Il giorno iniziato con l’incidente quasi mortale era stato lungo e faticoso, ma ciononostante, quando finalmente andò a letto, Jerome non riuscì ad addormentarsi.
Forse ci sarebbe riuscito se avesse potuto stare al buio, ma dalla seconda stanza di cui disponeva filtrava un po’ di luce, e non si potevano spegnere le lampade su Dorrin. Sulle prime Jerome era rimasto sorpreso pensando che questo comportava un notevole spreco di energia, ma poi aveva scoperto che a Cuthranel non esistevano centrali elettriche come sulla Terra. I globi emanavano luce senza interruzione perché l’ingegneria psichica ne aveva modificato la struttura cellulare.
Con la stessa tecnica si sarebbe potuto far sì che si spegnessero automaticamente di “notte”, ma i dorriniani avevano la fobia del buio come del vuoto. Le strade-tunnel della capitale, molte erano vecchie quanto le piramidi, e tutti gli edifici erano costantemente immersi in una luce bianca che deprimeva lo spirito di Jerome.
Forse si sarebbe addormentato lo stesso se non ci fossero stati anche i rumori, ma non c’erano porte che fungessero da barriere contro i suoni. Gli abitanti di Cuthranel detestavano di sentirsi rinchiusi più di quanto lo esigeva l’ambiente naturale, e la loro unica concessione all’intimità, anche per i gabinetti e le camere da letto, erano ingressi schermati.
Sdraiato sulla branda, Jerome sentiva pulsare intorno a sé la vita del Recinto, un ininterrotto mormorio di voci punteggiato a tratti da risate o grida lontane. A intervalli si sentivano suoni non identificabili a bassa frequenza, borbottii e strani gemiti meccanici che emanavano dal cuore della città e si espandevano lungo la rete di pozzi e gallerie.
I primi tempi, Jerome si era recato spesso nel settore centrale di Cuthranel, spinto dalla curiosità e dal desiderio di evadere dagli angusti limiti dei tunnel del Recinto. Poiché era libero di andare ovunque, nei giorni di riposo poteva vagabondare nelle enormi caverne che corrispondevano alle piazze o che contenevano gli impianti per la produzione dell’aria, dell’acqua e delle proteine. Se le circostanze fossero state diverse, se al vecchio Rayner Jerome fosse stata offerta miracolosamente una vacanza su Mercurio, avrebbe trovato un affascinante campo di studio nella città sotterranea e in tutti gli accorgimenti tecnici che la mantenevano in vita. Ma erano successe troppe cose. La sua personalità era stata sconvolta da eventi mostruosi, e si sentiva avvilito e depresso alla vista di migliaia di esseri umani ridotti allo stato di termiti in un ambiente arido e senza sole. Ben presto aveva finito col ritirarsi nel Recinto dove almeno aveva la consolazione di sentir parlare la sua lingua.
La sezione dormitorio del Recinto consisteva in un corridoio centrale chiamato semplicemente Strada, con otto diramazioni numerate dette Vie. In passato la zona aveva ospitato terrestri di tutte le nazionalità, ma adesso per la maggior parte erano nordamericani, inglesi e abitanti dell’Europa Occidentale. Questo era dovuto al fatto che, avvicinandosi il grande momento, i dorriniani concentravano la loro attenzione sul programma spaziale USA e sull’organizzazione CryoCare. Jerome si era congratulato, in ritardo, con se stesso per aver notato la preponderanza degli occidentali nella storia recente della combustione umana spontanea, durante il suo primo ossessionante studio dell’argomento. In retrospettiva si rendeva conto che aveva avuto troppa fretta nel trascurare lo squilibrio nelle statistiche, ma a che serviva rimproverarsi? Sebbene ora la cosa gli fosse chiara, nessuno avrebbe potuto intuire la verità fantastica che si nascondeva dietro quei dati.
Riandando agli avvenimenti della giornata mentre aspettava di addormentarsi, Jerome giunse alla conclusione che non era una buona politica farsi nemico il supervisore della manutenzione. Glevdane aveva prolungato il turno di lavoro insistendo per sistemare la porta del Settore 16 e controllare poi tutte le prese d’aria e le valvole fino all’estremità del tunnel. Forse si era trattato di una reazione naturale all’incidente di Birkett, ma Jerome aveva il sospetto che Glevdane avesse voluto punirlo perché aveva criticato alcuni aspetti della tecnica dorriniana.
I difetti e i guasti nel tunnel, aveva fatto notare Jerome, dipendevano da altrettanti difetti e lacune nel progetto. Se il tunnel fosse stato costruito a dovere, non sarebbero stati necessari lavori di manutenzione, né operai in tuta a tenuta stagna, non era mancato un appunto anche alle deficienze delle tute e, soprattutto non sarebbe stato necessario in primo luogo pressurizzare il tunnel.
Le sue argomentazioni erano state ogni volta controbattute dalla semplice dichiarazione che il sistema era stato progettato dai Guardiani.
Jerome rimuginò sull’aspetto che ormai considerava tipico della mentalità dorriniana. Aveva già notato la loro inconsapevole mancanza di scrupoli nei riguardi di qualsiasi cosa connessa al supremo scopo di trasportare il Thrabben sulla Terra, e gli pareva che il comportamento di Glevdane riflettesse gli stessi princìpi totalitaristi. Una tecnica scadente diventava eccelsa se così avevano detto i Guardiani. Filosofia, questa, non dissimile da quella dei regimi terrestri in cui la politica prevaleva sulla verità scientifica. Che cosa aveva detto Pirt Conforden durante il colloquio?
Una palese presenza dorriniana sulla Terra avrà un enorme potenziale benefico.
Allora, quando la sua mente era ancora confusa e sconvolta dai recenti avvenimenti, si era sentito incline ad approvare quella asserzione. Adesso, invece… Cercò di guardare nel futuro, di visualizzare uno stato dorriniano sulla Terra. Dove l’avrebbero installato? E Conforden credeva davvero che le faziose nazioni del terzo pianeta avrebbero accettato la presenza degli alieni? Esistevano uomini, donne, bambini, sulla Terra che non avrebbero provato repulsione, paura, e odio alla vista di quattromila cadaveri redivivi che uscivano dalla loro prigione di ghiaccio pretendendo di condividere le sempre più scarse risorse del pianeta?
Tornando dal lavoro, Jerome aveva consumato un pasto leggero in uno dei refettori comuni e poi era andato direttamente nel suo alloggio di Via Cinque. Art Starzynski, che adesso era un quarantenne con una gran testa di capelli e gli occhi da cerbiatta, lo aveva invitato a giocare a scacchi, ma lui aveva rifiutato con la scusa che era molto stanco.
Starzynski aveva accettato con grande stoicismo la sua nuova incarnazione, asserendo che qualche decennio di vita in più su Mercurio compensava largamente la perdita delle poche settimane che gli sarebbero rimaste sulla Terra, ma condivideva la nostalgia di Birkett, e le partite a scacchi erano un’occasione per ricordarsi di Whiteford. Quasi tutti i terrestri, per vincere la nostalgia o illudersi di vivere ancora sul pianeta natale, dedicavano il tempo libero ai passatempi che avevano coltivato un tempo. Un gruppo di persone che conoscevano bene lo stesso posto della Terra stava eseguendo una pittura piena di particolari, discutendo sulla forma di un palo della luce, o sull’esatta dicitura dell’insegna di un negozio.
Era questa un’attività che Jerome si preoccupava di evitare. Trovava l’esistenza nei grigi tunnel di Cuthranel già abbastanza insopportabile senza quelle illusorie visite alla Terra coi successivi inevitabili ritorni alla realtà di Mercurio. Allo stesso modo si asteneva dal partecipare alle attività di gruppo organizzate sotto la guida di Mel Zednik, Joe Thwaite e dei loro comitati.
Sarei pronto a unirmi a voi aveva detto una volta se organizzaste un comitato di fuga.
Sentiva istintivamente che integrandosi nella vita comunitaria del Recinto avrebbe voluto dire che accettava la sua sorte e sarebbe stato privato in qualche modo del suo diritto di tornare libero sulla Terra. E questo non poteva essere discusso, nemmeno simbolicamente.
Conforden aveva parlato della possibilità di una migrazione generale fra una decina d’anni. Questa stima pareva cervelloticamente ottimista a Jerome, ma era un messaggio di speranza il fatto che la sua prigione fosse limitata nel tempo, e questa previsione gli dava più conforto che non l’abbandonarsi alla nostalgia.
Lavorare fino ai limiti della resistenza serviva se non altro a favorire il sonno, ma quella sera il sistema non funzionava. Sapeva per esperienza che era controproducente irritarsi o inseguire il sonno come un cacciatore. Il trucco consisteva nel cercare di rilassarsi, di liberarsi da tutte le tensioni, e di lasciar fare alla natura. Il sesso era l’antidoto classico all’insonnia, senza fretta, con serenità e con un partner familiare, ma Donna gli aveva detto di avere altri impegni quella sera.
Jerome imprecò contro di sé per aver pensato a lei, poiché questo accresceva le sue difficoltà. Donna era reticente circa la sua età, ma lui sospettava che all’epoca del trasferimento dovesse essere sulla sessantina. L’impegno con cui curava e valorizzava il corpo giovane e attraente ereditato da una Dorriniana supertelepate gli sembrava ossessivo, a volte, ma quella notte sarebbe stato felice di averla con sé.
La stai prendendo dal verso sbagliato si disse. Se non riesci a smettere di pensare, cerca almeno di farlo in modo positivo, di capitalizzare l’eccesso d’energia mentale. Cerca di penetrare il futuro…
Il Thrabben doveva essere posto sulla superficie di Mercurio fra ventidue giorni, non appena la Quicksilver avesse raggiunto il pianeta e fosse entrata in un’orbita polare. Jerome provò un brivido elettrizzante nel visualizzare il minuscolo guscio di metallo che in quel momento stava lentamente avvicinandosi.
I tre uomini a bordo avevano viaggiato per diverse emozionanti settimane, e per uno di loro quello era un viaggio di ritorno. Quello che stilla Terra era l’astronauta Charles Baumanis, era in realtà un supertelepate dorriniano che aveva effettuato un transfer mentale dodici anni prima. Dopo l’atterraggio, e mentre i suoi due compagni esaminavano il supposto frammento di una nave interstellare, lui si sarebbe allontanato per un breve tratto per raggiungere il punto dove era stato messo il Thrabben, e se lo sarebbe infilato di nascosto in tasca. Fatta eccezione per i Guardiani, erano pochi quelli che avevano visto lo scrigno dei Quattromila, ma avevano detto a Jerome che assomigliava a un piccolo opale. Era davvero un paradosso che l’ingegneria psichica dorriniana fosse arrivata a un tal grado di perfezione da inglobare quattromila personalità umane nelle molecole di un singolo cristallo, e nello stesso tempo costruisse manufatti su larga scala che Henry Ford avrebbe potuto migliorare senza difficoltà.
Il gioiello lenticolare del Thrabben era inserito in un anello di platino in modo che il Dorriniano, Rithan Tell Marmorc, potesse trasportarlo senza che nessuno se ne accorgesse alla base di CryoCare. L’immaginazione di Jerome arrivava fino a questo punto… ma poi?
«Posso entrare?» La donna che aveva parlato stava sulla soglia dell’arco d’ingresso privo di porta.
Jerome si sollevò puntellandosi su un gomito, sorpreso ma contento che Donna avesse cambiato i suoi piani, ma poi si accorse che la sagoma sulla soglia apparteneva a una giovane in abito dorriniano. «Vi… vi conosco?»
«Ci siamo già incontrati una volta. Mi chiamo Avlan Fell Commelva.» La donna si avvicinò al letto e si fermò a guardarlo restando in piedi. Probabilmente era bella nella luce cruda dei corridoi, ma nella penombra della camera da letto il suo viso aveva la disumana bellezza di un’antica principessa egiziana. L’espressione era enigmatica, fra la bramosia e il disprezzo.
«Temo di non ricordare» disse Jerome alzandosi a sedere in modo da poterla guardare meglio.
Le camiciole a strisce unisex non avevano una funzione pratica in quanto nel caldo ambiente di Cuthranel non c’era bisogno di coprirsi, e le strisce grigioazzurre di quella donna si erano divise mettendo a nudo i seni. Jerome si sentì percorrere da un fremito notando che i capezzoli erano eretti.
«Mi trovavo nella sala ricovero quando siete stato trasferito.»
Jerome rievocò l’immagine dei suoi primi momenti su Mercurio, e rivide quella della donna che si era coperta la faccia con le mani, in preda alla disperazione.
«Credo di capire.»
«Dopo di allora vi ho evitato» riprese la donna con voce calda e intensa. «Amavo Okra Blamene… e vi odiavo perché avevate invaso il suo corpo.»
«Non ero stato io a volerlo.»
«Questo è ovvio. Ma allora ero fuori di me.» Avlan allungò lentamente la mano a sfiorargli il viso, con circospezione, come se si aspettasse di incontrare il vuoto. «Non sopportavo neppure di pensare a Orkra, i primi tempi, ma poi ho cominciato a sentire che io stessa sarei stata in parte colpevole del suo assassinio se avessi negato che era esistito. Ho imparato a consolarmi ricordandolo, e vorrei farlo materialmente, ma non sarebbe leale nei vostri confronti.»
«No, perché siete sincera» rispose Jerome tornando a sdraiarsi. «Be’ comunque è meglio di qualsiasi cosa mi sia capitata di recente.»
«Grazie» Avlan s’interruppe per sfilare la camiciola. «Potrei chiamarti Orkra?»
Jerome pensò a sua moglie che aveva fatto parte di un’altra vita. «Come vuoi… può darsi che anch’io ti chiami con un altro nome.»