Per più di un giorno non ci fu altro da fare che attendere, osservare e pensare… e fu una giornata ancora più strana del solito.
Essendosi adattato al nuovo ambiente e a un altro corpo, Jerome aveva creduto che non sarebbe stato più capace di meravigliarsi di niente, ma quella giornata fu un distillato di stranezze, la somma e il culmine di tutti gli aspetti più singolari della sua nuova esistenza.
Dal punto dove si trovava, seduto su una sedia portatile, poteva vedere alla sua sinistra le figure enigmatiche chiuse nelle tute pressurizzate dei sei Guardiani che avevano trasportato il Thrabben lungo il tunnel per poi collocarlo sulla superficie priva di aria del pianeta. Fra loro c’era Pirt Conforden, ma nella penombra dell’ampia sala in cui sfociava il tunnel era impossibile distinguerlo dagli altri.
Alla destra di Jerome c’erano sei tecnici addetti al tunnel, fra i quali Mallat Glevdane, che era stato responsabile dell’apertura e chiusura dei portelli stagni lungo gli otto chilometri del percorso da Cuthranel. Stavano seduti accanto ai piccoli veicoli elettrici che avevano trasportato tutti e che contenevano anche le provviste.
La conversazione era limitata a brevi bisbigli. Tutti gli occhi erano fissi sul grande schermo appeso a una parete della sala, su cui campeggiava l’immagine della superficie di Mercurio, riprodotta così perfettamente, che a volte Jerome aveva l’impressione di guardare attraverso una finestra panoramica. Era una veduta in profondità di una pianura rocciosa, chiusa da contrafforti frastagliati e illuminata dagli infuocati raggi orizzontali di un frammento di abbagliante luminosità sull’orizzonte. Nel cielo nero brillavano le stelle, più numerose di quante non se ne vedevano a maggior distanza dal Sole.
Jerome sapeva che quel paesaggio esisteva realmente dieci metri sopra di lui, ma non era ancora riuscito a scoprire come era stato riprodotto. Sapeva che non c’entravano né la televisione né le convenzionali tecniche fotografiche, e supponeva che gli ingegneri psichici dorriniani avessero trovato il modo di far sì che le molecole dello schermo reagissero in concordanza con quelle della superficie. La “camera” forse consisteva semplicemente in un percorso sulla superficie rocciosa collegato allo schermo grazie a una specie di telepatia inorganica. Era impossibile individuarlo e costituiva un esempio perfetto di quello che erano in grado di fare i più dotati fra i supertelepati.
Chiaramente visibili al centro dello schermo, spiccavano le curve metalliche dell’esca, l’enorme lastra che raffigurava il relitto di una nave stellare. Era stata portata in superficie quattro anni prima, divisa in blocchi e montata da operai che poi, con getti di gas, avevano cancellato le loro impronte.
Al centro, in basso, c’era il Thrabben, il più complesso manufatto mai creato da esseri umani, il gioiello vivente che aveva modellato per più di tre millenni la storia di due mondi.
Jerome, che aveva sperato di vederlo, era rimasto deluso scoprendo che era incastonato in una chiusura protettiva simile a un sasso delle dimensioni di una pallina da golf. Anche se gli altri astronauti avessero visto Mamorc raccoglierlo, l’avrebbero scambiato per un campione di roccia, e lui avrebbe avuto il tempo, in seguito, di estrarne il Thrabben. Il finto sasso spiccava come un punto bianco posto a uguale distanza fra due massi che somigliavano a teschi umani. Probabilmente Marmorc aveva studiato quel piccolo tratto di terreno, prima del suo trasferimento sulla Terra, e conservandone il ricordo durante gli anni di addestramento come astronauta, anche se, come supertelepate poteva venire diretto verso il Thrabben dai Guardiani che fissavano lo schermo.
Non avendo meditato molto su questo argomento, Jerome era rimasto sorpreso, quando, dopo che due dei Guardiani avevano sistemato il Thrabben, tutto il gruppo era rimasto nella sala a guardarlo anche se la Quicksilver sarebbe arrivata solo dopo due giorni. Da quel poco che sapeva sul conto dei Guardiani, gli era parso naturale che se ne stessero isolati e in disparte, ma si era stupito non poco allorché i tecnici con i quali aveva lavorato a contatto di gomito, lo avevano isolato dal loro gruppo. Solo dopo qualche ora di veglia, avendo avuto il tempo di pensare e di assorbirne i lati emotivi, capì finalmente che quella era una cerimonia religiosa.
Il tetro ambiente alieno, le disumanizzanti tute, il pulsare sommesso delle macchine, l’odor di gomma dell’ossigeno artificiale, gli avevano fino a quel momento impedito di rendersi conto che, per i dorriniani, quel luogo era Betlemme. E la Mecca. E Teotihuacàn. E Buddh Gaya. Seduto in disparte nella cavernosa penombra, osservando i Guardiani, venne fatto di pensare a Jerome che nessuna religione terrestre avrebbe potuto offrire ai suoi devoti un’esperienza di tale intensità. Trentacinque secoli di sforzi e sofferenze si erano concentrati su quell’evento, una piramide rovesciata inconcepibilmente massiccia di tempo posata su un unico punto… e non era garantito che quel punto potesse sostenerne il peso. Le classiche religioni terrestri offrivano certezza, offrivano una garanzia comune a tutti, qui invece il momento più sacro della vita dorriniana era oscurato dallo spaventevole elemento del caso.
Jerome stava osservando la mossa decisiva. L’anima collettiva dorriniana, incapsulata in una gemma, stava esposta sulla pianura sconvolta dalle meteoriti in attesa di essere trasportata in Paradiso, sulla Terra. Ma nessun corriere divino ne avrebbe assicurato la salvezza. Al suo posto, una nave spaziale complessa e relativamente primitiva avrebbe viaggiato nel vuoto sotto il fallibile controllo di alcuni uomini e delle loro macchine. Il guasto di uno solo dei diecimila componenti fabbricati ovunque, da Seattle a Milano, a Nagasaki, avrebbe potuto porre fine in qualsiasi momento alla missione, chiudendo così per sempre le porte del futuro a una intera razza. Mentre un cristiano riponeva la sua fede nella Croce, a un dorriniano si richiedeva di confidare che nessun circuito microscopico riportasse una submicroscopica lesione, che nessuna saldatura dello scafo fosse difettosa.
Cosa faranno se qualcosa non dovesse funzionare? pensò Jerome. Ci pensò sopra un poco, e, sentendo aumentare sempre più la stanchezza, lasciò perdere, come aveva smesso di cercare la soluzione di tanti altri problemi che lo tormentavano. Non riusciva a immaginare lo svolgersi degli eventi che avrebbero avuto luogo se la missione fosse riuscita. Chiuse gli occhi, per estraniarsi da quanto lo circondava, e si lasciò andare alla deriva, meravigliandosi di pensare al sonno quando era in gioco il destino di due mondi…
Non vi fu alcun rumore allarmante, ma la sensazione era inconfondibile.
Jerome aprì di colpo gli occhi, reagendo al turbamento psichico, e si guardò intorno. L’istinto lo spinse a centrare l’attenzione sull’immagine panoramica sullo schermo, ma questa era immobile e immutabile come sempre. Poi si accorse che uno dei Guardiani aveva attraversato la sala e confabulava coi tecnici del tunnel. Jerome intuì che si trattava di Conforden, che fungeva da collegamento fra i Guardiani e gli altri dorriniani. In apparenza non c’era niente di allarmante in questo, ma la sensazione persisteva. Quando la conversazione finì e Conforden stava tornando al suo posto, si alzò e lo fermò.
«È maleducato appartarsi a parlottare in presenza d’altri» disse. «Mi avevate assicurato che su Dorrin non ci sono segreti.»
«Credevo che dormiste» rispose Conforden.
«Riposavo gli occhi. È successo qualcosa?»
Conforden ci pensò sopra un momento, prima di rispondere: «Abbiamo appena captato alcune trasmissioni dalla Terra. La Quicksilver ha riferito che Baumanis è malato.»
«Non sapevo che ascoltaste la radio.»
«È il sistema più facile per ottenere informazioni» gli spiegò Conforden allontanandosi. «Credetemi sulla parola.»
Jerome lo seguì. «Siete preoccupato per lui, Pirt? Pensate che sia una cosa seria se il vostro uomo è malato?»
«Credevo che a quest’ora aveste capito certe cose» replicò con voce stranamente dura Conforden. «Un dorriniano dotato dei poteri di Marmorc non si ammala.»
«E allora?»
«Allora» disse Conforden appoggiandogli una mano sul petto come a fargli capire che non era disposto a dire di più «allora vuol dire che il Principe è più forte di quanto credessimo.»
Jerome seguì con lo sguardo Conforden che si allontanava, troppo confuso per seguirlo o richiamarlo. Di tanto in tanto, durante il suo soggiorno su Cuthranel aveva pensato al Principe Belzor — sempre con un brivido di paura nel ricordare gli occhi crudeli e la pallida faccia implacabile — ma in un certo qual modo lo aveva relegato nel passato. Forse il suo subconscio aveva deciso che aveva già troppi problemi, predisponendolo a un ottimismo grazie a cui si cullava nell’illusione che il Principe non avrebbe mai più influenzato la sua sorte.
Adesso invece, di punto in bianco, la situazione era cambiata.
Si imponeva una nuova, cupa visione della realtà nella quale le sue speranze per l’avvenire si rivelavano infondate e precarie se non impossibili. Era stato ingenuo a credere che il suo eventuale ritorno sulla Terra fosse messo a repentaglio solo da un possibile guasto all’astronave. Pareva evidente che il sinistro Principe Belzor, il superman dorriniano che per poco non lo aveva ucciso, volesse ora condannarlo a… a… Il pensiero era insopportabile. La mente di Jerome si rifiutava all’idea di dover trascorrere tutta la vita nello sterile e cupo ambiente del Recinto.
«Fermatevi, Pirt» supplicò. «Non andatevene. Cosa volevate dire? Cosa può fare a questo punto Belzor?»
Conforden continuò a camminare e raggiunse gli altri cinque Guardiani, che si erano alzati in piedi e stavano uniti, forse in contatto telepatico. Erano i mandarini enigmatici della società dorriniana, entità remote e venerabili, considerate lo strumento diretto dei Quattromila. Un dorriniano comune poteva rivolger loro la parola solo una volta nella vita, e dopo complessi preliminari, ma Jerome era esasperato. Si accostò ai Guardiani agitando le braccia per attirare la loro attenzione. Conforden si voltò, lo vide, e si staccò dal gruppo per impedirgli di raggiungerlo.
«State indietro» lo sollecitò.
«Non sapete quello che fate.»
«È proprio questo il guaio.» Non potendo oltrepassarlo, Jerome alzò la voce. «Non so quello che succede qui. Cosa sono tutte queste storie a proposito di Belzor? Esigo di…» S’interruppe, confuso, perché un Guardiano si era voltato verso di lui, e anche attraverso il visore del casco lo fissava con uno sguardo penetrante come un raggio laser. Cominciò a provare quel dolore… quel dolore particolare…
Più di duemila anni di vita non sono bastati a soddisfare il Principe, anzi, i suoi appetiti sono più insaziabili che mai. E adesso che si sente minacciato è diventato un mostro in forma umana. È furbo, egoista, amorale, privo di scrupoli, crudele e pericoloso. Soprattutto pericoloso… Il Principe costituisce la più grande minaccia per il futuro della razza dorriniana…
Non appena ha scoperto che Rithan Tell Marmorc, incarnato sulla Terra sotto le spoglie di Charles Baumanis, è il Guardiano incaricato di trasportare il Thrabben sulla Terra, ha deciso di distruggerlo. È stato lui a causare gli incidenti che si sono verificati durante le prove della missione “Quicksilver”, ma Marmorc è riuscito a cavarsela tutt’e due le volte. Allora il Principe ha ideato un nuovo tipo di attacco. Nel corso della sua lunghissima vita è riuscito a sviluppare in modo eccezionale i suoi poteri psichici, e ha cominciato a servirsene per sferrare un assalto telepatico contro Marmorc. Il suo metodo è consistito nel far penetrare un ago conico delle sue energie mentali nelle difese personali di Marmorc, per spezzare e distruggere il suo kald.
Per poco il piano non è riuscito. Marmorc è stato li lì per morire, ma si è salvato perché un attacco del genere è diretto come un raggio laser, e altri Guardiani sono riusciti a interporsi fra il Principe e Marmorc. Ne sono morti quattro prima che altri Guardiani potessero unirsi in modo sufficiente ad annullare i poteri di Belzor. Da quel momento, e fino a che non si è imbarcato sulla “Quicksilver”, Marmorc è stato ininterrottamente protetto da una catena di supertelepati. C’è stato un breve periodo durante il quale sperammo di poter distruggere Belzor, perché non poteva attaccare senza tradire la sua posizione, e molti Guardiani erano pronti a muovere contro di lui. Ma Belzor è troppo intelligente per commettere un simile errore. Invece, per un certo periodo, ha riesumato la tattica a cui era ricorso nel passato contro i Guardiani: attacchi singoli, a casaccio, spesso ricorrendo all’uso di armi convenzionali, specialmente contro i dorriniani che avevano una posizione di spicco nella CryoCare. Poi smise di agire e scomparve. Allora immaginammo che stesse raccogliendo tutte le risorse per l’attacco decisivo o contro Marmorc al suo ritorno sulla Terra o contro la base CryoCare nell’Antartide. Pensavamo anche che il Principe non potesse far del male a Marmorc durante il viaggio interplanetario, grazie alla supposta impossibilità di mettere a fuoco una lente kald su un oggetto piccolo, lontano, invisibile e in rapido movimento.
Questo è stato l’errore più grande e disastroso che i Guardiani abbiano mai commesso nella loro lotta contro il Principe.
Adesso ci rendiamo conto che ha affinato i suoi poteri e sviluppato facoltà che neanche i più progrediti supertelepati dorriniani riescono a comprendere appieno. In questo preciso momento — nonostante le distanze astronomiche che li dividono — sta distruggendo il Kald di Marmorc, assorbendone le energie vitali, e a meno che non si riesca a fermarlo, Marmorc morirà e il Thrabben non giungerà mai sulla Terra.
L’attacco contro Marmorc è direzionale come il precedente, ma in questo caso l’ago conico è diretto verso l’alto dalla superficie della Terra, il che significa che non può essere intercettato e utilizzato per determinare la posizione di Belzor. Noi supponiamo che si trovi in un posto da dove gli è possibile mantenere un ininterrotto contatto per ore e ore con Mercurio Dorrin, e questo indica che, siccome nell’Emisfero meridionale della Terra adesso è estate, lui si trova in un punto indeterminato dell’Antartide. Molti dorriniani si sono recati là a cercarlo, pronti a combattere fino alla morte, ma l’Antartide è un continente vasto, e il tempo stringe.
Il futuro della nostra razza è appeso a un filo sottilissimo…
…COSÌ TACETE E NON MUOVETEVI!
Jerome si era solo vagamente accorto che gli erano mancate le ginocchia e che Conforden lo aveva aiutato a tornare al suo posto. Sapeva fin da principio che la telepatia era in parte un processo fisico consistente nel teletrasporto di cariche elettriche nel cervello ricevente, il che spiegava come il contatto mentale col Guardiano lo avesse stordito. Ma alla pura e semplice trasmissione del pensiero si era sovrapposta una devastante componente emotiva. Per un attimo aveva condiviso i sentimenti dei dorriniani, la loro angoscia perché il sogno che coltivavano da millenni minacciava di essere distrutto. E inoltre, solamente per un attimo, aveva visto se stesso come un intruso ignorante e sacrilego.
Si appoggiò allo schienale della sedia respirando a fondo, nel tentativo di ritrovare l’equilibrio mentale. Il Guardiano era stato spietato con lui, ma Jerome si consolò pensando che sulla Terra esistevano uomini che l’avrebbero ucciso se si fosse comportato allo stesso modo, anche in circostanze meno gravi. I Guardiani stavano sempre raggruppati e immobili come statue, e lui poteva solo cercar di immaginare in quale conflitto telepatico fossero impegnati.
Stavano cercando — come, non sarebbe mai riuscito a capirlo — di formare uno scudo protettivo intorno al Dorriniano a bordo della nave spaziale? Comunicavano coi loro agenti nelle lontane distese nevose dell’Antartide? O invece stavano sforzandosi di fondere le loro lenti kald in un’unica lancia immateriale capace di attraversare lo spazio e trafiggere il Principe rinnegato? Era possibile che Belzor restituisse il colpo, grazie al suo eccezionale potere, destabilizzando i loro aghi conici d’energia mentale fino a trasformarli in sfere oscillanti intorno al Sole? Era possibile che i gladiatori psichici venissero improvvisamente trasformati in torce fiammeggianti?
Non potendo chiarire il mistero, ammutolito e confuso davanti a quel silenzioso conflitto, Jerome cadde in uno stato di rassegnata attenzione. Il gruppo dei tecnici dorriniani alla sua destra pareva ammutolito e attonito come lui. Tutti fissavano l’immagine immutata sullo schermo, la macchia bianca del Thrabben, e l’atmosfera che regnava nella sala era carica di ansiosa attesa.
Non finirà mai, pensò Jerome. Resteremo qui per sempre.
La Quicksilver scese così rapidamente che Jerome temette avesse perduto il controllo.
Balzò in piedi aprendo la bocca per gridare un inutile avvertimento, ma poi vide le nubi di polvere, segno che erano entrati in azione i retrorazzi di atterraggio. Le volute di polvere, non essendoci atmosfera che ne disperdesse le particelle, ricaddero come pesanti coltri… ed ecco che la nave terrestre era arrivata, come per magia.
Si posò sulla superficie di Mercurio, spigolosa costruzione su un tripode di atterraggio, vividamente illuminata su un lato, e a Jerome ricordò un’illustrazione di un romanzo avveniristico dell’800. Il sistema di lancio dall’orbita terrestre, unitamente alla dotazione di motori modernissimi e molto efficienti, aveva consentito ai progettisti di evitare l’incubo astronautico del “rendez-vous” orbitale a destinazione. Non era stato necessario che una nave madre inviasse sulla superficie del pianeta un modulo di atterraggio. La Quicksilver — grossa e tozza, irta di antenne, sicura della sua efficienza — si era solidamente ancorata sulla superficie di Mercurio, a un centinaio di metri dal sensore dorriniano, in una zona pianeggiante e liscia che per questo era stata scelta dai Dorriniani per sistemarvi la loro esca.
Guardando l’astronave, Jerome fu preso da un senso di orgoglio e nostalgia che gli serrò la gola e gli annebbiò la vista. Fece un passo, come per avvicinarsi all’immagine sullo schermo, ma poi si accorse che nessun altro si era mosso né aveva dato a vedere in alcun modo di essersi accorto di quanto era avvenuto. I Guardiani continuavano a formare un gruppo statuario alla sua sinistra, e gli altri, altrettanto immobili, sembravano manichini privi di vita.
Si vede che Marmorc sta bene, pensò. Se fosse successo il peggio, se fosse morto, i Guardiani lo saprebbero, e io me ne sarei accorto dalla reazione degli altri. Pure dovrebbero reagire in qualche modo alla vista della mia bellissima nave. Accidenti a loro, dovrebbero battere le mani o suonare le campane!
Jerome tornò a guardare lo schermo, deluso e imbarazzato, e rimase sorpreso nel vedere che sebbene fosse passato solo un minuto, si stava già aprendo un portello. Si era aspettato che gli astronauti dovessero fare lunghi controlli e prove prima di compiere il passo decisivo. Perché tanta e insolita fretta? Sotto gli attoniti occhi di Jerome una scaletta telescopica scese dall’apertura buia del portello. Non appena ebbe toccato terra sulla soglia comparve una figura in tuta spaziale bianca. Uno dei Guardiani si lasciò sfuggire un breve ansito.
Quello è Marmorc, pensò Jerome mentre l’astronauta scivolava già per la scaletta senza toccare i pioli. Toccando terra piegò le ginocchia. Si raddrizzò con evidente difficoltà, appoggiò per un attimo la testa alla scaletta, poi si voltò e si diresse barcollando verso il Thrabben. Dopo pochi passi cominciò a ondeggiare. Alle sue spalle, gli altri due astronauti uscirono dal portello e si precipitarono giù dalla scaletta.
Il primo avanzava sempre più lentamente, a fatica, finché non si fermò vacillando. Era evidente che stava molto male. Allargò le braccia, rimase perfettamente immobile per un momento, e poi crollò accasciandosi come una marionetta a cui avessero tagliato i fili.
Un dorriniano emise un gemito d’angoscia, un suono sottile, penetrante come mai Jerome aveva udito, che esprimeva un dolore al di sopra della sopportazione umana. A quel suono straziante altri ne seguirono, e un Guardiano traballò e fu sorretto da un compagno.
«No» ansimò Jerome. «No, no, no!»
Arretrò dallo schermo su cui ora si vedevano i due astronauti chini sulla figura inerte di Marmorc, e si avviò senza guardarsi intorno, spinto da una conoscenza istintiva dell’ambiente, finché le sue mani non incontrarono alcune sporgenze di metallo. Muovendosi come in sogno, trasse dalla cintura degli utensili la chiave della porta del tunnel e la infilò nella serratura.
La chiave girò senza difficoltà, lui abbassò la maniglia, socchiuse il battente, e scivolò attraverso la fessura nel tunnel che dalla sala portava in superficie.
La luce dell’unico globo appeso al soffitto filtrò nella sala e i dorriniani più vicini si voltarono da quella parte.
Jerome richiuse di colpo il battente e tirò il catenaccio. Quella parte del tunnel era lunga solo una quarantina di metri ed in ripida ascesa. Jerome non ci era mai stato, prima di allora, ma sapeva che, per motivi di sicurezza, c’erano due altre porte a tenuta stagna e che la sezione al di là della prossima era stata evacuata. Salì di corsa l’erta abbassando il visore del casco, e dovette fare tre tentativi prima di riuscire a infilare la chiave nella serratura della valvola equilibratrice. Quando l’ebbe girata nella posizione di “aperto” un fiotto d’aria uscì dal la valvola.
Jerome aprì il lucchetto del catenaccio, lo tirò e cercò di spalancare la porta. Ma il battente opponeva resistenza a causa della differenza di pressione atmosferica. Jerome lasciò andare la maniglia temendo di rompere il guanto e si costrinse ad aspettare finché la valvola equilibratrice non avesse adempiuto alle sue funzioni. Trascorsero così dieci o dodici secondi lunghi come ore, come in un incubo, e durante quell’incubo gli parve di vedere i dorriniani che lo raggiungevano e lo riportavano indietro a forza. Quando il rumore dell’aria che defluiva dalla valvola cessò, spinse la porta e riprese a correre su per l’ultimo tratto del tunnel.
Quando aprì la seconda valvola il deflusso dell’aria durò meno perché la pressione era stata dimezzata. Allora cominciò a sentirsi al sicuro, sapendo che la porta della sala adesso non poteva essere aperta finché tutti i dorriniani non avessero isolato le tute a tenuta stagna. Aprì l’ultima porta, chinandosi, ed emerse in un cunicolo scavato nel basalto nero. Nel tetto era incastrato un pannello di plastica che aveva l’aspetto della roccia circostante. Jerome lo spinse verso l’alto. Il pannello si sollevò senza difficoltà scivolando di lato, e lui si ritrovò a guardare il cielo nero disseminato di stelle.
Si arrampicò fuori e si trovò su una corona rocciosa in lieve pendio, le cui fenditure avevano perfettamente mimetizzato il pannello d’accesso al tunnel. La scena che si stendeva davanti a lui era identica a quella che aveva visto sullo schermo. Tutti gli elementi stavano disposti come su un palcoscenico naturale.
In distanza si ergeva la complessa struttura della Quicksilver la cui luce si rifletteva sull’esca che i dorriniani avevano sistemato sulla superficie a prezzo di tante vite. Al centro, i due astronauti inginocchiati accanto al compagno caduto, e più vicino a Jerome, con i due sassi a forma di teschi ai lati, quell’insignificante ciottolo bianco che conteneva l’anima di un’intera razza.
Tutta la scena col suo sfondo di dirupi e pareti di crateri era spietatamente illuminata dall’abbacinante disco del sole che sfolgorava sull’orizzonte. Nel cielo, in basso, si distinguevano due puntolini ravvicinati che brillavano di luce biancazzurra. Nonostante l’enorme distanza il sistema Terra-Luna faceva parte integrante del quadro, non solo perché era la meta suprema di Jerome e di tutti i dorriniani, ma anche perché da là Belzor, il maligno superman, aveva sferrato il colpo mortale contro il protagonista del dramma. A Jerome parve di vederlo in qualche punto della bianca, desolata distesa antartica, magari chiuso in un sacco a pelo termico, con gli occhi fissi su Mercurio mentre scagliava i suoi poteri psichici a milioni e milioni di chilometri attraverso lo spazio…
Ancora immerso nei suoi pensieri, Jerome rimise a posto il pannello e scese il pendio. Tutto il corpo era diventato insensibile, non sentiva più le braccia né le gambe; era diventato un paio di occhi, un essere incorporeo che fluttuava su un paesaggio di sogno. Il ciottolo bianco che conteneva il Thrabben era proprio lì davanti, pareva che lo chiamasse. Si chinò a raccoglierlo e lo infilò nel taschino della coscia destra, continuando a camminare verso gli astronauti terrestri.
Questi stavano sollevando il corpo di Marmorc, e Jerome era solo a pochi passi da loro, quando uno dei due voltò la testa e lo vide. Lasciò andare Marmorc e arretrò spalancando la bocca, e nel silenzio del vuoto Jerome tardò a capire che stava urlando. L’altro si alzò di scatto e arretrò a sua volta protendendo le mani come per respingere l’intruso.
Jerome, intuendo quello che provavano, capì che vedendolo avevano provato il peggior shock che mai potessero immaginare. Avevano appena compiuto un viaggio di tre mesi arrivando su un pianeta sconosciuto, erano preoccupati per le condizioni del loro compagno, e se c’era una cosa che non avrebbe dovuto verificarsi era l’improvvisa comparsa di una figura umanoide chiusa in una tuta spaziale di modello mai visto. Jerome fece un passo indietro e alzò le mani per far capire che non era animato da cattive intenzioni, poi si accorse che cominciava a sentire il respiro affannoso dei due. La minuscola ricetrasmittente dorriniana inserita nel casco si era automaticamente sintonizzata sulla frequenza delle radio degli astronauti.
«Vengo dalla Terra» si affrettò a dire, ringraziando Dio perché le microcomunicazioni erano un campo in cui i dorriniani eccellevano. «Non abbiate paura. Sono come voi. Vengo dalla Terra.»
«Non è vero. Non ci credo» balbettò uno degli astronauti. «Stai lontano da me.»
«So di avervi spaventato e me ne scuso, ma, vi prego, statemi ad ascoltare.» Jerome tacque, conscio del difficile problema che doveva risolvere all’istante. «Sentite, parlo inglese e so anche come vi chiamate. Siete Hal Buxton e Carl Teinert… anche se non vi so distinguere. Calmatevi e pensateci un momento.»
Seguì un prolungato silenzio durante il quale i due rimasero a fissarlo sospettosi, e Jerome pregò che non fossero in grado, sconvolti com’erano, di afferrare in pieno il senso delle sue parole. Dicendo che sapeva come si chiamavano aveva implicitamente ammesso di sapere che il morto era Marmorc/Baumais.
«Va bene, ci abbiamo pensato» disse il più alto dei due. «E adesso dicci chi sei, cosa diavolo fai qui, e come ci sei arrivato.»
Tutto quello che gli era successo da quella remota mattina, quando, in tutta innocenza e ignoranza si era recato nella casa di Pitman, riemerse in un lampo nella mente di Jerome… strane immagini e concetti inconsueti, in un confuso caleidoscopio mentale. L’universo aspettava di sentirlo parlare.
«Mi chiamo Pavel Radanovik» disse con voce ferma. «Sono capitano dell’Aeronautica dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.»
Gli americani si scambiarono un’occhiata, poi scrutarono l’orizzonte. «Dov’è la tua nave?»
«Quello che ne resta giace in un burrone a circa venti chilometri da qui. Durante l’ultimo stadio della discesa si è verificato un guasto. I miei tre compagni sono morti nel disastro.»
«Mai sentito niente di così…» L’americano che si era assunto il compito di portavoce allargò le braccia e le riabbassò per dimostrare la sua incredulità. «E come sei arrivato fin qui?»
«A piedi, naturalmente» rispose Jerome. «Per fortuna ho recuperato qualche bombola di ossigeno, sufficiente a farmi arrivare qui… Poi ho aspettato che arrivaste.»
«Dove sono le bombole?»
«Le ho gettate via appena erano esaurite. Questa che porto è l’ultima. Siete arrivati appena in tempo.»
«Accidenti, è la più…»
«Ci stiamo dimenticando di Charlie» disse l’altro intervenendo per la prima volta. «Credo che sia morto, Hal. Ci aveva detto che stava per morire… e così è stato. Davvero strano.»
«A chi lo dici» replicò Buxton, continuando a fissare Jerome. Era perplesso, incerto e sospettoso e Jerome si rendeva perfettamente conto del motivo. Due eventi insoliti e inattesi si erano verificati contemporaneamente, e sebbene fosse evidentemente impossibile collegarli, una voce nella mente dell’astronauta, una voce persuasiva, gli diceva che un rapporto c’era. Jerome conosceva bene quella voce: era la stessa che gli aveva assicurato che c’era un legame fra i casi di autocombustione umana, e non voleva che Buxton continuasse ad ascoltarla.
«Non guardarmi a quel modo» disse, cercando di sembrare il più possibile sincero. «Che motivo avrei di mentirvi?»