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Appena arrivato a casa si lavò la faccia con acqua fredda e si sciacquò la bocca per eliminare il sapore amaro della bile.

Mancava ancora mezz’ora a mezzogiorno, e tanto la casa che l’arredo avevano un che di estraneo. Dapprima Jerome incolpò l’insonnia per questa sensazione, o il fatto di trovarsi in casa in un’ora insolita, ma poi capì che era dovuta alla sua nuova, forzata concezione dell’universo. Il giorno prima si era dovuto convincere che la combustione umana spontanea era una realtà, ma si trattava di una conoscenza teorica, di un dato di fatto che era rimasto isolato nella mente. Adesso ne era rimasto direttamente coinvolto per esperienza personale, e doveva risolvere il problema di adattarsi a un mondo in cui potevano verificarsi simile fenomeni.

C’era inoltre da tenere in considerazione un significativo mutamento nel fenomeno stesso. Fino a quel giorno non si erano scoperti legami o fattori comuni fra un caso e l’altro, pareva che solo il caso ne fosse responsabile. Solo in un’occasione era sembrato che potesse esserci un indizio, e questo si era verificato nel lontano 1938. Il 7 aprile di quell’anno tre uomini — uno nei pressi di Nimega, in Olanda, uno vicino a Chester, in Inghilterra, e un terzo a bordo di un piroscafo nel Mar d’Irlanda — erano diventati esempi classici di morte per CUS nello stesso momento. Ma la simultaneità delle loro morti non aveva fatto altro che aggiungere mistero a mistero. Non erano stati scoperti plausibili legami fino alla scomparsa di Art Starzynsky e Sammy Birkett, e adesso il pendolo oscillava dalla parte opposta.

Jerome scartò senza esitare il fattore coincidenza, e questo significava che il dottor Pitman doveva senza dubbio costituire il nesso fra i due casi. La morte per autocombustione aveva conservato il suo segreto per secoli, ma adesso, improvvisamente, il fenomeno stesso lo aveva rivelato a un investigatore dilettante. Jerome corrugò la fronte, si tolse gli occhiali e cominciò a lustrare le lenti mentre prendeva in esame le implicazioni. Sparito l’egotismo, divorato dal fuoco che aveva ridotto in cenere Birkett, doveva convincersi di non essere più dotato di tutti quelli che avevano elaborato le più disparate teorie nel tentativo di spiegare il fenomeno, eppure — a meno che la sua ipotesi nei riguardi di Pitman fosse sbagliata — in un solo giorno aveva chiarito il mistero. O era straordinariamente fortunato o i parametri del problema stavano cambiando.

Cosa sto cercando di dire? si chiese irritato. Perché cerco di aggiungere altri nodi alla corda?

Si rimise gli occhiali e posò lo sguardo sulla modesta collezione di liquori sulla credenza del soggiorno. Dopo la morte di Carla non li aveva quasi più toccati, ma il gusto pulito del gin forse lo avrebbe aiutato a ridare un senso di equilibrio al mondo. Doveva tener presente che lasciandosi prendere dal panico si era rivelato un cronista inetto. Un giornalista coraggioso e con l’istinto del mestiere avrebbe colto l’opportunità di farsi un nome… e quanto a questo lui ne aveva ancora il tempo. Era probabile che i resti di Birkett non venissero scoperti tanto presto, in quel capanno in fondo al giardino. Non doveva far altro che tornare laggiù, telefonare alla polizia, e mettersi a scrivere articoli tanto sensazionali quanto redditizi dopo essersi messo in contatto con le principali agenzie.

Versò gin e soda in un bicchiere, e sorseggiando la bibita cercò di immaginarsi mentre affrontava il dottor Pitman, si faceva avanti a gomitate nella baraonda che ne sarebbe seguita, e il suo umore peggiorò perché sapeva che non sarebbe mai stato capace di tanto. Poteva però telefonare ad Anne Kruger scaricando tutto sulle sue spalle, ma anche questo non gli era possibile. Si sentiva bloccato da una sciocca timidezza. Se gli avessero chiesto di scegliere, sarebbe corso a nascondersi, probabilmente nella sicura intimità del suo chalet sul Lago Parson.

Chiedendosi se quel modo di pensare non fosse la reazione allo shock, Jerome fece uno sforzo consapevole per cercare di rilassarsi mentre finiva di bere. Il cuore alternava palpitazioni ad attimi di sosta. Non voleva credere che il senso di costrizione al petto che aveva spesso provato di recente quando si affaticava fosse preoccupante, ma gli pareva consigliabile calmarsi il più possibile e pensare ponderatamente alla prossima mossa. Il problema risiedeva proprio nel problema stesso, in quanto era cambiato, fino a diventare quasi irriconoscibile. Il grande enigma della CUS rimaneva, ma i suoi contorni si alteravano sotto la spinta di una più urgente domanda: se puntare sul dottor Pitman o un suo simile in altri posti era così facile, perché nessuno l’aveva fatto prima? E da questa domanda ne scaturiva direttamente un’altra; nel suo intimo, lui, attribuiva al dottor Pitman uno scopo sinistro? La più ovvia interpretazione dell’accaduto era che una medicina prescritta in tutta innocenza, o una rara combinazione di elementi chimici, fosse stata la causa di quelle assurde tragedie… ma il suo subconscio la pensava diversamente…

Il trillo del telefono lo fece sussultare. Guardò l’apparecchio per qualche secondo certo che fosse Anne Kruger o un suo incaricato, poi si alzò e sollevò il ricevitore. Anne non perdette tempo in preamboli.

«Ditemi una cosa» disse. «Oggi è giovedì?»

Come sempre, Jerome si sentì pungolare dal suo sarcasmo. «Vediamo un po’… Ieri era mercoledì, quindi a meno che il calendario non abbia subito una drastica revisione possiamo dire con sicurezza che…»

«Non fate lo spiritoso.»

Sei tu che hai cominciato, pensò lui. «Cosa posso fare per voi, Anne?»

«Avete pensato a scrivere l’articolo?»

«È proprio quello che sto facendo. Mi concentro meglio a casa.»

«Davvero? E quale titolone rosso da prima pagina occupa i vostri pensieri in questo momento?»

Solo il resoconto della mia diretta testimonianza in un secondo caso di CUS! Avanti, dillo! Dille come le due morti per autocombustione hanno un nesso in comune: il dottor Pitman. Fa’ che la sua stima nei tuoi riguardi salga alle stelle. Fatti un nome nel giornalismo!

«Ah… be’… mi riesce difficile…» balbettò Jerome stupito per quel suo modo di fare che non gli era solito. «Sto ancora riordinando gli appunti sul caso Starzinsky.»

«Ancora! Avete fatto niente a proposito delle nuove foto?»

«Non ancora. Vedete…»

«Lasciatele perdere» lo interruppe con voce tagliente Anne. «Ci penserà Cordwell. Voi, caro mio, dovete riempire tutta una pagina di giornale, e avete due ore per farlo. Vi consiglio di cominciare subito a scrivere perché aspetto di leggere l’articolo appena arriverà. E se non arriva entro due ore, non c’è bisogno che veniate più al giornale. Capito?» e chiuse la comunicazione.

Jerome fu scosso da una risata nervosa mentre deponeva a sua volta il ricevitore. Sulle prime rimase indignato per il modo con cui lo aveva trattato Anne, ma dopo averci riflettuto sopra per un momento capì che se l’era meritato. Aveva ottenuto il posto all’Examiner grazie al fatto di aver diretto nel tempo libero la rivista scientifica di un’azienda tecnica, e gli piaceva pensare che dava un valido e originale apporto al lavoro, ma i fatti stavano a dimostrare quanto poco fondate fossero le sue opinioni.

Perché mai non aveva parlato ad Anne della morte di Sammy Birkett? E inoltre, che cosa gli impediva di richiamarla e metterla al corrente di tutto?

Guardò il telefono e provò qualcosa di simile al panico rendendosi conto che non solo non era capace di sollevare il ricevitore ma che non se la sentiva di stargli vicino per il resto di quel giorno. Il telefono era una porta aperta attraverso la quale chiunque poteva entrare in casa sua, mentre lui aveva bisogno di un periodo di tranquillità indisturbata per rimettersi in sesto. L’immagine dello chalet sul lago gli balenò per un istante davanti agli occhi. Era invitante.

Sopprimendo un lieve senso di vergognarsi permise di prendere in considerazione l’idea di scappare in campagna per qualche giorno. Sarebbe stato un gesto puerile e sconsiderato, che forse gli avrebbe fatto perdere l’impiego, ma il lago gli avrebbe garantito quella tranquillità di cui aveva un disperato bisogno. Nessuno in ufficio sapeva dell’esistenza dello chalet così non sarebbe stato disturbato, niente avrebbe interrotto i suoi tentativi di ricostruire un modello razionale dell’universo dentro la sua testa. L’immagine dello chalet gli si ripresentò ancora una volta così chiara che quasi sentiva l’aroma della pineta retrostante, e prima ancora di ammettere che aveva deciso, era già andato in camera da letto a fare i bagagli.

Ci impiegò pochi minuti, durante i quali fu perseguitato dal pensiero di Anne Kruger. Gli pareva di vederla ritta davanti al terminale di un computer nell’ufficio del giornale, sempre più impaziente nell’attesa di veder comparire sullo schermo i primi paragrafi del suo articolo. Ma in quel momento la cosa che più di tutte gli stava a cuore era di scappare di casa prima che suonasse ancora il telefono. Afferrò la sacca pronta, andò alla porta d’ingresso fermandosi solo per attivare l’allarme antifurto, e uscì nel meriggio assolato. Il viale, coi suoi lucidi prati e i tetti di assicelle color vino, forniva un’immagine di tranquilla normalità… salvo il fatto che — pensò Jerome — uno qualsiasi dei suoi abitanti avrebbe potuto prendere spontaneamente fuoco da un momento all’altro. Chiunque avesse fatto un’esperienza come la sua aveva diritto a tutto il riposo che gli sembrava necessario. Salì in macchina, posando la sacca sul sedile accanto, e si diresse verso l’autostrada che portava a ovest.

Un quarto d’ora dopo aver lasciato la città si accorse che il serbatoio era pieno solo per un quarto, e quando l’ago sul quadrante indicava quella misura lui si fermava sempre a far benzina. Il senso di urgenza non si era attenuato, ma la vecchia abitudine ebbe la meglio. Si fermò a un distributore automatico presso cui si era servito parecchie altre volte e che era frequentato per lo più dagli agricoltori delle fattorie circostanti. C’era la solita accozzaglia di auto polverose e furgoncini parcheggiata davanti alla trattoria adiacente, e un meccanico stava lavorando sotto una macchina nell’officina. Qui nessuno era preoccupato al pensiero di prendere improvvisamente fuoco eruttando fiamme dalla bocca.

Jerome scese, infilò una carta di credito nella pompa e cominciò a riempire il serbatoio. Dopo qualche istante provò la sgradevole sensazione che qualcuno lo stesse fissando. Si voltò e vide a una decina di passi un tizio sulla trentina vestito da cacciatore. Quell’abbigliamento contrastava col colorito pallido da cittadino, ma l’uomo era alto e robusto. Lo sconosciuto continuò a fissarlo con un’espressione di blando disprezzo.

Irritato e perplesso, Jerome aprì la bocca per chiedergli perché lo guardasse a quel modo, ma ci ripensò e tacque. Detestava le liti, e l’altro era molto più robusto di lui. Cercando di far finta di nulla, distolse gli occhi, ma non senza prima aver notato che l’altro socchiudeva la bocca in un sorrisetto ironico. Jerome si concentrò sui numeri rossi del quadrante e sospirò di sollievo quando sentì un rumore di passi che si allontanavano in direzione dell’officina. Probabilmente la macchina in riparazione era quella dello sconosciuto, il quale forse era roso dall’impazienza ed era disposto a sfogarsi sul primo venuto.

E se questo era un duello psicologico, io le ho prese pensò Jerome sempre più ansioso di arrivare al lago. Quella località non era mai diventata un’attrazione turistica a causa — e grazie — della spiaggia paludosa, e le poche case in riva al lago erano quasi certamente vuote a metà settimana. Ansioso di rimettersi in viaggio, Jerome finì di riempire il serbatoio, ritirò la carta di credito e salì in macchina. Un’occhiata all’officina gli rivelò che lo sconcertante sconosciuto stava guardando il meccanico che lavorava alla sua auto. Jerome si immise sull’autostrada, con la sensazione di essere sfuggito di stretta misura a una situazione spiacevole, e si accinse a percorrere i restanti sessanta chilometri del tragitto.

Si fermò una sola volta ancora a far la spesa e arrivò al lago nel primo pomeriggio. L’acqua era una distesa azzurra cosparsa di riflessi che parevano diamanti e, come aveva sperato, il silenzio e la tranquillità gli dissero che non c’era nessuno nei paraggi. Si fermò nel piccolo spiazzo accanto a al suo chalet, e scese aspirando l’aria a pieni polmoni.

La sua barca a remi, coperta da un telo impermeabile, era al suo posto sulla riva, in attesa di una mano di vernice. Era un lavoro che l’avrebbe tenuto materialmente occupato mentre rimetteva in ordine i pensieri. La casa, parzialmente nascosta da ciuffi di oleandri, lo accolse con un silenzioso benvenuto e ancora una volta lui fu ben felice di non averla venduta. La lunga malattia di Carla aveva dato quasi fondo ai suoi risparmi, e dopo la sua morte era stato tentato di venderla, ma adesso era più che mai contento di non averlo fatto. Se Anne Kruger lo avesse licenziato, piuttosto avrebbe venduto la casa di Whiteford, per tirare avanti, e si sarebbe ritirato in campagna.

Sentendosi già un po’ rinfrancato e a suo agio, prese il cartone delle provviste dal bagagliaio e lo portò nella veranda schermata. Aprì la porta con la chiave, entrò in anticamera e si avviò verso la cucina situata sul retro. Il soggiorno era a destra. Vi dette un’occhiata attraverso la porta aperta passando, e stava per proseguire quando si fermò di colpo perché aveva notato qualcosa che non andava: mancava uno dei fucili che teneva appesi sopra al camino.

Senza deporre le provviste, arretrò ed entrò nel soggiorno. I sostegni erano al loro posto, quindi il fucile non era caduto finendo nascosto dietro una sedia. L’unica altra spiegazione che gli venne in mente fu che era entrato un ladro… ma perché non aveva preso anche l’altro fucile?

«No, non siete stato derubato» disse una voce maschile dall’angolo più scuro della stanza.

Lo scatolone scivolò dalle mani di Jerome, mentre si voltava e vedeva un uomo anziano vestito di scuro, con le guance rubizze e il fucile mancante in mano. Jerome ebbe l’impressione che il tempo si fermasse. Vide lo scatolone cadere lentamente per terra spargendo intorno il contenuto che sembrava privo di peso. Una sola occhiata gli era stata sufficiente per fotografare l’intruso: folti capelli argentei, catena d’oro attraverso il panciotto, grandi mani quadrate. Sentì il tonfo del cartone sul pavimento e poi il martellìo del cuore. Gli faceva male. Aveva un rombo nelle orecchie e l’impressione che il cuore stesse per fermarsi.

«Non fate lo stupido» ordinò il vecchio fissandolo con occhi penetranti come laser. «Calma, ho detto! Respirate regolarmente.»

Jerome risucchiò l’aria, e si stupì nel constatare che fluiva dentro di lui una sensazione di pace come se gli avessero iniettato una dose di potente tranquillante. Arretrò. Aveva superato lo shock, ma in un certo senso era più spaventato di prima.

«Siete Pitman» disse, avendolo riconosciuto dalle fotografie appese nello studio del dottore. «Come avete fatto a venire qui?»

Pitman gli rivolse un sorriso paterno. «È facile, quando si sa come. Ma piuttosto, giovanotto, da quanto tempo non vi sottoponete a un check-up?»

«Cinque o sei anni. Non ricordo bene. È una cosa che non mi va…»

«Perché?»

«Perché cercano di scoprire solo cose brutte. Preferisco non…»

Jerome s’interruppe di colpo, conscio dell’assurdità della situazione. «Ma cosa succede? Cosa diavolo è questo? Cosa state facendo in casa mia?»

«Contraccambio la visita, Ray. Voi siete stato a casa mia, stamattina» continuò Pitman mostrando i denti in un sorriso giovanile che smentiva i suoi settanta e passa anni. «Credevo che voleste parlare con me.»

«Infatti, ma…» Jerome resistette all’impulso di arretrare. «Qui c’è qualcosa che non quadra.»

«Così va bene, Ray. Siete intelligente e il vostro cervello ha ricominciato a funzionare, il che faciliterà le cose a tutti e due. Poco fa ero preoccupato per voi.»

«Non so cosa farmene della vostra preoccupazione.»

«Lo so. A voi interessa scoprire come sono venuto a sapere della vostra visita quando l’unica persona che avete incontrato a casa mia è morta.»

Jerome annuì. «Questo è un ottimo punto di partenza. Come l’avete saputo?»

«Semplice, Ray.» Pitman s’interruppe come se volesse fare una pausa a effetto, assaporando palesemente il momento. «Sono telepatico. Posso capire quello che la gente pensa.»

Per poco Jerome non si lasciò sfuggire un gemito di sollievo. Tutte le idee che collegavano Pitman agli orrori della morte per autocombustione vennero cancellati dalla constatazione che si era sbagliato in pieno nel giudicare il dottore. Le strane circostanze del loro incontro, lo sguardo penetrante, i modi enfatici, avevano collaborato per infondere in lui la sensazione che il dottore era una specie di superman dotato di pericolose facoltà. Adesso invece si era rivelato per quel che era: un ciarlatano, uno che un uomo razionale poteva dominare e manipolare a suo piacimento. Certo bisognava agire con tatto e prudenza, per via del fucile ma, anche tenendo conto di questo, la situazione non era così brutta come gli era sembrato sulle prime. Pitman teneva fra le mani il fucile, ma non lo puntava contro di lui, e probabilmente non aveva neanche trovato le cartucce.

«Le ho trovate» disse Pitman con gentilezza. «La credenza è il primo posto dove ho pensato di guardare.»

Jerome decise di attenersi alla linea d’azione che giudicava più adatta al caso. «Bravo» disse. «Però io non stavo neanche guardando il fucile.»

«Sono contento che abbiate ricominciato a ragionare in modo logico» commentò il dottor Pitman. «Ma dovete rendervi conto, ragazzo mio, che il mio problema è sempre stato esattamente l’opposto di quello dei ciarlatani che fingono di leggere nel pensiero. Mentre quelli si danno un gran da fare per persuadere la gente che ne sono capaci, io devo nasconderlo. Mi sono chiesto molte volte quanto ci avrei impiegato a convincere uno scettico che sono veramente un telepatico, se mai se ne fosse presentata l’occasione.»

Jerome sbuffò: «Non credo che nessuno di noi due abbia tanto tempo da sprecare per questo.»

«Avete una lingua acida, vero, Ray?» Pitman gli scoccò un’occhiata di paterno rimprovero.

«No, vedrete che basterà un minuto. Per fortuna più uno è scettico più gli è difficile negare una prova lampante. Non è vero?»

«Se lo dite voi…» Jerome non aveva mai avuto a che fare con un pazzo ma intuiva per istinto che doveva stare al gioco, non perdere le staffe e aspettare il momento buono.

«Ray, avete davanti a voi un esemplare in carne ed ossa per cui Rhine avrebbe dato il braccio destro. Bene, è molto semplice. Pensate ad alcuni oggetti e io vi dirò quali sono. D’accordo?»

«D’accordo» rispose Jerome, fingendosi persuaso. Dagli corda, pensava. Ma quanto ci sarebbe voluto prima che il dottore sospettasse della sua buona fede?

Pitman disse con tono impaziente: «Avanti, cominciate. Pensate a qualcosa.»

«Subito.» Jerome finse di concentrarsi. Finora tutto filava liscio, ma i pazzi sono furbi e imprevedibili, e forse Pitman stava tendendogli un trabocchetto. Chissà, se gli avesse detto che aveva indovinato, magari sarebbe montato su tutte le furie.

«Non ricevo niente» protestò Pitman. «Dovete concentrarvi su un oggetto materiale.»

«Scusate… non ci sono abituato.» Con lo stato d’animo di chi consente con riluttanza a partecipare a un gioco da bambini, Jerome visualizzò un trattore.

«Un trattore» disse Pitman. Jerome rimase per un attimo sorpreso, ma poi ricordò che lungo il tragitto fino al lago aveva visto parecchi trattori nei campi, e anche Pitman doveva averli visti. La prova non era convincente. Ci pensò sopra un momento, poi pensò a un taxi di New York.

«Un’automobile gialla» disse Pitman.

Anche questo si poteva spiegare, sia il trattore che il taxi erano mezzi di trasporto. Ci pensò sopra a lungo e infine evocò l’immagine della Gioconda.

«Monna Lisa» disse Pitman.

Il quadro più famoso del mondo, conosciuto da tutti. Avrebbe dovuto sceglierne uno anonimo… come lo sbiadito acquerello rappresentante una goletta appeso nel salotto di sua zia Mary, ad Albany.

«Un dipinto di una nave a vela» disse Pitman.

Anche la nave era un mezzo di trasporto. Meglio il piano.

«Un pianoforte» disse Pitman.

Perplesso e turbato, Jerome lo guardò a lungo, e poi disse: «Se non vi spiace vorrei mettermi a sedere.»

«Farete bene» rispose Pitman, che non sorrideva più. «È stata una giornata campale, per voi, e purtroppo non è ancora finita.»

Jerome si lasciò cadere su una sedia vicino alla porta. Si sentiva stranamente calmo, considerando che il suo universo aveva subito un altro violento scossone, ma gli tremavano le gambe. Meno male che riusciva ancora a parlare senza che gli tremasse la voce.

«Un’altra cosa che vorrei sapere» disse «è come mai sapevate che sarei venuto qui. Ma credo di sapere già la risposta.»

Pitman prese un’altra sedia e la sollevò portandola davanti a quella di Jerome, con la scioltezza di movimenti di un giovanotto. «Voi sapete solo parte della risposta» disse mettendosi a sedere. «Prima di tutto dovete sapere che sono stato io a farvi venire l’idea di venire qui, e vi farà forse piacere sentire che sono stato io a impedirvi di raccontare la storia di Sammy Birkett. Non potevo esercitare un controllo diretto, non sono tanto potente, ma sono riuscito a influire sulle vostre decisioni. Per consolarvi v’assicuro che non siete così inetto sul lavoro come temete.»

«Ma questo è…»

«Non è impossibile, Ray… solo difficile. E molto stancante. La telepatia diretta mi logora, per cui sono contento di non dovervi ricorrere spesso.»

«Non riesco a capacitarmi» balbettò desolato Jerome. «Fino a ieri non credevo nella combustione umana spontanea, e fino a un minuto fa non credevo nella telepatia, e adesso … adesso voi siete qui, col mio fucile… A cosa vi serve il fucile, per l’amore di Dio?»

«Mi serve perché forse vi dovrò uccidere» rispose Pitman. «Non voglio uccidervi, e mi dispiace molto dovervi parlare così, ma è in gioco una posta troppo importante, e se vi rifiuterete di collaborare dovrò eliminarvi. È chiaro?»

«Altroché, se è chiaro» Jerome rimase stupito nel provare risentimento più che paura. «Va bene se mi comporto come vuole il copione?»

«Ray, passerò sopra a questo, ma vi prego di smetterla di comportarvi come se stessimo recitando la scena di una commedia. Ho delle catene in macchina, e fra un momento prenderemo la vostra barca e andremo in mezzo al lago. Non c’è nessuno nei paraggi che possa sentire lo sparo, nessuno che possa vedere il vostro cadavere cadere in acqua… Dovete prendere la cosa sul serio.»

«Non rido» asserì Jerome. «Sentite, è ovvio che sono disposto a collaborare. Vi prometto che farò quello che vorrete.»

«Che altro potevate dire?» Pitman si alzò, e cambiò presa al fucile stringendo la mano sulla protezione del grilletto. «Avete ripreso colore. Credo che siate in grado di remare un po’ senza affaticarvi. Andiamo.»

Jerome scattò in piedi. Adesso era spaventato davvero. Spaventato da morire. «Non è necessario. Ho promesso…»

Pitman scosse la testa. «Fuori, alla barca, Ray. Muovetevi!»

Jerome si portò a passo lento in anticamera. La porta d’ingresso era ancora aperta e la scena che si vedeva attraverso l’inquadratura pareva ideale per un opuscolo turistico: una composizione acrilica di acqua, alberi e colline azzurre nello sfondo, senza niente che indicasse come il mondo fosse andato a catafascio. Jerome non si era mai trovato sotto il tiro di un’arma da fuoco e ora era morbosamente conscio della presenza del fucile fino nei minimi particolari. Mentre usciva sulla veranda si chiese se l’arma fosse o no pronta per sparare. Se il dottore non aveva tolto la sicura, forse poteva riuscire a strapparglielo di mano.

«Non vi ci provate» lo ammonì Pitman. «Non mi sono mai piaciute le armi, ma so come adoperarle.»

«È facile sapere quello che uno pensa?»

«Sì, quando lo fa per immagini… come state facendo voi adesso.»

«Capisco.» Jerome scese dalla veranda e si avviò verso la barca. Rievocò mentalmente l’immagine di un’arancia e la trattenne, cercando di materializzarla, mentre su un altro livello mentale pensava ai remi sotto il telo che copriva la barca. Un colpo di remo avrebbe provocato (pensa a ogni poro nella buccia dell’arancia) lo stesso effetto di una mazzata se fosse riuscito a impugnarlo saldamente (guarda il sugo che sgorga mentre infili un’unghia nella polpa) prima che Pitman si rendesse conto dell’accaduto.

«Così non funziona» disse Pitman. «L’arancia era troppo irrilevante, si capiva che fungeva da schermo. Appena l’ho vista ho sondato più a fondo. E comunque i remi sono troppo pesanti.»

«Grazie del consiglio» disse Jerome, meravigliandosi una volta ancora della propria facilità di adattamento. Era terrorizzato al pensiero di una scarica di pallini che lo sforacchiavano, e tuttavia nel cervello continuavano a turbinargli domande sul dottore e sulle sue incredibili facoltà. Pitman era l’unico al mondo nel suo genere, o faceva parte d’un gruppo di persone dotate dello stesso talento? Perché lo teneva segreto? Aveva paura della reazione della gente? E, soprattutto, che rapporto c’era fra telepatia e combustione umana spontanea? Doveva esserci un rapporto, sarebbe stata una coincidenza incredibile che l’uomo il quale costituiva l’unico collegamento fra due casi di CUS fosse per di più un telepate… Jerome si rifiutava di crederci. Se non fosse stato per la paura di morire fucilato, il desiderio di ottenere la risposta a quelle domande avrebbe preso il sopravvento.

Tolse il pesante telo di plastica che copriva la barca, e quando sollevò i remi disturbò un ragno che vi stava nascosto sotto. Lo alzò con la pala di un remo e lo posò a terra, e quando si voltò vide che Pitman stava sollevando delle catene che aveva nascosto in mezzo ai falaschi.

«Tutto qui quel che avete portato?» chiese sperando di mandar a monte il piano del dottore. «Catene da neve?»

Pitman le gettò nella barca. «Sono sufficienti. Un corpo ben ancorato non galleggia.»

«Oh!» Jerome si pentì di aver sollevato l’argomento. «Allora fingevate dicendo che dovevo collaborare con voi? Come faccio a sapere che non premerete comunque il grilletto?»

«Vi ho dato la mia parola.»

«Che valore ha? E, a proposito, che valore può avere la mia promessa?» Jerome sapeva di rischiare grosso, ma voleva mettere le cose in chiaro. «Potrei promettervi tutto quel che volete pur di salvare la pelle, e poi rivolgermi alla polizia.»

«Sapete che non è possibile ingannarmi» gli rammentò Pitman. «Non dimenticate che io so quello che pensate.»

«Continuo a non capire perché dobbiamo andare sul lago» insisté Jerome. «Vi dico fin d’ora che farò tutto quel che vorrete. Mi pare chiaro, no?»

«No.» Pitman sorrideva ma il suo sguardo era insondabile. «La maggior parte della gente considererebbe quello che sto per chiedervi un … be’, diciamo un tradimento dell’umanità. Forse anche voi sarete dello stesso parere e non vi sentirete di farlo. Oh, direte di sì, ma nell’intimo saprete che non vi sarà possibile. Forse arriverete al punto da ingannare voi stesso, ma non me. E se sarà così, vi ucciderò.»

«Gesù!» esclamò sospirando Jerome. «E tutto questo perché ho visto come è morto Sammy Birkett?»

«Temo di sì.»

«Potrei almeno sapere perché qualcuno piglia spontaneamente fuoco?»

«Spingete la barca in acqua, Ray, e poi tenetela ferma mentre io salgo a bordo.»

La barca si era incuneata nel terriccio molle e Jerome faticò non poco tentando di disincagliarla, finché Pitman non la spinse con un piede da poppa dimostrando una forza sorprendente. La barca scivolò in acqua, e il dottore vi salì tenendo il fucile puntato contro lo stomaco di Jerome, e poi si sistemò sul sedile di poppa. Nonostante la corporatura massiccia si muoveva con agilità. Jerome, impacciato nei movimenti dal ginocchio artritico, dovette constatare che, anche senza il fucile, il dottore avrebbe avuto la meglio se fossero venuti alle mani. Rabbrividendo al contatto dell’acqua gelida che gli lambiva le caviglie, salì a sua volta a bordo e con un colpo di remo scostò la barca dalla riva. Ansimava e provava un senso di costrizione al petto.

«Remate fino in mezzo al lago, ma senza fretta, per non affaticarvi» disse Pitman. «Non voglio che vi succeda qualcosa.»

Jerome tentò di sogghignare: «A meno che non lo facciate voi.»

«Capisco quello che provate, ma parlando da medico vi consiglio… A proposito, quanti anni avete?»

«Cinquanta. E voi?»

Sul viso di Pitman si dipinse un’espressione enigmatica. «Il corpo che vedete ha settantasei anni. Io ne ho quasi trenta di più.»

Jerome rimase interdetto. «Spiegatevi meglio.»

«Scusate» dichiarò Pitman che sembrava sinceramente dispiaciuto. «È difficile. Cosa direste se vi raccontassi che non sono nato sulla Terra?»

«Direi che eravate un astronauta.»

«Non è il termine preciso… io sono nato su un altro pianeta.»

«Uno che conosco?»

«Noi lo chiamiamo Dorrin. Voi Mercurio.»

«Capisco.» Jerome era molto sollevato. Aveva commesso l’errore di sottovalutare Pitman riguardo alla telepatia e da quel momento si era sempre trovato psicologicamente in svantaggio, ma adesso cominciava a intravedere un barlume di speranza. Il dottore teneva ancora il coltello dalla parte del manico, ma se era così pazzo da esser convinto di essere un extraterrestre forse c’era il modo di sfruttare a proprio vantaggio quella debolezza mentale. Jerome pensò per un istante alla superficie arida e riarsa dal sole di Mercurio, che aveva visto più volte in fotografia, poi, con uno sforzo lo immaginò come poteva vederlo un astronomo dalla Terra: un punto luminoso appena distinguibile nel bagliore del tramonto.

«Non so molto di Mercurio» disse, fingendo di aver creduto alle parole di Pitman. «È un bel posto?»

«È un inferno, come ben sapete» rispose Pitman. «Vi ripeto ancora una volta che è inutile tentare di ingannarmi.»

«D’accordo. Solo, non riesco a vedere come si sia potuta evolvere la vita in un posto simile.»

«Non si tratta di evoluzione» corresse Pitman. «Sia la Terra sia Mercurio furono colonizzati da astronauti umani provenienti da un altro sistema solare. Questo avvenne talmente tanto tempo fa che non sappiamo da dove provenissero i nostri antenati, né perché scelsero per primo Mercurio. Non era la scelta migliore per installarvi una colonia, anche se la sua rotazione sincrona significava che c’era una zona crepuscolare abitabile.»

Ci siamo! pensò Jerome trionfante. La tua conoscenza di quello che asserisci essere il tuo pianeta natale è superata da almeno quarant’anni. Per un attimo fu tentato di tacere, di incoraggiare Pitman a fare altri errori marchiani, ma poi ci ripensò. Pitman si sarebbe accorto che mentiva.

«Mi spiace farvi notare una cosa, ma…»

«Ma Mercurio ruota in senso solare, e questa non è una cosa da niente, ragazzo mio. È una tragedia. Quando Mercurio fu colonizzato si trovava in rotazione catturata, mantenendo un emisfero al riparo dal sole, e i Dorriniani ci potevano vivere senza difficoltà. Naturalmente le nostre città erano sotterranee, e dovevamo fabbricarci l’atmosfera per poter respirare, ma si riusciva a tirare avanti … fino ai Giorni della Cometa.»

«Ah!» commentò Jerome. «H. G. Wells!»

Pitman espresse la sua disapprovazione con un sospiro. «La vostra lingua deve avervi fatto perdere molti amici.»

«I miei amici non mi hanno mai puntato contro il fucile.»

«Ve lo concedo, ma vi consiglio nel vostro interesse di prendere sul serio quello che dico.»

«Continuate.» Jerome remava lentamente, e quell’attività che aveva esercitato tanto spesso accentuava la bizzarria della situazione. Il sole vivido illuminava il centro del lago e la sagoma di Pitman si stagliava nitida sullo sfondo dell’acqua mossa dalla brezza, degli alberi, delle lontane colline e del cielo.

Con quella corporatura massiccia, i capelli argentei, l’abito un po’ antiquato, sarebbe stato al suo posto dietro una scrivania a impartire consigli paterni, invece che in una barca a remi con un fucile sulle ginocchia a profferire minacce di morte e a raccontar fantastiche storie.

«Più di tremila anni terrestri fa, nel quindicesimo secolo avanti Cristo per essere precisi, un’enorme cometa capitò per sbaglio nel sistema solare» proseguì Pitman fissando intensamente Jerome come per intimargli di non interromperlo. «Fu attirata dentro al Sole, sfiorando Mercurio durante il percorso e impartendogli la rotazione ora nota agli astronomi terrestri, per cui ora ha una rivoluzione che dura cinquantotto dei vostri giorni. Fu una catastrofe per i Dorriniani, perché la zona che prima era temperata si trovò a essere direttamente colpita dai raggi del Sole. La maggior parte di loro morì prima che avessero il tempo di scendere abbastanza profondamente sottoterra e trovarvi riparo. Ma anche i superstiti ebbero una gran difficoltà a sopravvivere perché il calore del Sole penetrò sempre più a fondo nella crosta del pianeta ad ogni rotazione. Circa il novanta per cento dei Dorriani perirono nei Giorni della Cometa.»

Jerome si limitò ad annuire, non fidandosi di fare alcun commento. Gli ci era voluto un momento per capire perché l’aveva colpito l’allusione al 15° secolo avanti Cristo, ma poi la sua memoria si era data da fare. Immanuel Velikovsky, forse il più pazzo degli pseudo-scienziati, aveva fatto risalire a quella data la venuta di una gigantesca cometa che secondo la sua teoria aveva sfiorato la Terra provocando numerosi “miracoli” biblici. Velikovsky asseriva che poi la cometa era scesa su Venere, e quindi si era spostata verso il Sole provocando lungo il percorso la distruzione della civiltà sul pianeta Mercurio. La storia di Pitman aveva tutti gli attributi classici di quelle favole, che contenevano qualche dato scientifico per avvalorare quelli di fantasia. A quanto pareva, la telepatia non escludeva l’eccentricità … ma rimaneva sempre l’enigma dei rapporti fra il dottore e la morte per autocombustione.

«Non mi ascoltate, Ray» lo rimproverò Pitman. «Dovete tener conto del fatto che la scienza dorriniana si è evoluta in modo diverso da quella terrestre. La mancanza di risorse materiali ci ha costretti a concentrarci sulle nostre capacità mentali. Dal punto di vista pratico della tecnica eravamo impotenti, ma compensammo quella deficienza col progresso delle interazioni tra mente e mente e tra mente e materia. Ve ne ho già dato la prova.»

«Ammetto che sono rimasto colpito quando avete indovinato cosa pensavo» disse Jerome, deciso a rischiare di dimostrarsi scettico pur di far sì che il dottore continuasse a parlare, «ma mi è appena venuta in mente una spiegazione non parapsicologica.»

«Esponetela … non riesco a leggere nella vostra mente. C’è troppa confusione.»

«Sentite» cominciò Jerome con un sorriso sforzato «ammetto sinceramente che avete eccellenti facoltà ipnotiche … l’avete dimostrato ordinandomi di riavermi dallo shock quando vi ho sorpreso in casa mia col fucile.»

«Continuate.»

«Be’, ho anche visto fare una quantità di cose sorprendenti dovute a comandi post ipnotici. È quindi probabile che mi abbiate ordinato di dire il nome degli oggetti a cui pensavo, senza che io mi accorgessi di parlare. A questo modo mi avete convinto di essere un telepate.»

«Molto ingegnoso» commentò Pitman. «Come avete imparato a pensare in questo modo?»

«Non è una mia prerogativa. Ha cominciato un certo Guglielmo di Occam, molto tempo fa.»

«L’Occamismo spiega perché avrei dovuto arrivare a tanto per ingannarvi?» chiese Pitman.

«Chi può sapere perché un…?» Jerome s’interruppe, rendendosi conto che stava inoltrandosi su un terreno pericoloso.

«Perché un pazzo agisce in un dato modo?» finì per lui Pitman, infilando l’indice nel grilletto. «Non posso proprio arrabbiarmi con voi, Ray. Il modo di pensare cosiddetto razionalistico ha impedito al mio popolo di agire impulsivamente quando qualcuno di noi non riusciva a dominarsi. Ma in questo caso… Mi sto chiedendo perché spreco il mio tempo prezioso con voi.»

«Vi assicuro, non volevo ingannarvi» gli confermò Jerome, con la bocca secca. «Mi sono limitato a esporre sinceramente i miei dubbi… e mi è appena venuta in mente un’altra cosa.»

«Avanti!»

«Non potrei più negare le vostre facoltà telepatiche se ne deste una dimostrazione davanti alla mia telecamera.»

«Io ho un’idea migliore» ribatté Pitman fissandolo con quel suo sguardo perforante come un laser. «Mettete alla prova i vostri dubbi alla Occam con questo.»

Jerome fu colpito da una serie di diversi dolori. Un dolore fisico, improvviso e acutissimo, di sovraccarico nervoso, focalizzato nel cervello… Un disumano dolore psicologico permeato dal terrore della sensazione che un’altra personalità si fosse impadronita del suo corpo, scacciandovelo, forse per sempre… E infine un dolore spirituale, la tristezza dell’anima colma di malinconia e di inutili rimpianti, che nascono quando la Natura commette uno dei suoi noncuranti genocidi nei confronti di un essere della propria razza. Vide uomini, donne e bambini dorriniani morire a milioni. Prese parte alla loro lenta, agonica ritirata nelle profondità della crosta planetaria, mentre altri continuavano a perire a ogni infuocato passaggio del Sole…

I superstiti non avevano modo di rifugiarsi sulla Terra, ma Jerome era presente per interposta persona quando il grande progetto fu concepito ed attuato. Furono necessarie generazioni di esseri selezionati prima che venissero alla luce i primi supertelepati, individui capaci di attraversare mentalmente lo spazio grazie alla sola concentrazione e alla volontà di installare la propria essenza in corpi terrestri. Jerome osservò e prese parte all’invasione clandestina della Terra, un’invasione silenziosa che durava ormai da più di tremila anni.

Jerome rimase a lungo, intontito, a fissare l’impugnatura del remo senza rendersi conto di che cosa fosse, finché non sollevò la testa e mise a fuoco l’immagine di Pitman.

«Non è leale» mormorò.

«Siete molto coriaceo, Ray» ribatté Pitman impassibile. «La calma arroganza è la cosa peggiore.»

«Ma anche così…» Jerome aveva le vertigini sentendosi sospeso fra due realtà. «Quanti di voi si trovano attualmente sulla Terra?»

«Non molti. Sono pochissimi i Dorriniani dotati delle facoltà richieste. I volontari del transfer impiegano giorni e giorni a prepararsi, prendendo speciali droghe, costruendo poco a poco il potenziale necessario. Anche per un supertelepate è estremamente difficile localizzare le emanazioni di un bersaglio kald fra i milioni che trasmettono sulla Terra.»

«Kald?» Jerome provava la spiacevole sensazione di aver già conosciuto quella parola ed essersela dimenticata da mille anni.

«Non esiste un equivalente nelle lingue terrestri» spiegò Pitman. «Kald è il termine dorriniano per descrivere l’entità umana, non solo il corpo e la mente, ma il complesso del corpo, del sistema nervoso, del cervello, della mente, dello spirito, del carattere personale e di tutti i campi energetici connessi. La telepatia è in parte un processo fisico, ed è questo, sapete che rende pericoloso il transfer Dorrin-Terra.»

La punta di un iceberg affiorò alla superficie del subconscio di Jerome. «Questo ha per caso qualcosa a che fare con l’autocombustione?»

«Purtroppo sì. Immaginate che il kald sia come una lente flessibile esistente su diversi livelli della realtà. È un paragone molto semplificato, come potete capire, ma quando un Dorriniano tenta di trasferirsi sulla Terra la lente viene adattata a una lunghezza focale uguale alla distanza fra i due mondi. E una lente è un sistema a due direzioni. C’è un ristretto cono d’influenza che va da Dorrin alla Terra, e una controparte opposta che agisce in senso contrario…»

«Il Sole!»

«Esatto.» Pitman parlava con voce pacata, senza enfasi, e le sue parole si dissolvevano subito nell’immobilità del lago. «Il transfer è impossibile quando Mercurio, visto dalla Terra, è vicino al Sole. Riesce meglio nei periodi di afelio, ma anche così non è garantito che tutto vada bene. Il Dorriniano può perdere il controllo per motivi personali, o possono esserci delle perturbazioni o un maligno … be’, lasciamo perdere questo. Ne consegue che per un attimo la lente kald non funziona più. I coni d’influenza si dissolvono in emisferi oscillanti che arrivano al Sole, e il calore solare viene immesso nel corpo prescelto. E i terrestri, quei pochi che se ne interessano, si trovano davanti a un altro inesplicabile caso di combustione umana spontanea.»

«Ma … io …» Jerome scoprì d’un tratto che non aveva niente da dire. In parte a causa dell’effetto della sua escursione telepatica nella coscienza razziale dorriniana, in parte per lo shock dovuto a quello che Pitman aveva detto, si sentiva sopraffatto e incapace di tener testa a quel torrente di nuovi concetti.

«La gente che si è interessata al fenomeno è ricorsa negli ultimi decenni all’uso dei computer» proseguì intanto Pitman, «nel tentativo di trovare un legame fra i casi di CUS. Hanno inserito migliaia di dati nei loro giocattoli, e io sto aspettando che qualcuno si accorga che nessun caso si è mai verificato quando Mercurio era allineato o più vicino al Sole. È un dato che risulta chiaramente per la sua regolarità fin dai primordi, ma nessuno l’ha mai notato. Del resto non … ma cosa state dicendo, ragazzo mio?»

«Adesso ho capito perché avete detto che assecondandovi avrei tradito la mia razza» rispose Jerome continuando stancamente a remare. «A quanto mi avete detto, noi siamo a conoscenza soltanto dei casi in cui il vostro transfer non riesce. Se ne deduce che molti altri hanno buon esito e nessuno lo sa… E … e la parola transfer è un eufemismo, vero? Sarebbe più appropriato dire assassinio.»

Jerome fissava Pitman chiedendosi se non si fosse spinto troppo oltre, e rimase sorpreso nel constatare che ira e risentimento erano più persuasivi della paura. Ormai anche l’ultima traccia di scetticismo era stata bandita dalla sua mente, e adesso capiva quello che aveva inteso il dottore dicendo di avere trent’anni più del suo corpo. Significava che l’involucro corporeo di Robert Pitman, con la sua aria solida e rassicurante e la rispettabilità da Rotary Club, in realtà albergava un membro di una razza aliena.

A quanto pareva, i Dorriniani si sentivano autorizzati a servirsi della loro scienza mentale e dei poteri psichici come armi contro i terrestri, ma se un Art Starzynski o un Sammy Birkett venivano inceneriti dal calore solare in un transfer mal riuscito o la loro identità veniva distrutta, il risultato finale era lo stesso. Si trattava né più né meno di un omicidio. I Dorriniani non potevano essere più giustificati degli invasori che ricorrevano alle bombe o alle baionette… e per questo Jerome li aborriva talmente che non tentava neanche di nasconderlo, sia a Pitman sia a se stesso.

«Non avrei mai creduto di poter dire una cosa simile» dichiarò «ma preferirei che premeste quel grilletto, per farla finita subito. Non occorre che vi dica perché, vero?»

«In questo momento non ragionate» ribatté Pitman spazientito. «I Dorriniani sono persone altamente etiche che rispettano la vita sopra ogni altra cosa. Se così non fosse starei qui a tirare in lungo questa conversazione che comincia a diventare noiosa?»

«Etici!» Jerome guardò volutamente il fucile. «Non venitemi a parlare di etica!»

Pitman consultò l’orologio d’oro e lo ripose nel taschino del gilè. «Non mi piace farlo, Ray, perché so che fa male… ma non mi date facoltà di scelta.»

Jerome vide che gli occhi azzurri del dottore tornavano a trasformarsi in penetranti laser. Ebbe appena il tempo di sussultare allarmato…

Il dolore era un fiore che apriva i petali nel suo cervello. E il fiore portava conoscenza, una conoscenza percepita senza parole, intrecciata ai suoi ricordi. Le rigide regole etiche dorriniane esigevano che il transfer fosse effettuato in esseri umani destinati a morire entro breve tempo a causa di malattie incurabili… Birkett aveva un tumore … l’interazione fondamentale mente-materia è il controllo dei processi biologici del proprio corpo … quando un transfer riesce, il Dorriniano elimina le malattie che ha ereditato … i medici generici sono i più adatti a scegliere i terrestri che fanno al caso, talvolta senza che quelli sappiano di essere gravemente ammalati, com’era nel caso di Arthur Starzynski … per questo i Dorriniani chiave sono sovente medici residenti in piccoli centri abitati… Il pericolo che un transfer fallisca è sempre presente potrebbe provocare ulteriori perdite di vite umane se prendono fuoco gli edifici … questo pericolo viene ovviato introducendo una speciale sostanza chimica elaborata dai Dorriniani negli individui prescelti … il prodotto viene poi assorbito dagli indumenti, che costituiscono una barriera contro il fuoco … convogliando il calore solo verso l’interno si ottiene inoltre la distruzione completa del cadavere eliminando il significativo fattore della malattia comune … Pitman somministrava la sostanza sotto forma di cacciù, se al paziente piacevano i dolci… due transfer falliti in pochi giorni … brutto segno … sinistro … Il Principe Belzor…

Jerome fu bruscamente riportato nel suo mondo. Ansimando cercò con uno sforzo di guardare Pitman, e quando riuscì a metterlo a fuoco, vide che il dottore lo fissava intensamente, proteso verso di lui, ma i suoi occhi avevano perso il potere ipnotico. Per la prima volta da che Jerome l’aveva incontrato, pareva turbato, incerto.

«Qualcuno vi ha seguito, Ray?» chiese.

«Non credo … Come faccio a saperlo?»

«Ripensate al viaggio» lo incitò Pitman. «Avete notato un…?» Si interruppe sussultando, con una smorfia, come se fosse stato colpito da un invisibile qualcosa che lo fece piegare in avanti, e un attimo dopo il rumore di una fucilata echeggiò attraverso il lago suscitando stridi di protesta da parte degli uccelli.

Jerome lasciò andare i remi e afferrò i bordi della barca che stava rollando sotto l’impatto del colpo. Guardò il dottore: sulla schiena della giacca si apriva un foro irregolare da cui sgorgava sangue. Stordito e spaventato, Jerome assommò i fatti e giunse alla conclusione che qualcuno aveva sparato una fucilata a Pitman dalla riva… ma forse sbagliava, perché nel corso di quella giornata gli erano capitate troppe cose inaudite. Scrutò la riva nei pressi del suo chalet, la zona da cui gli sembrava fosse partita la fucilata, ma non vide niente d’insolito. Sempre più confuso scivolò in ginocchio, chiedendosi come poteva soccorrere il dottore, e mentre abbassava la testa sentì più che udire un fruscio nell’aria, come una lieve perturbazione, subito seguita dal rumore di un altro sparo.

Jerome si gettò sul fondo della barca, rendendosi conto con terrore che l’assassino aveva cercato di uccidere anche lui. Pitman emise un sospiro gorgogliante e tese una mano verso di lui. Spinto da una irragionevole speranza, Jerome si rigirò, badando a tenersi al di sotto degli scalmi, finché riuscì a guardare in faccia Pitman. Tutto quel che aveva appreso sul suo conto concorreva a fargli supporre che i poteri sovrumani di cui era dotato potessero compiere un miracolo. Pitman aveva la bocca aperta e i denti rossi di sangue. Gli afferrò la mano. «Non potete morire» bisbigliò Jerome. «È tutta colpa vostra.»

Le palpebre di Pitman tremolarono e un fiotto di sangue gli colò sul mento. «Mi spiace … Il Principe è … troppo …» le parole appena percettibili svanirono perdendosi nell’aria.

«Principe? Principe?» Jerome sentiva la sua voce farsi acuta, isterica. «Non ho niente a che fare con nessun Principe… Dovete dirlo a qualcun altro.»

Strinse la spalla di Pitman, e si liberò dalla stretta della sua mano, rendendosi conto che era morto. Non si udiva altro rumore che il lambire paziente delle acque contro la barca. Jerome si rigirò suite schiena guardando il cielo, con la mente in tumulto. La persona che aveva ucciso Pitman voleva sicuramente eliminare anche lui di proposito o voleva solo eliminarlo per mettere a tacere un testimone oculare? C’era da sperare che l’assassino, convinto di aver messo a segno anche il secondo colpo, se ne fosse già andato?

Poteva risolvere questa seconda questione alzando la testa e sbirciando oltre al bordo della barca … ma pensando alle possibili conseguenze passò alla domanda più importante di tutte. Sarebbe uscito vivo da quella situazione?

La risposta è NO!

Jerome sussultò quando queste parole gli colpirono la mente. A un primo momento di paura e confusione seguì la consapevolezza che aveva a che fare con uh altro telepate, e con essa la certezza che il carattere del nuovo venuto era molto diverso da quello di Pitman. Il dottore era misterioso, l’aveva minacciato, ma si era anche dimostrato sinceramente dispiaciuto per quello che sentiva di dover fare, cosa questa che Jerome apprezzava ancor più in retrospettiva. Quel sottofondo emotivo gli aveva conferito una carica di umanità che mancava del tutto nel suo assassino. Durante il breve contatto psichico Jerome aveva sentito gelido egoismo, arroganza, amoralità e spietatezza. Aveva anche captato un barlume di potenza molto superiore a quella di Pitman, un potere disumano che una persona superstiziosa avrebbe potuto definire satanico.

Mentre questa parola prendeva forma nella mente di Jerome, gli affiorò alla memoria la fugace immagine di una faccia pallida e di un sorriso sprezzante a labbra strette. L’uomo che aveva incontrato alla stazione di servizio! Era lui il secondo telepate, e nell’attimo in cui lo riconobbe si sentì sopraffatto dal terrore. Capì che durante l’incontro con Pitman aveva sempre avuto un barlume di speranza, che quell’uomo anziano vestito un po’ all’antica e con la faccia da Papà Natale non avrebbe mai premuto il grilletto… mentre l’altro era fatto di tutt’altra pasta. Con lui non c’era speranza.

È VERO!

Le parole lo colpirono come una mazzata, portando con sé una successione di pensieri sconfortanti: era debole, codardo, ignorante, insignificante, spregevole e alla completa mercé del suo avversario. Lo sconosciuto non lo odiava per il semplice fatto che era insignificante, solo un piccolo, fastidioso ostacolo facilmente eliminabile.

«Perché perdere tempo con me?» disse Jerome ad alta voce. La barca era a un centinaio di metri da riva e lui sapeva che la sua voce non poteva arrivare così lontano, ma formulare una frase e parlare gli sembrava un buon sistema per un non-telepate di isolare e proiettare un singolo pensiero. Si preparò a un altra mazzata mentale, ma l’uomo col fucile non rispose.

«Sentite, non me ne importa niente di quello che poteva esserci fra voi e Pitman. Io voglio solo tornare a casa. Non posso nuocervi. Lasciatemi andare.»

Ancora nessuna risposta. Jerome alzò gli occhi all’indifferente azzurro del cielo cercando di interpretare il silenzio telapatico. Forse lo sconosciuto si era persuaso della logica di quanto gli aveva detto e se n’era andato, ma l’istinto gli diceva che non era questa la risposta: l’assassino taceva perché riteneva inutile rispondergli. Era sempre là, vicino alla casa, e aspettava… cosa?

Jerome aveva appena formulato la domanda quando scoprì la risposta: dirigendosi con Pitman verso il centro del lago, aveva remato controvento, e adesso la stessa brezza spingeva lentamente la barca verso il punto di partenza. Sarebbe stato facilissimo per un uomo armato di fucile da caccia affondare la barca e costringere lui a cadere in acqua, ma per riuscirci avrebbe dovuto sparare numerose scariche col rischio di attirare l’attenzione. Era quindi molto più prudente e sicuro aspettare pazientemente qualche minuto finché il bersaglio fosse arrivato a riva per poi stenderlo con un colpo solo. Anzi, forse non ci sarebbe nemmeno stato bisogno del fucile, perché l’uomo della stazione di servizio era certo capace di ucciderlo in molti modi e senza far rumore…

Così dopo tutto non sarà il cuore a uccidermi, pensò Jerome con amara ironia, steso sull’umido tavolato della barca. I consigli di Pitman erano inutili… le mie arterie non hanno più il tempo di ostruirsi… Ho a che fare con gente di un altro mondo che Dio sa perché vuole uccidersi a vicenda … e io non ci posso far niente, perché … perché…

All’improvviso si ricordò del fucile, seminascosto sotto il cadavere di Pitman, col calcio che gli premeva contro la schiena. Gemendo per lo sforzo di voltarsi senza sollevarsi oltre il bordo della barca, sfilò il fucile da sotto il cadavere. Non era un granché come tiratore, ma se riusciva a tenere nascosto il fucile finché la barca non fosse giunta in prossimità della riva, sparando di sorpresa forse sarebbe riuscito a centrare il bersaglio.

Mi prendi per SCEMO? Il pensiero alieno era carico di disprezzo, rafforzato dall’immagine di Jerome visto come un topo neonato, nudo, roseo e squittente.

Jerome si sforzò di scacciare l’intrusione. Il fucile era un vecchio Stevens calibro 12 che aveva ereditato dal padre, e di cui era poco pratico. Lo aprì per vedere se Pitman lo aveva caricato con proiettili per tiro al piattello o con qualcosa di più potente … e nello stesso momento fu colpito da un altro, violento messaggio mentale.

Credi DAVVERO che io ti PERMETTA di portare il tuo GIOCATTOLO alla mia portata?

Il topino spiccava vivido nella mente di Jerome, un lucido mucchietto di protoplasma informe che un tacco stava schiacciando. Nauseato, Jerome concentrò lo sguardo sui cerchi gialli alla base delle cartucce, sempre più persuaso che l’avversario godeva di un enorme vantaggio. Anche se riusciva ad avvicinarsi fino a cinquanta metri il suo fucile avrebbe costituito più una seccatura che una vera minaccia per un buon tiratore, e il fatto che l’altro sapesse quello che lui pensava non faceva che peggiorare la situazione. Solo se il fucile fosse stato caricato coi proiettili di solido piombo avrebbe forse avuto una possibilità, ma non aveva mai posseduto munizioni di quel tipo…

Se non posso ingannare chi mi legge nella mente, pensò, togliendosi di tasca il temperino, posso per lo meno rendergli le cose difficili. Confonderlo. Pensare a due cose contemporaneamente. Ma come? Non serve pensare a una cosa insignificante come un’arancia … meglio forse comportarsi come un automa … servirsi dei riflessi invece che delle parole o delle immagini… oh, Dio, un bossolo si è incastrato nell’espulsore … lo sapevo … avrei dovuto provvedere da tempo … dai, insulta quel bastardo, digli quello che pensi di lui … devo estrarre il bossolo col temperino … ehi, brutto bastardo, non riuscirai a farcela facilmente … esci allo scoperto, è meglio…

Jerome gettò via il temperino, richiuse il fucile, e si sollevò di quel tanto da poter sbirciare oltre il bordo. Era arrivato a circa ottanta metri dalla riva e poté vedere l’uomo, alto e pallido, che si teneva all’ombra di un salice vicino allo chalet. Istintivamente Jerome si alzò a sedere, imbracciò il fucile e prese la mira.

Avanti! lo sfidò la muta voce con sarcasmo. Spara a vuoto!

«Ehi, brutto bastardo!» gridò Jerome cercando disperatamente di tenerlo sotto mira. Il dondolio della barca rendeva difficile la cosa, e i secondi fuggivano, e per quanto si sforzasse non poteva cancellare dalla mente l’immagine del temperino che incideva per il lungo la cartuccia nella canna destra, lasciando solo un pezzo di plastica. Lo scherno si stava tingendo di allarme e lo sconosciuto sulla spiaggia si mosse improvvisamente. Jerome premette il grilletto e lasciò che il rinculo lo facesse ricadere sul fondo della barca.

Accovacciato vicino al cadavere di Pitman, con le orecchie che rintronavano, cercò di sentire cosa stava succedendo a riva. Era sicuro che le centinaia di pallini ammassati a formare un unico proiettile, tenuti ancora insieme dalla cartuccia tagliata, avevano avuto la forza di arrivare fino alla spiaggia con effetto devastante… ma aveva mirato bene? I mirini dei fucili da caccia non erano fatti per quel genere di mira, la barca dondolava, e lui era in preda al panico. La pressione psichica dello sconosciuto era cessata, ma questo poteva significare che si fingeva morto e aspettava l’occasione buona per sferrare il colpo decisivo.

Jerome valutò le probabilità e giunse alla conclusione che non aveva niente da guadagnare lasciandosi andare alla deriva fino a terra. Se l’avversario era vivo, era meglio cercare di scoprirlo, presto o tardi. Alzò la testa sospirando e chiedendosi se una fucilata in fronte dava tempo di sentire dolore o di rendersi conto dell’accaduto.

Sulla spiaggia tutto era tranquillo. Il sole pomeridiano illuminava lo chalet riportandogli i ricordi di tante domeniche tranquille. Scrutò nell’ombra sotto il salice ma non riusciva a distinguere con chiarezza. Afferrò i remi che aveva lasciato andare al primo sparo e manovrò in modo da costeggiare il lago, con l’assillante sensazione di avere un fucile puntato contro la schiena. La sensazione aumentò di minuto in minuto, fino a trasformarsi in un’immagine mentale che lo indusse a chiedersi se non si trattava di una trasmissione telepatica, una molesta punizione per il suo atto di sfida, e col dubbio e la paura tornò anche la pressione al petto. Rallentò il ritmo delle remate, imponendosi di respirare lentamente e regolarmente e praticò la nuova arte di sopportare l’insopportabile finché la barca non urtò il canneto nell’acqua fangosa. Smontò e il fango gli si appiccicò alle gambe.

Raccolse il fucile, strinse il dito sul secondo grilletto e guadò i pochi metri che lo separavano dalla terraferma. La prima cosa che vide fu un fucile da caccia ai piedi del salice. Dal lato opposto dell’albero sporgevano una spalla e un braccio coperti di stoffa color cachi, e Jerome capì che l’uomo della stazione di servizio stava seduto con la schiena appoggiata al tronco, rivolto nella direzione opposta al lago e a lui. Da quanto poteva scorgere stava immobile, ma la mano visibile era vicinissima al fucile.

Jerome pensò che forse l’avversario fingeva, che gli tendeva un tranello, ma scartò l’ipotesi perché la personalità dell’individuo con cui era stato mentalmente in contatto era troppo fredda e disumana per ricorrere a un sotterfugio. Se avesse avuto modo di uccidere Jerome negli ultimi minuti, gli sarebbe stato facilissimo farlo, ma forse era svenuto. Scuotendo le scarpe per liberarle dall’acqua fangosa, Jerome si avvicinò all’albero senza far rumore. Si chinò ad afferrare il fucile per la canna, e lo gettò lontano. La mano non si mosse.

Ancora più ansioso, Jerome girò dall’altra parte del tronco, tenendo il fucile puntato, per fermarsi di botto non appena poté vedere direttamente l’uomo seduto. La fucilata l’aveva colpito in pieno sullo zigomo destro e quel lato del viso era segnato da una profonda cavità. Al centro, in mezzo alla carne maciullata e sanguinolenta, spiccava il vivido arancione del bossolo di plastica. La testa, eretta, poggiava contro il tronco. L’occhio destro era distrutto, ma il sinistro era aperto. Nonostante l’orribile squarcio, l’uomo era ancora vivo, e l’occhio fissava Jerome con serena malevolenza.

Jerome arretrò, scuotendo la testa, e fece per darsela a gambe … ma era troppo tardi.

Gli parve che una violenta luce gli si accendesse nel cervello, cancellando tutto, abbagliando la sua coscienza, e poi precipitò attraverso il biancore in un oceano di candida luce.

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