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I tre uomini e le due donne che guardavano con ansia Jerome avevano qualcosa di strano.

Non erano i capelli lunghi fino alle spalle degli uomini, sebbene quella pettinatura fosse fuori moda dal 1990, e neppure l’abbigliamento dei cinque, per quanto insolito. Indossavano tutti sottanelle grigioazzurre di una stoffa che pareva seta, e una blusa sciolta dello stesso materiale, tagliata a strisce strette che pendevano da un colletto nero. Gli uomini avevano il colletto alto, le donne una scollatura bassa e quadrata.

Dietro al gruppo, Jerome poteva vedere parte di una stanza rotonda, priva di finestre e col soffitto a cupola, e anch’essa aveva qualcosa di strano che però non c’entrava per niente con l’architettura. Lui se ne stava seduto con qualcosa di morbido e imbottito che gli pesava addosso, cercando di isolare e identificare gli elementi estranei dell’ambiente.

Il più alto dei tre uomini scosse la testa e disse: «Na tostin arvo kald.» La donna che gli stava vicino trattenne il fiato, si coprì la faccia con le mani e si voltò.

Jerome la guardò, confuso e stupito, come un prigioniero che si sveglia in una segreta, mentre un lieve senso di disagio cominciava a impadronirsi di lui. Invece di studiare l’ambiente avrebbe fatto meglio a chiedersi dov’era e chi erano quei…

Ci sono! la scoperta lo riempì di attonito stupore. Non ho gli occhiali ma ci vedo benissimo sia da vicino che da lontano… nei minimi particolari… Mi trovo in un ospedale e hanno fatto qualcosa ai miei occhi!

Ma il piacere che gli diede questa scoperta fu presto sopraffatto dal senso di disagio e da un turbine di domande.

Ma dove sono di preciso? L’uomo della stazione di servizio mi ha sparato? Se questo è un ospedale, perché il personale è vestito in questo strano modo? E perché me la sto prendendo tanto?

L’uomo alto gli si avvicinò, e disse chinandosi su di lui: «Mi chiamo Pirt Sull Conforden. Voi siete Raymond Jerome?»

«Rayner» corresse Jerome meravigliandosi dello strano timbro della propria voce. «È un nome di famiglia.»

«Benissimo, Rayner. Ci sono molte cose che voi volete, e avete il diritto, di sapere, così noi due faremo una bella chiacchierata.» Conforden diede un’occhiata ai suoi compagni che se ne andarono immediatamente uscendo attraverso un’arcata in uno stretto corridoio che a Jerome parve simile a un tunnel. Quando sparirono oltre una svolta, si chiese se per caso non si trovasse in un complesso sotterraneo, ma la strana apatia a cui era in preda gli impedì di approfondire l’argomento.

«Perché quella donna era così sconvolta?» chiese, e notò di nuovo che la sua voce aveva un timbro diverso.

«È morto un suo carissimo amico. Capirete poi.» Conforden parlava correttamente, senza particolare accento, ma con la precisione di un esperto linguista che parla una lingua poco familiare. Dimostrava poco meno di quarant’anni, e aveva una faccia ovale infantile ma con l’espressione di chi è stanco della vita. La pelle, pallida e liscia, senza una macchia, dava l’impressione di essere stata spalmata col fondotinta.

«So che vi sentite stordito e confuso» continuò Conforden, «e probabilmente avrete anche un po’ di nausea, del che mi scuso in anticipo. Sono gli effetti delle sostanze che vi sono state iniettate, ma passeranno presto.»

«Medicinali? Anestetici? Gli occhi…»

«Non preoccupatevi per gli occhi. Ci vedete meglio o peggio di prima?»

«Molto meglio» rispose Jerome. «Mi trovo in un reparto traumatologico? Mi hanno sparato?»

Conforden fece un cenno di diniego e disse in tono gentile e rassicurante: «Siete in condizioni perfette. Rilassatevi, ma ascoltate bene quello che sto per dirvi. Sulle prime vi riuscirà difficile assimilarlo, ma io sono qui pronto a rispondere a tutte le domande, e vi assicuro che non vi succederà niente di spiacevole in questa nuova fase della vostra esistenza.»

Jerome meditò sulle ultime parole, vagamente consapevole che avrebbe dovuto trovarle minacciose. «Quello che dite pare un benvenuto in paradiso o all’inferno, o in qualche posto fra l’uno e l’altro.»

«No, siete ancora vivo» rispose Conforden. «Erano un benvenuto sul pianeta che voi chiamate Mercurio.»

Jerome rimase a fissare a lungo il soffitto, con il cervello trasformato in una palla di cotone, una massa cedevole incapace di rispondere agli stimoli. Sentiva cuore e polmoni funzionare come era loro compito, ma erano remoti come pulsar, persi in confuse distanze.

D’accordo, dunque adesso mi trovo su Mercurio, pensò. Non dovrebbe esser difficile approfondire la questione.

Jerome abbozzò un sorriso: «Mi sapete dire come sono arrivato qui?»

«Per prima cosa dovete sapere che Nitha Roll Movik, il Dorriniano che voi conoscevate col nome di Pitman, non ha mai avuto intenzione di uccidervi. Noi siamo un popolo etico e aborriamo l’omicidio.»

Con la mente ancora confusa, Jerome fece uno sforzo per ricordare quanto era successo al lago. «Il fucile» disse.

«Si trattava solamente di una restrizione fisica. Altri prima di voi sono venuti a conoscenza degli interventi dorriniani sulla Terra, costringendoci a ridurli al silenzio. Il metodo da noi usato consiste nel trasferimento della personalità di un volontario dorriniano in un corpo terrestre. Ma anche a un supertelepate riesce difficile mettere a fuoco una lente kald su un’unica persona a distanza interplanetaria. Normalmente occorrono parecchie ore, ma il procedimento può essere ridotto a un’ora o anche meno se il soggetto kald è immobile in una zona disabitata della Terra. Per questo Movik vi ha tenuto così a lungo sotto tiro… aspettava che venisse effettuato il trasferimento.»

«Purtroppo ha aspettato troppo.»

«Quando vi sentirete di farlo vorrei che mi diceste esattamente che cosa gli è successo.»

«Non lo sapete?» chiese Jerome, con l’impressione di divagare, di allontanarsi da un punto molto più importante. «Non mi leggete nel pensiero?»

«No. Le mie facoltà telepatiche sono ancora poco sviluppate. Riesco solo a captare l’immagine di un altro uomo armato di fucile… un duello…»

«Eravamo in barca sul lago» spiegò Jerome, «quando un uomo ha sparato a Pitman dalla riva. Ha cercato di uccidere anche me… ma io sono riuscito a… a eliminarlo.»

Sul viso di Conforden si dipinse un’espressione enigmatica. «Che aspetto aveva quell’uomo?»

«Sinistro. Malvagio» Jerome rievocò l’immagine di quel volto pallido, del sorriso a labbra strette. «Non riuscivo a guardarlo negli occhi.»

«Era il Principe» asserì lentamente Conforden. «Siete stato davvero fortunato a cavarvela.»

«È la stessa impressione che…» Jerome s’interruppe perché finalmente gli pareva di aver capito. «Come ho fatto a salvarmi? Stavo parlando con Pitman di questi vostri trasferimenti e gli dicevo che per me equivalevano ad altrettanti omicidi, ma lui non ha avuto il tempo di spiegarmi…»

«È un processo reciproco» rispose Conforden. «Quando il transfer ha successo il terrestre e il dorriniano scambiano i corpi.»

«Avrei dovuto immaginarlo» commentò rassegnato Jerome, e quando si guardò le mani si accorse subito che appartenevano a un estraneo.

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