scatola di cartone contenente quella che, dall’illustrazione, sembrava esattamente la vegetazione che circondava la casa. Boerenkool, c’era scritto.

— Ma questa roba è dolcissima, — disse, rigirandosi la scatola quasi priva di peso fra le mani.

— No, — disse Jan, — ha un sapore terroso, leggermente amaro.

Sicché la sua capacità di capire i visitatori d’Oltremanica aveva un limite.

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