La Terra, vista dagli oblò della Quicksilver, era più grande di come se l’era immaginata Jerome.
Si curvava davanti a lui da ogni parte in rotanti panorami bianco-azzurri che occupavano quasi metà del cielo, e la sua grandezza pareva accresciuta dall’incredibile quantità di particolari visibili. Il contorno del continente nordamericano, con tutte le sue associazioni con gli atlanti scolastici, attirava per ore l’attenzione di Jerome.
La sua nostalgia era andata sempre più aumentando durante i tre mesi del viaggio di ritorno, e adesso che la Quicksilver si trovava in orbita terrestre era in preda a una vera e propria crisi di astinenza tanto era la smania di riprendere la vita di un tempo. La ragione gli diceva che era impossibile — bastava solo il diverso aspetto fisico a impedirglielo — ma il cuore era più cocciuto della mente. Nei sogni e nel dormiveglia indugiava nella libreria di Whiteford, passeggiava per le strade conosciute, ripiantava il suo prato con la miglior erba nana importata, seguiva nel tempo libero i corsi di belle arti nel College Metodista ammantato d’edera…
Quand’era completamente sveglio invece stentava a credere che stava percorrendo l’ultimo tratto del percorso da Mercurio alla Terra.
Riandando ai tre mesi che aveva passato chiuso in una angusta cabina insieme ad altri due uomini, riusciva a riconoscere i fattori che avevano reso sopportabile il viaggio. Il principale era l’amicizia che era andata stabilendosi fra lui e i due americani, sebbene il loro rapporto — cosa naturale, del resto — non avrebbe potuto avere un inizio meno promettente.
Qualche attrito iniziale avrebbe potuto essere evitato se avesse potuto collaborare al seppellimento dell’uomo che loro conoscevano come Charles Baumais. Gli astronauti avevano impiegato più di due ore perché i loro messaggi radio venissero accettati da ognuno dei componenti il quartier generale della Corporazione Spacex in Florida, e poi si erano trovati di fronte a un dilemma personale quando era arrivata la prima inequivocabile istruzione riguardante Baumais: Lasciate perdere il cadavere e proseguite la vostra missione.
I controllori della missione, al sicuro nel loro ambiente familiare, non avevano capito la psicologia di quegli uomini, soli su un pianeta sconosciuto, il cui legame col resto dell’umanità era tenue e invisibile. Un compagno morto doveva essere sepolto, e con tutti gli onori del caso. Non si poteva fare altrimenti.
Jerome lo capiva ancora meglio di Buxton e Teinart, ma ormai era a corto di ossigeno e quindi era stato costretto a rifugiarsi a bordo. A questo punto gli astronauti si erano trovati a dover affrontare un altro problema connesso alle invincibili paure dei viaggi spaziali. L’avevano risolto sistemando Jerome sul sedile del compagno morto, e legandogli mani e piedi. Ma nonostante queste precauzioni continuavano a tenere d’occhio la nave mentre raccoglievano sassi ed erigevano un tumulo sul corpo di Baumais. Jerome sapeva cosa pensavano. Era virtualmente impossibile che lui si liberasse dai legami, e ancora più impossibile che pilotasse la Quicksilver da solo, ma lui era dentro alla nave, e loro fuori, e la Terra era lontanissima, e lo spazio uccide sempre, appena può.
Il puro simbolismo di assistere alla sepoltura sarebbe stato significativo. Per quanto la Quicksilver fosse molto più grande e manovrabile dei moduli scesi trent’anni prima sulla Luna, non avrebbe potuto riportare quattro uomini sulla Terra. Secondo il punto di vista di Buxton e Teinert — poiché la logica non c’entrava in circostanze come quella — la vita del loro compagno era stata scambiata con quella di un estraneo, e forse il loro astio si sarebbe un po’ attenuato se l’avessero visto partecipare alle estreme onoranze davanti alla tomba. Sulla Terra sarebbe stata una cosa di scarsa importanza, a cui forse non avrebbero fatto caso, ma lì a milioni di chilometri di distanza, era molto importante.
Altre difficoltà erano sorte in seguito alla sua improvvisa decisione di dichiararsi un cosmonauta sovietico. Non si era trattato di ideologie o di nazionalismo — la lontananza della Terra aveva un vantaggio rispetto a questo — ma della costrizione alla sua naturale sincerità. Avendo detto la bugia fondamentale, era stato obbligato a far di essa la pietra angolare di una complessa struttura di menzogne sulla sua infanzia in riva al Marc di Okhotsk, la sua famiglia, gli amici e la carriera militare. La sua eccezionale memoria per i particolari lo aveva aiutato a mantenere l’inganno. Buxton era di Tulsa e Teinart di un paesucolo dell’Idaho, e tutti e due amavano raccontare episodi della loro vita durante le lunghe veglie fra il decollo e l’arrivo. Le confidenze avevano cementato l’amicizia di quei tre uomini chiusi in un piccolo ambiente per tanto tempo, e il senso di colpa di Jerome era aumentato tutte le volte che inventava un particolare convincente del suo immaginario passato.
Guardando il convesso panorama della Terra che si stendeva sotto di lui, si chiedeva se avrebbe mai avuto l’opportunità di parlare in tutta franchezza ai due astronauti, e svelare qualcuno dei misteri che altrimenti li avrebbero tormentati per tutta la vita. Avevano passato, per esempio, ore ed ore a cercare una spiegazione plausibile per quanto era capitato a Baumais. Non si erano verificati sintomi fisici di malattia, ma verso la fine del volo Baumais era diventato sempre più teso e inquieto. Poi, mentre stavano scendendo sul Polo Nord di Mercurio aveva cominciato a delirare, sebbene non avesse febbre, e con qualche frase smozzicata aveva fatto capire che voleva vivere almeno per quei pochi minuti che lo separavano dal ritorno a “casa”. I suoi compagni erano rimasti allibiti nel rendersi conto di quanto fossero alterate le sue facoltà mentali e avevano deciso di propinargli un sedativo, ma Baumais li supplicava con tanta intensità che avevano preferito accontentarlo in quelli che erano realmente stati gli ultimi minuti della sua vita.
Jerome, custode di molti segreti, si era consolato pensando che se anche avesse potuto raccontare la verità su Baumais gli avrebbero creduto come avrebbero creduto alla verità circa l’anello di opale che portava alla sinistra.
Si era aspettato che gli sarebbe riuscito difficile se non impossibile aprire il finto sasso in cui era racchiuso il Thrabben, invece si era subito diviso in due appena l’aveva toccato lungo una fessura appena visibile. Galleggiando nella penombra della cabina, mentre gli altri due sonnecchiavano nelle reti protettive, Jerome era rimasto attonito e in preda a un reverente stupore alla vista dell’opale lenticolare in cui erano concentrati il passato e il futuro di un’intera razza. I puntolini multicolori della gemma brillavano come se fossero dotati di luce propria e sembrava che si muovessero e cambiassero a seconda dei movimenti dell’anello. Per un momento aveva pensato che quei puntini fossero i Kald dei Quattromila, che continuavano a vivere nel cosmo microminiaturizzato del gioiello; ma poi aveva capito che l’opale era soltanto un contenitore, che dentro di sé racchiudeva un nucleo di molecole uniche nel loro genere formanti un cristallo forse più piccolo di un granello di zucchero, ed era lì che ibernavano i Quattromila, in attesa di risorgere su un altro mondo.
Rimase a guardare l’anello per parecchi minuti con reverenza e timore, prima di avere il coraggio di estrarlo dalla nicchia incavata e infilarselo al dito. Aveva scelto istintivamente l’anulare sinistro, e la fascia di platino era scivolata senza difficoltà sulle nocche, ma arrivata alla base del dito il metallo si era mosso per un istante avvolgendosi intorno alla carne e sistemandovisi. Non stringeva, ma Jerome si guardò bene dal cercare di toglierlo. Infilando l’anello aveva contratto un impegno, aveva sottoscritto un singolare contratto che non aveva la facoltà di rompere.
Sotto un certo punto di vista aveva rinunciato alla sua condizione di terrestre, e tuttavia non si considerava un traditore. Come gli aveva fatto notare una volta Conforden, dorriniani e terrestri appartenevano alla stessa razza, ed era impensabile che dovessero essere condannati a una lenta estinzione sotto la superficie di Mercurio. Inoltre c’erano molte persone, come Birkett, Thwaite e Starzynski che meritavano di aver la possibilità di tornare a casa. Jerome aveva ancora molte riserve circa l’installazione di una nazione dorriniana sulla Terra, ma ammetteva che l’unico sistema pratico era un fait accompli.
Gli pareva ironico che la sua coscienza gli rimordesse tanto poco trattandosi di una cosa così importante, mentre nello stesso tempo si sentiva colpevole verso Buxton e Teinert riguardo a cose che al confronto avevano poca importanza. I due avevano la mania degli scherzi e dei giochi di parole, e ridevano per un nonnulla, specie quando lui fingeva di ignorare o di fraintendere cose che riguardavano l’America. Lui ricorreva spesso a questo trucco, per distrarli quando si trovava su un terreno pericoloso…
«Come mai» aveva detto una volta Buxton, «non sapevano che la Russia possedeva una nave interplanetaria capace di portare quattro uomini?»
«Si trattava di una questione di sicurezza nazionale. La ZR-12 aveva molti dispositivi militari. Nessun paese diffonde queste notizie.»
Buxton non era rimasto soddisfatto. «Perché avevano inviato un mezzo militare su Mercurio?»
«E cos’altro avremmo potuto inviare? Inoltre, se l’oggetto individuato su Mercurio era veramente il prodotto di una civiltà interstellare progredita, le cognizioni che se ne potevano ricavare sarebbero state utili in molti campi… compreso la difesa.»
Buxton aveva scrollato la testa, commentando:
«Credevo che Kripton esistesse solo nei fumetti.»
«Avete dei fumetti che parlano dei gas rari?» aveva ribattuto Jerome fingendo di ignorare che stessero parlando del pianeta natale di Superman.
Un’altra volta Buxton si era voltato dal pannello delle comunicazioni con un’espressione da cui si intuiva che s’era risvegliata in lui la primitiva diffidenza nei confronti di Jerome.
«Era Allbright che chiamava dal Capo» aveva detto. «Dice che i sovietici hanno negato di saperne qualcosa a proposito di una nave interplanetaria inviata su Mercurio.»
«Sono imbarazzati» aveva subito replicato Jerome. «La prima reazione consiste sempre nel negare tutto.»
«Negano anche di conoscere te.»
«E come potrebbero dire di conoscermi quando negano di aver inviato una nave su Mercurio? Ma poi si rimangeranno quello che hanno detto, e a poco a poco verrà fuori tutta la storia.»
«Sai» si era intromesso Teinert, «parli davvero molto bene l’inglese.»
«Gentile da parte tua.»
«Non hai l’accento russo.»
Jerome aveva risposto con un sorriso imbarazzato: «Chi viene da un posto remoto come Okhotsk parla un russo che non pare neanche russo.»
Una volta, mentre parlavano del mistero dell’esca, Buxton aveva detto: «Pavel, mentre ci aspettavi avevi guardato bene quell’ammasso di metallo?»
«Non molto» aveva risposto Jerome. «Ero troppo preoccupato per la mia vita.»
«Pareva… nuovo, direi, e poi era morbido. Siamo riusciti a strapparne alcuni pezzi… pareva tutto di cartone. È difficile immaginare che quella roba facesse parte di un’astronave.»
«Davvero sconcertante.»
«A chi lo dici! Tu cosa ne pensi?»
«È una materia che non rientra nel mio campo.»
«Qual era la tua specialità.»
«Spiacente» aveva risposto Jerome, temendo che una risposta precisa lo avrebbe portato in un ginepraio di nozioni tecniche. «Non ho la facoltà di divulgare questa informazione.»
Questa era la formula a cui era ricorso tutte le volte che le sue conoscenze in materia di geografia, politica, o scienza spaziale russe erano risultate troppo scarse perché lui potesse rispondere adeguatamente. Man mano che continuava il viaggio e la TASS insisteva nello smentire le dichiarazioni di Jerome, questi aveva temuto che il suo atteggiamento potesse provocare diffidenza e tensione, ma con suo gran sollievo j due astronauti la presero in ridere.
«Non ho la facoltà di divulgare questa informazione» era diventata la risposta d’obbligo a tutte le domande relative al sesso, e all’ora o alla richiesta di dove fosse andata a finire una matita.
Un’altra fonte di divertimento per Buxton e Teinert erano la statura e la magrezza di Jerome, e la scarsa energia fisica che dimostrava durante gli esercizi di ginnastica agli attrezzi. Quando aveva mosso i primi passi nel Recinto, Jerome aveva calcolato di essere di qualche centimetro più alto che non nella precedente incarnazione. Non avendo termini di paragone, e vivendo in mezzo ai dorriniani, tutti alti e magri, gli era sembrato di aver fatto una valutazione esatta. Tuttavia faceva parte dei compiti degli astronauti controllare regolarmente l’altezza e trascrivere i relativi dati per valutarne l’aumento in assenza di gravità, e fu così che Jerome scoprì di essere alto più di due metri.
«Devi esser rimasto un bel pezzo su quell’inferno, Pavel» aveva commentato Teinert. «Avevi perso la strada?»
Jerome era stato allo scherzo rispondendo che era un nano quando aveva iniziato l’addestramento astronautico, ma in realtà la sua debolezza lo preoccupava. La struttura fisica dei dorriniani era il frutto di una forza di gravità pari solo a quattro decimi di quella terrestre, il che voleva dire che il suo peso naturale sarebbe più che raddoppiato quando avrebbe rimesso piede sul suo pianeta natale. Quanto gli sarebbe stato difficile camminare e anche reggersi in piedi? E il cuore? Sarebbe riuscito ad adattarsi a una forza di gravità superiore?
Queste domande si aggiungevano al già impenetrabile schermo che celava il suo avvenire. Per tutta la vita era sempre riuscito a fare ragionevoli supposizioni circa quello che poteva succedere nell’immediato futuro, e se anche talora aveva sbagliato non era accaduto abbastanza spesso da distruggere la sua illusione di poter controllare gli eventi, di seguire una rotta prestabilita. Adesso invece non poteva prevedere al di là di qualche ora e la strada si perdeva in una nebbia d’incertezze.
Alle sue apprensioni sulla reazione del mondo a quella che avrebbe potuto essere considerata una invasione dorriniana, si erano aggiunte nuove preoccupazioni quando aveva deciso di portare a destinazione il Thrabben… e soprattutto lo preoccupava la minacciosa figura di Belzor.
Presumendo che il Principe fosse riuscito a sfuggire agli agenti dorriniani nell’Antartide, e l’istinto gli diceva che così era stato, quale sarebbe stata la prossima mossa dell’imprevedibile superessere? La versione secondo cui la Quicksilver aveva raccolto un astronauta sovietico naufragato su Mercurio non l’aveva certo ingannato per un solo istante. Belzor doveva aver capito subito che si trattava o di un dorriniano o di un terrestre trapiantato evaso per tornare sulla Terra, e avrebbe certo preso in considerazione che anche il Thrabben fosse a bordo. Jerome conosceva Belzor abbastanza bene per sapere che non avrebbe esitato a uccidere tutti gli uomini della Quicksilver solo per precauzione. C’era forse da stupirsi che non avesse sferrato un attacco telepatico come quello che aveva ucciso Marmorc, ma erano molti gli aspetti della telepatia che Jerome ignorava.
Ripensando a quello che era successo, e avendo provato di persona quanto fosse potente la mente di un supertelepate, si era reso conto che i Guardiani avrebbero potuto impedirgli la fuga senza difficoltà. Poiché si erano trattenuti dal farlo, non gli restava che presumere che i Guardiani sapevano come si sarebbe comportato ancora prima di lui, e per qualche loro motivo non avevano ostacolato la sua decisione. Lo consolava un po’ il pensiero che dovevano avere analizzato anche le possibili reazioni di Belzor e non avrebbero permesso a lui di portare a bordo il Thrabben se non fossero stati sicuri che avrebbe raggiunto sano e salvo la Terra. Forse, che strana idea!, solo i supertelepati erano vulnerabili agli attacchi psichici su distanza interplanetaria. Forse Belzor, come un insetto velenoso che può pungere una sola volta, aveva sacrificato una parte vitale di sé in quell’omicidio trascendentale, e adesso non era più in grado di rifare la stessa cosa. O, per essere più consono allo stile pragmatico terrestre, Belzor non vedeva il motivo di sferrare un colpo a distanza contro un bersaglio in avvicinamento…
«Vedo una navetta» avvertì Teinert dal capo opposto della cabina. «Vengono a prenderti, Pavel. Cosa te ne pare?»
«Magnifico!» Jerome cambiò posizione in modo da poter vedere il puntino luminoso a forma di cuneo appena visibile sull’immenso sfondo rotante della Terra. Quel che non poteva vedere era la stazione spaziale NASA Reagan I, che stava in quel momento scivolando davanti alla Quicksilver di cui seguiva la stessa orbita, come una perla su un filo invisibile.
Durante gli ultimi giorni c’era stata molta attività ad alto livello, e come risultato di innumerevoli incontri politici e militari era stato deciso che l’indispensabile visita di Jerome alla stazione fosse il più breve possibile. Buxton e Teinert avrebbero passato parecchi giorni sulla stazione, per essere sottoposti a interrogatori preliminari sulla missione, ma la controversia “naufrago russo — o non russo” doveva essere risolta in pochi minuti, molto probabilmente per motivi di sicurezza. La stazione, nominalmente destinata a ricerche, aveva notoriamente una grande importanza strategica per i militari.
«A quanto pare tornerai presto a casa» disse con voluta indifferenza Buxton.
«Già.» Jerome lo conosceva ormai abbastanza da notare la leggera enfasi con cui aveva pronunciato l’ultima parola. Era un’allusione indiretta al fatto che l’Unione Sovietica continuava a negare categoricamente di conoscerlo. Per non guastare i loro rapporti, i due avevano tacitamente accantonato la questione delle origini di Jerome dopo i primi giorni. Ma ormai il lungo viaggio stava per finire e i dubbi mai sopiti si risvegliavano insieme al bisogno di sapere.
«Forse ci manderai una cartolina» disse Teinert. «Posto che ne esistano a Okhotsk.»
Jerome sentiva che l’atmosfera era cambiata. «Sentite» disse in tono quasi supplichevole «a volte si è costretti a comportarsi contro la propria volontà.»
Buxton sogghignò. «Lo sappiamo… e tu non hai la facoltà di divulgare informazioni.»
«Non intendevo questo.»
«Scusami» disse Buxton, e pareva sincero. «Cosa pensi che ti succederà quando sarai laggiù?»
«Questa è un’ottima domanda» rispose Jerome con gli occhi fissi sulla navetta che si stava avvicinando. «Davvero un’ottima domanda.»