Vicino al Compartimento 18 si era verificata una serie di fughe d’aria e una squadra di manutenzione era stata mandata in quel settore per le riparazioni.
La stanchezza dovuta al lavoro era aggravata dall’insofferenza che Jerome provava perché non riusciva a valutare il tempo. Il “giorno” dorriniano non aveva niente a che fare con la rotazione del pianeta, ma si basava su ritmi approssimativi ereditati dal leggendario pianeta natale. Avevano detto a Jerome che equivaleva a circa ventisei ore terrestri. Dato che il suo nuovo corpo era abituato fin dalla nascita a quel ritmo non avrebbe dovuto avere problemi di adattamento, tuttavia il fastidio restava. Era abituato a valutare l’orario di lavoro in unità orarie, e trovava molto scomodo il giorno dorriniano diviso in mille unità uguali chiamate mirds.
Anche gli orologi gli parevano inutilmente approssimativi. Funzionavano a risonanza molecolare, che era un prodotto della microtecnica psichica in cui i dorriniani eccellevano. Il quadrante recava due file di cifre dorriniane, di cui quella superiore indicava il conto mird della giornata e quella inferiore il numero dei giorni trascorsi dalla creazione del Thrabben. Jerome trovava quel sistema troppo semplicistico per i suoi gusti. Gli mancava il comodo arrangiamento dei cicli — anni, mesi, settimane, giorni, ore, minuti, secondi — mediante i quali sulla Terra si distinguevano le realtà dell’entropia.
Non gli andava neanche di dover lavorare in una tuta a tenuta stagna di fattura rozza e primitiva. In prossimità del compartimento 18 il tunnel correva vicino alla superficie, e per buona parte della giornata planetaria la temperatura interna era eccessivamente elevata. La tuta non era dotata di un sistema di raffreddamento e anche quando chi l’indossava stava fermo si trasformava in un’umida, soffocante autoclave. Nei periodi di attività fisica diventava addirittura insopportabile, ma era necessaria, perché se si formava qualche grossa crepa nelle pareti l’aria veniva risucchiata all’esterno.
«Come va, Jerome?» chiese Mallat Rill Glevdane, il dorriniano supervisore dei lavori di riparazione. «Problemi?»
Jerome, intento a infilare mastice in una fenditura, interruppe il lavoro per asciugarsi la fronte attraverso il visore aperto del casco. «Sì… non riesco a sigillare la crepa. Il mastice non basta.»
«Quanto ne avete messo?»
«Almeno un chilo, e sento ancora filtrare l’aria. Dovremmo togliere la lastra e dare un’occhiata dietro.»
«Questa sarebbe l’opinione di un esperto?» chiese con aria ironica il dorriniano.
«Non c’è bisogno di essere un esperto per vedere che tutto questo impianto è da buttar via.»
«È stato costruito quarant’anni fa da Tarn Gall Evalne» disse Glevdane in tono non più divertito. «Era un Guardiano e uno dei nostri migliori ingegneri.»
«Forse sarà stato bravo a scolpire molecole in un grano di riso, ma non ne sapeva niente di impianti su larga scala.» Jerome indicò il portello stagno del Compartimento 18. «Ecco da dove vengono tutti i vostri guai. Strutture rigide costruite in un tubo semirigido. È quello che provoca le fughe d’aria. Il resto del tunnel si adatta allo scorrimento della roccia, ma sono i portelli a provocare i danni.»
«Se le strutture non fossero rigide i portelli non terrebbero.»
«Perché entrano dentro alle strutture. Dovrebbero invece incastrarvisi. Potrei disegnarvi un portello stagno con una distorsione di cinque o dieci centimetri nella struttura, e tuttavia a tenuta d’aria.»
«A quanto pare avete una mente molto brillante» osservò Glevdane, «e mi stupisco come un uomo che ha la presunzione di insegnare a Evaine sia stato assegnato a un lavoro da manovale.»
«È perché…» Jerome s’interruppe sorpreso perché, dopo tutto quello che era successo, lasciava ancora che le sue antiche preoccupazioni prevalessero sulle sue attuali attitudini. Verso la fine del colloquio inteso a decidere sulla sua sistemazione, avvenuto sessantasei giorni prima, era rimasto sbalordito nel sentire che, non avendo qualifiche nel campo dell’ingegneria formale, era svantaggiato quando gli si doveva assegnare un incarico in una società aliena su un mondo alieno. Gli pareva mostruosamente sleale che gli stessi pregiudizi per cui aveva sofferto sulla Terra dovessero danneggiarlo anche in circostanze completamente diverse e con un corpo diverso. La sua abitudine a discutere, quando era studente, coi professori, invece che ascoltarli, giocava ancora a suo sfavore.
«Comunque» concluse, «sono sempre del parere che si dovrebbe estrarre la lastra.»
«Mi inchino alla vostra opinione di esperto» disse Glevdane. «Le nostre norme di sicurezza esigono che, quando è possibile, non devono rimanere più di due operai in una sezione evacuata del tunnel. Credete di farcela con un solo aiutante?»
«Volete che lo faccia io?»
«Siete voi il famoso tecnico, ma naturalmente se preferite che assegni il lavoro a uno più esperto…»
«Ce la farò» tagliò corto Jerome, celando i suoi timori alla prospettiva di affidare la vita alla tuta dorriniana. L’ambiente limitato aveva molto influito sulla scienza e la tecnologia dorriniane. Esisteva una gran quantità di minerali, ma l’ossigeno era un elemento indispensabile che doveva essere prodotto artificialmente, e a causa della sua scarsità la metallurgia aveva fatto scarsi progressi. Per lo stesso motivo non erano stati prodotti il vetro, le materie plastiche e altri materiali, col risultato che molti manufatti parevano pezzi da museo a Jerome, aggeggi in cui la maggior parte dell’ingegnosità di chi li aveva progettati era stata soffocata dalla scarsità del materiale necessario per realizzarli. La tuta che indossava ne era un esempio. Gli sembrava uno scafandro del 19° secolo, ed era convinto che non avrebbe funzionato sulla Terra.
«Bene» disse Glevdane. «Avete qui tutti gli attrezzi necessari. Vi manderò un uomo ad aiutarvi.» Aggiunse poi che lui e gli altri avrebbero rispettato le norme di sicurezza ritirandosi due compartimenti più in là e chiudendo i portelli stagni prima che Jerome cominciasse a togliere la lastra.
Jerome annuì ascoltandolo distrattamente, occupato com’era a controllare la riserva di ossigeno e a chiudere il casco. La tuta diventò più soffocante che mai quand’ebbe avvitato il pesante visore, e il senso di claustrofobia gli rammentò una volta di più come detestasse la vita su Dorrin. Quasi tutte le notti sognava di essere sulla Terra, di camminare all’aperto godendo quando la pioggia gli bagnava la faccia e, svegliandosi nello sterile ambiente chiuso del Recinto, non riusciva a dominare il tremito interno che lo agitava. Le notti in cui Donna Sinclair gli era vicina erano più facili da sopportare, ma l’unica cosa che dava uno scopo e una motivazione alla sua esistenza era la lontana prospettiva di tornare nel suo mondo. Se per raggiungere più presto quello scopo comportava lavorare per i Dorriniani aiutandoli a perfezionare la loro progettata invasione della Terra, bene, era disposto ad arrivare al limite estremo.
«Mi sono offerto volontariamente di aiutarvi, signor Jerome» disse un operaio avvicinandosi. «Vi spiace?»
Era impossibile riconoscere l’uomo chiuso nella tuta, ma Jerome lo riconobbe dal tono e dal modo di esprimersi. Da quando era arrivato su Mercurio gli era capitato qualche volta di parlare con Sammy Birkett, e aveva trovato quei colloqui difficili e imbarazzanti. Il giovane giardiniere aveva tutta l’aria di essersi adattato con gran facilità alla nuova vita, ma sotto sotto Jerome sentiva che era confuso e spaventato.
Una delle manifestazioni di questo stato d’animo era il desiderio di stare più che poteva con Jerome, parlando senza posa di Whiteford, facendo lunghi elenchi di nomi nella speranza di scoprire qualche conoscenza comune. Jerome lo capiva, ma si sentiva sminuito in sua compagnia. Lui e Birkett erano socialmente incompatibili, sia sulla Terra sia lì, tuttavia Jerome aveva l’impressione che la sua avversione fosse più che altro dovuta alla scena traumatica a cui aveva assistito nel giardino di Pitman. Come poteva aver rapporti con una persona la cui bocca aveva eruttato fiamme che le avevano distrutto la faccia e il cui corpo si era contorto, spaccato, raggrinzito per effetto del calore solare?
«Certo che puoi aiutarmi, Sammy» rispose, facendo buon viso a cattivo gioco. «Gli faremo vedere come sappiamo lavorare noi di Whiteford.»
«Certo, signor Jerome. Potete scommetterci che gliela faremo vedere.» La radio incorporata nella tuta (il meglio che la microtecnica dorriniana fosse riuscita a creare) faceva sì che la voce di Birkett sembrava scaturire dal suo stesso casco, creando un senso di sgradevole intimità. «Sono pronto.»
«Bene, Sammy, mettiamoci al lavoro.»
Intanto Glevdane e gli altri stavano per raggiungere il Compartimento 17. Vi entrarono, chiusero il portello rotondo interrompendo il contatto radio, e pochi attimi dopo sopra il portello si accese una luce gialla per indicare che la chiusura era a tenuta stagna. I due aspettarono ancora che gli altri raggiungessero il Compartimento 16, distante circa duecento metri, e finalmente l’immagine di un cerchio verde, simbolo dorriniano di “via libera”, lampeggiò per un attimo nella mente di Jerome.
La semplice e breve comunicazione telepatica di Glevdane ricordò a Jerome che i due dorriniani che aveva conosciuto per primi, Pitman e Belzor, erano dei tipi a sé in materia di comunicazioni mentali. Tutti i dorriniani, chi più chi meno, erano telepati, ma a livello medio erano soltanto in grado di trasmettere immagini convenzionali a breve distanza. Così la telepatia era solo una specie di utile appendice delle comunicazioni verbali, e quando Jerome aveva parlato delle straordinarie facoltà di Pitman e Belzor erano rimasti a bocca aperta.
«Controlla l’ossigeno, e poi cominciamo» disse. Aspettò che Birkett avesse controllato la bombola per poi segnalare che era pronto, e quindi cominciò a svitare la lastra sospetta. Con l’aiuto di Birkett tolse tutte le viti, non dissimili da quelle fabbricate sulla Terra — le avevano ideate i dorriniani o i terrestri portati su Dorrin avevano a lungo andare influenzato i progettisti dorriniani? — e non appena l’ebbero tolta si udì il sibilo acuto dell’aria che fuggiva nel vuoto circostante.
Rimpiangendo una volta di più di non avere un orologio terrestre, Jerome contò due mirds prima che il sibilo cessasse e il rigonfiamento della tuta gli indicasse che in quella sezione del tunnel era subentrato il vuoto. Il pensiero dei diciotto operai morti nella costruzione del tunnel — come gli aveva raccontato Conforden — non era per niente consolante.
Senza pressione atmosferica la lastra era più facile da maneggiare. La posarono a terra, poi ripulirono il vano badando a non danneggiare le guarnizioni a pressione sui lati finché non misero a nudo un tratto di nera roccia vulcanica. Era la prima volta che Jerome vedeva la crosta del pianeta, ma non era certo quello il momento di esaminarla. Tutta la sua attenzione si concentrò subito su un frammento lungo e stretto che era precipitato dall’alto conficcandosi nel metallo dopo aver distrutto la guarnizione a tenuta d’aria. Il mastice che Jerome aveva pompato dall’esterno giaceva in mucchietti simili a escrementi.
«Tombola!» esclamò, soddisfatto di aver intuito il problema e convinto che non sarebbe stato tale ancora per molto. Afferrò la scheggia e la tirò, ma non riuscì a estrarla. Era piuttosto grossa e si era conficcata fra il bordo e la roccia. Si avvicinò, cambiò presa e tornò a tirare. La scheggia cominciava a muoversi quando un brusco schiocco nelle orecchie gli rivelò che la pressione interna della tuta stava diminuendo. Una fila di luminosi punti rossi si andò allungando sulla cucitura del guantone destro. Jerome rimase a fissarla affascinato, incapace di respirare. Passati alcuni secondi la striscia che pareva sangue della chiusura di sicurezza fu completata e lui capì che la tuta si era autosigillata. Jerome imprecò a voce alta.
«Cosa c’è, signor Jerome? Vi siete fatto male?» chiese Birkett che stava ripulendo la lastra.
«Prima ci sfiliamo queste maledette tute e meglio sarà» rispose Jerome. «Devo estrarre questa scheggia e ho bisogno del tuo aiuto, ma non sforzarti troppo altrimenti saltano le cuciture.»
«Sono pronto, signor Jerome, quella scheggia non è un problema. So come fare.»
Birkett afferrò la scheggia con un vigore che Jerome giudicò pericolosamente eccessivo, e a furia di torcere e tirare, fra tutti e due riuscirono a estrarla. Birkett la posò a terra, mentre Jerome esaminava la guarnizione danneggiata della porta. Con suo gran sollievo scoprì che la scheggia l’aveva solo spostata e spingendo una leva fra la roccia e la guarnizione riuscì a rimetterla a posto. Poi applicò il mastice prima di reinserire la lastra.
Lavorando, pensava che il tunnel era lungo otto chilometri, dalla capitale dorriniana di Cuthranel al punto previsto per l’atterraggio della Quicksilver. A suo giudizio, anche tenendo conto delle difficili condizioni in cui avevano lavorato i dorriniani, l’intero complesso era piuttosto primitivo, costruito con tecniche che anche un antico romano avrebbe capito. Sapendo cosa significava il Thrabben per i dorriniani si sarebbe aspettato qualcosa di più affidabile e sicuro, ma anche quel progetto era un esempio dell’ambivalenza che aveva notato nel carattere di quel popolo.
Si gloriavano di essere altamente etici, umani e razionali, ma nello stesso tempo erano inconsciamente spietati quando si trattava delle loro ambizioni razziali. Jerome, condizionato dalla sua vita precedente, aveva calcolato che gli abitanti di Mercurio assommassero a circa un milione ed era rimasto sorpreso nel sapere che la capitale ne contava meno di ventimila. E c’erano stati periodi in cui gli abitanti di Mercurio erano meno dei Quattromila di cui avevano giurato di conservare la personalità.
In nome del Thrabben erano stati fatti molti sacrifici personali in vista di quell’unico, sommo obiettivo, e il tunnel costituiva un perfetto paradigma del carattere dorriniano. Era stato costruito solo per i Quattromila, sarebbe servito una sola volta e la vita degli operai non contava, purché non ne morissero tanti da mettere in pericolo lo scopo del Thrabben. quella galleria sotterranea suggeriva a Jerome un paragone: quello delle formiche che si sacrificavano per il bene della colonia durante la forzata ritirata da un nido… e nonostante il caldo gli parve di rabbrividire.
«Proviamo a rimettere a posto la lastra» disse a Birkett. «Questo posto comincia a darmi sui nervi.»
Birkett lo aiutò a sollevare la lastra e a sistemarla al suo posto. Jerome rimase soddisfatto nel constatare che si inseriva perfettamente ai bordi e cominciò a rimettere a posto le viti.
«Non possiamo lasciare qui questo pezzo di roccia» disse Birkett indicando la grossa scheggia. «La porto sul carrello.»
«Non sollevarla da solo» lo ammonì Jerome ancora intento a controllare le guarnizioni. Ci faremo portare qui il carrello.
«Maledizione» imprecò Sammy. «Non mi lasciano mai far niente, qui! Adesso sono forte come un toro, sapete.»
«Sammy, non devi dimostrare niente a nessuno. Il tuo nuovo corpo non ha niente a che fare col tuo vero io.»
«Fate presto a dir così, signor Jerome. Voi lavorate con la testa e potete ancora farlo. Io facevo il giardiniere. A cosa serve un giardiniere in questo buco?»
«Ecco fatto» mormorò Jerome stringendo l’ultima vite, senza badare a quello che diceva Birkett. Poi trasse da una tasca della tuta la spugna imbevuta di solvente e ripulì le sbavature di mastice lungo i bordi della lastra, perché ci teneva non solo a lavorare bene, ma a lasciare tutto a posto, pulito e ordinato. Il lavoro non delude, pensò, consolato dall’idea che anche dopo il trasferimento il lavoro gli desse ancora delle soddisfazioni.
Ripensando al tempo passato nel Recinto, poté elencare diverse attività che gli avevano dato soddisfazione e un senso di appagamento durante la sua vita sulla Terra, ma che avevano perso il primitivo gusto nelle nuove condizioni e nel nuovo ambiente. Forse — sorprendentemente — una delle principali era il sesso. C’era stata la sorpresa di trovare molte donne disponibili — al contrario di quanto gli era successo nella sua vita precedente — e dapprima era ricorso ai rapporti fisici come a una droga che lo aiutava ad alleviare la solitudine e la nostalgia. Donna Sinclair, quella che aveva notato lungo il corridoio mentre si recava al colloquio, era la sua partner più frequente, ma sebbene godesse del dono di una seconda giovinezza e di una rinnovata virilità, lui non poteva fare a meno di pensare: Sarebbe venuta con me anche se ero quello di prima?
L’ansito di Sammy Birkett fu soffocato da un sibilo esplosivo che ferì i timpani di Jerome. Si voltò e vide Birkett, a una trentina di metri da lui, piegato su se stesso come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. La grossa scheggia che stava portando da solo toccava terra solo in quel momento, grazie alla esigua attrazione gravitazionale.
«Idiota!» gridò Jerome correndo verso di lui, impacciato dalla tuta.
Birkett stava afflosciandosi sulle ginocchia. «Mi dispiace, signor Jerome.» Birkett parlava a singulti brevi e appena percettibili. «Credo… credo che…»
«Venite qui immediatamente, Glevdane!» gridò Jerome, ricordandosi solo dopo che il contatto radio era interrotto. Cercò allora di visualizzare un triangolo rosso, il simbolo dorriniano per emergenza, ma vi rinunciò. Un uomo che stava per morire asfissiato come Birkett doveva essere di per sé telepaticamente distinguibile. Avvicinandosi, Jerome vide che si stringeva il braccio sinistro, e, a giudicare dalla fila di puntini rossi, la tuta aveva ceduto dal polso fin oltre il gomito. Birkett alzò la testa verso Jerome e la luce di un globo appeso al soffitto ne rivelò la faccia contorta. Le labbra si muovevano, ma restava talmente poca aria nella tuta che non riusciva ad emettere suoni, e un attimo dopo perse conoscenza. Jerome si chinò a sostenerlo e lo posò a terra.
«Dove siete, Glevdane?» gridò in preda al panico. «Abbiamo bisogno di aria, qui!»
Sfibbiò la cintura degli utensili e, lavorando con difficoltà per via dei guantoni, la legò sul braccio sinistro di Birkett nel tentativo di impedire all’ossigeno, che la bombola continuava a erogare, di sfuggire attraverso la scucitura. Ma la cintura era fatta di una plastica scivolosa difficile da annodare. Si guardò intorno disperato finché non notò un pezzo di mastice grosso come un pugno ancora attaccato alla scheggia. Continuando a imprecare, l’afferrò e spalmò il mastice sulla scucitura premendolo con ambo le mani. Era ormai quasi certo che la tuta di Birkett era di nuovo a tenuta stagna e che non sussistevano dubbi su una rapida reintegrazione dell’ossigeno, ma aveva il sinistro sospetto che il pericolo consistesse adesso nella totale mancanza di pressione atmosferica. Cosa succede al corpo umano quando non esiste pressione esterna?
La paura di Jerome e la convinzione di essere impotente in quei frangenti erano aggravate perché sapeva di essere ignorante in materia. Le cellule del corpo di Birkett stavano già spaccandosi? Il sangue cominciava a bollire?
Dio mio, pregò atterrito, non far sì che debba assistere per la seconda volta alla morte di quest’uomo!
Tenne lo sguardo fisso sul portello del Compartimento 17, quasi a imporgli di aprirsi, o almeno nella speranza che qualche indizio mostrasse che stava tornando l’aria in quella sezione del tunnel. I dorriniani avevano una paura patologica del vuoto e lui temeva che avrebbero reagito con lentezza a una situazione che richiedeva l’apertura dei portelli stagni, ma stavano dimostrandosi ancora più lenti di quanto pensasse. Passavano i minuti e non arrivavano soccorsi.
Forse non verrà nessuno! Era una supposizione assurda, perché prima o poi gli altri dovevano tornare, ma in quel momento Jerome era in uno stato d’animo tale per cui guardò con ansia quanto ossigeno gli restava ancora. Ce n’era per circa trenta mirds, più o meno un’ora terrestre, quindi non aveva motivo di temere per la propria vita. Tuttavia non riusciva a tranquillizzarsi.
A Whiteford, una mattina ormai lontana, aveva preso una decisione che sembrava poco importante — visitare la casa di Starzinsky — e invece quella si era rivelata l’azione più disgraziata della sua vita. Sarebbe stato un logico corollario degli eventi che si erano succeduti da quel giorno se adesso fosse morto in seguito a uno stupido incidente proprio nel tunnel da cui dipendeva la speranza di tornare sulla Terra. Il fatto che la Quicksilver doveva atterrare fra solo ventidue giorni e a poche centinaia di metri dal punto dove lui si trovava adesso, sembrava l’ultimo e più appropriato tocco…
Una grinza sul braccio della sua tuta gli rivelò che finalmente stavano pompando aria in quella sezione del tunnel.
La stava fissando da alcuni secondi, trattenendo un sospiro di sollievo, quando gli venne in mente che la sua improvvisata riparazione alla tuta privava adesso Birkett dell’aria. Lasciò la presa, e, con le dita impiastricciate di mastice, aprì il visore del casco di Birkett mentre l’aria entrava adesso con un rombo dalle valvole del Compartimento n. La tuta di Birkett si gonfiò in pochi attimi, e poco dopo lui cominciò a muovere braccia e gambe. Aprì gli occhi e guardò Jerome con lo sguardo limpido e innocente di un bambino.
«Sammy» balbettò Jerome. «Stai bene?»
«Credevo che il dottor Bob fosse mio amico» bisbigliò Birkett. «Non doveva ingannarmi… non avrebbe dovuto farmi questo… non doveva…»
«Invece sono convinto che ti era amico» disse Jerome, più preoccupato di rassicurarlo che non di difendere Pitman. «Sono sicuro che ti voleva aiutare.»
«Ma io sono un giardiniere. Signor Jerome, siete davvero sicuro che siamo da qualche parte su in cielo? Su Marte o un posto del genere?»
«Temo proprio che ci troviamo su Mercurio» rispose Jerome, e intuendo quanto fosse confuso quel poveretto, provò una gran compassione. Aveva tanto sofferto per quanto gli era successo, ma almeno lui aveva avuto la consolazione di essere in grado di capire, di sapere esattamente dove si trovava. Non gli era mai passato per la mente che Sammy Birkett, con la sua intelligenza limitata, si trovava pressappoco nelle condizioni di un contadino del Medioevo, che avrebbe considerato il trasferimento su Mercurio alla stregua di un lungo viaggio all’inferno.
«Odio questo posto» dichiarò Birkett fissando il soffitto.
«Anch’io, Sammy. Ma sono sicuro che un giorno torneremo a Whiteford» disse per fargli coraggio.
«Davvero, signor Jerome?»
Jerome annuì con vigore. «Perché non decidiamo fin d’ora di trovarci una volta alla settimana da Cordner a bere qualcosa insieme?»
«Oh, sarebbe magnifico!» Birkett si levò faticosamente a sedere, e un rivoletto di sangue gli colò dal naso. «Noi due seduti al banco da Cordner a parlare dei vecchi tempi.»
«Allora siamo d’accordo. Ma adesso cerca di riposare finché…» S’interruppe alzandosi di scatto in piedi perché il portello 17 si era aperto. Glevdane, riconoscibile dal casco blu di supervisore fu il primo a varcarlo, seguito dagli altri componenti della squadra. Guardò Birkett, poi la scheggia di roccia e infine Jerome.
«Si è trattato di un incidente molto grave» disse duramente. «Spero che abbiate una giustificazione valida.»
«Ho avuto tutto il tempo per escogitarne una» ribatté brusco Jerome. «Ma dove diavolo eravate?»
«Siamo tornati il più presto possibile.»
«La porta del 16 si era incastrata» spiegò uno dei Terrestri del gruppo, Urban Pedersen. «Abbiamo faticato per aprirla, e il rifornimento d’aria di tutte le sezioni è controllato da quella attigua. Se volete sapere la mia opinione, tutto il sistema è…»
«Nessuno ve l’ha chiesta, Pedersen» lo interruppe Glevdane, e tornando a Jerome. «Avanti, qual è la scusa del celebre ingegnere per aver quasi fatto morire questo povero scemo?»
«A chi dài dello scemo?» Birkett si alzò, e sarebbe caduto se due operai non l’avessero sorretto.
«Sammy non è uno scemo» rispose Jerome senza alterarsi. «Il suo unico errore è stato di fidarsi troppo delle vostre tute.»
«Le hanno progettate i Guardiani!»
«Questo dimostra…» Jerome non finì la frase perché intuiva che era pericoloso esprimere critiche nei confronti dei custodi del Thrabben. Cambiando argomento, disse: «Non sarebbe meglio portare Sammy da un medico?»
«Ne abbiamo già chiamato uno» rispose Glevdane. «Naturalmente è un dorriniano, ma voi sarete tanto gentile da dirgli cosa deve fare.» Detto questo si allontanò, esternando la sua ira pestando con forza i piedi sul terreno.
«Avevo notato la stessa cosa sulla Terra» disse Jerome agli altri terrestri quando Glevdane fu fuori portata. «Più si cerca di aiutare qualcuno, meno gratitudine si ottiene.»