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La mattina dopo era arrivato a due isolati dall’ufficio prima di accettare il fatto che non poteva proprio andarci. Sbigottito per questa sua irrazionalità, svoltò a destra al prossimo semaforo e proseguì verso sud. Whiteford, sotto la vivida luce del sole aveva quell’aria pacifica, sana, monotona e sicura caratteristica delle città di provincia nelle mattinate estive. Le strade erano già piene di gente diretta al lavoro e Jerome sapeva che nella stanza dei cronisti dell’Examiner il lavoro quotidiano sarebbe cominciato fra poco, con Anne e i suoi occhi castigliani che notavano tutti i particolari, e specialmente la sua scrivania vuota. Che motivo avrebbe potuto addurre per la sua assenza?

Be’… vedete, Anne… c’era una strana scatoletta portapillole…

Immaginando la sua reazione, Jerome rabbrividì per l’imbarazzo, ma continuò a guidare verso la casa di Starzynski. L’ipotesi che le vittime della CUS avessero un punto in comune costituito da una medicina che ne alterava il metabolismo oltre ad essere campata in aria era resa più assurda dall’idea che in poche ore lui avrebbe scoperto quella verità che era sfuggita per secoli a chi si era occupato del fenomeno. Ma quell’idea gli stava fissa nella mente come l’amo in gola a un pesce e l’unico modo per liberarsi dall’ossessione consisteva nel controllarla, sia pure a condizione di farci una figuraccia.

Ed è proprio quello che sto facendo, pensò mentre accostava l’auto al marciapiede davanti alla villetta in cima alla scalinata circondata dal giardino fiorito. I gradini di cemento gli sembrarono più ripidi dell’altra volta e quando suonò il campanello ansimava. Passò quasi un minuto prima che Maeve Starzynski aprisse. Indossava una vestaglia a fiori e la sua faccia tonda aveva l’espressione di chi si è appena destato da un lungo sonno.

«Oh» disse, e prevenendo le sue scuse: «Niente, niente, entrate.»

«Grazie.» Jerome entrò e aspettò in anticamera mentre lei chiudeva la porta. Un anno e più di vedovanza aveva acuito la sua sensibilità, e vicino a Maeve scoprì che riusciva veramente a percepire odore di sonno. Era una miscela evocativa di lenzuola calde, crema per il viso, e lieve sudore che gli rivelò quanto detestasse vivere in solitudine. Tanto per dirne una, se ci fosse stata ancora Carla non avrebbe passato buona parte della notte al computer …

«Ho preso un sonnifero ieri sera … doveva essere molto potente, a quanto pare» disse Maeve. «Di solito non ne faccio uso, ma me l’ha consigliato il dottore.»

«Mi dispiace di avervi disturbato a quest’ora» disse Jerome «… a quanto pare sta diventando un’abitudine, ma … be’, avrei bisogno di qualche altra informazione.»

«Di cosa si tratta?»

«Mi chiedevo …» Jerome non finì la frase, poi, con uno sforzo vinse l’imbarazzo e chiese: «Mi sapreste dire se vostro padre prendeva qualche medicina?»

«Sì» lo guardò stupita e andò in cucina per tornare poco dopo con una bottiglietta di capsule gialle. «Collofazina D. Non so di cosa sia composta, ma era stata prescritta a mio padre perché soffriva di dolori addominali.»

Jerome era sempre più a disagio. «Non alludevo a questo. Per caso vostro padre non prendeva delle pillole confezionate in una scatoletta a forma di cuore?»

Maeve sorrise incredula. «Tipo vecchia erboristeria? No.»

«So che vi pare ridicolo, e vi prometto che me ne andrò e non vi darò più fastidio… ma cosa conteneva quella scatoletta?»

«Quale scatoletta?»

Jerome la guardò interdetto. «Quella piccola, viola. L’ho vista su uno scaffale in salotto.»

«Non ricordo di aver mai visto niente di simile» ribatté calma Maeve.

«Ma …» Jerome provava l’impulso di darsela a gambe, ma il lato ostinato del suo carattere prese il sopravvento. «L’ho proprio vista su uno scaffale, vicino a un binocolo e ad alcune monete straniere. Ho un’ottima memoria per questo tipo di cose.»

«Io invece no, ragion per cui sarà meglio che andiamo a dare un’occhiata, non vi pare?» Con un sorriso a fior di labbro aprì la porta del salotto, che era nelle identiche condizioni del giorno prima fatta eccezione per la tavola che era stata rimessa sopra al foro. «Ho deciso di non servirmi più di questa stanza finché non avrò fatto riparare il pavimento, ma prima devo aspettare il benestare del coroner.»

«Capisco.» Jerome la scansò e andò allo scaffale dove aveva visto la scatoletta. Tutti gli altri oggetti erano al loro posto, ma la scatoletta a forma di cuore era sparita. Esaminò il resto della stanza, e infine si voltò a guardare Maeve che lo fissava intenta.

«Non guardatemi così» protestò lei ridendo. «Non ho nascosto niente.»

Jerome non vedeva perché dovesse mentire. «Non capisco. È entrato qualcun altro qui?»

«Nessuno.»

«Sicura?»

«Certo che sono sicura. Non ricevo poi tante visite da dimenticarmene.»

«Non capisco» mormorò Jerome sempre più perplesso. «La scatola era qui, ieri.»

Gliela descrisse minuziosamente e quando lei gli chiese perché gli interessasse tanto, espose con riluttanza la teoria sul fattore comune nelle morti per CUS. Lo fece in modo da farle capire che la riteneva una teoria campata in aria per evitare le sue critiche, ma esponendola dovette ammettere fra sé che era realmente assurda. Maeve lo ascoltava con un sorriso incredulo, e lui si rendeva conto che, oltre tutto, di quella misteriosa scatoletta non le importava niente. Era sicuro che non gli avesse mentito dicendo di non averla mai vista, e quando la vide sbadigliare ne approfittò per trovare la scusa per accomiatarsi.

«Sarà meglio che me ne vada, adesso» disse, rammaricandosi di non poter frugare da cima a fondo la stanza.

Maeve si scusò. «Di solito a quest’ora non sono così intontita, ma quella pillola …» s’interruppe con aria sorpresa. «Mi è venuta in mente una cosa.»

«Riguardo alla scatoletta?»

«No … è che il dottor Pitman è venuto qui, ieri pomeriggio. Me ne ero dimenticata.»

«Era il medico di vostro padre?» Jerome cominciava ad eccitarsi.

«Sì, ma…»

«È entrato in questa stanza?»

«Si, ma non è un ladro, se è questo che pensate.»

«Me ne guardo bene» disse Jerome in tono conciliante. «Ascoltate, Maeve, spero non vi dispiaccia se vi chiamo per nome, so benissimo che la teoria della medicina è molto debole, ma se vogliamo scoprire cosa è successo a vostro padre dobbiamo controllare tutte le teorie sia pure per eliminarle una dopo l’altra. E ora ditemi, sapete dove posso trovare il dottor Pitnam?»

«Lo so ma non ve lo dico» Maeve si avviò con passo deciso verso l’anticamera, costringendo Jerome a seguirla. «Il dottor Pitnam è una persona esemplare. È venuto qui ieri senza essere chiamato, solo per accertarsi che stessi bene e per farmi le condoglianze. E adesso voi vorreste andare da lui ad accusarlo di aver rubato una stupida scatoletta.»

«Non pensavo più alla scatola» mentì Jerome. «Volevo solo chiedere al dottore se aveva prescritto qualche particolare medicina a vostro padre.»

Maeve aprì la porta d’ingresso. «Signor Jerome, quando mi sono messa in contatto con l’Examiner l’ho fatto perché si venisse a sapere che mio padre non era una spugna imbevuta di alcol, non per aprire a voi una brillante carriera di scrittore di fantascienza curioso e ficcanaso … e se mai verrò a sapere che avete disturbato il dottor Pitnam protesterò col vostro direttore e farò del mio meglio perché siate licenziato.»

Poco dopo, senza quasi rendersi conto di come fosse successo, Jerome si trovò fuori. Nel corso del loro primo incontro Maeve gli aveva detto di avere un carattere impulsivo, e adesso gliene aveva dato una dimostrazione. Qualcosa nel tono della voce gli aveva fatto capire che non minacciava a vuoto, e sarebbe stata veramente capace di andare da Anne Kruger a esigere che fosse licenziato.

Scese zoppicando i gradini e salì in macchina. Premette poi il tasto contrassegnato Elenco Telefonico sul cruscotto e chiese l’indirizzo del dottor Pitnam. Poco dopo la macchina rispose: «Quattro-Otto-Quattro Hampshire Drive, Albany, Whiteford.»

Jerome annuì soddisfatto e avviò il motore. Albany era un quartiere esclusivo che, quasi per reazione alla planimetria a griglia del resto della città, aveva strade tortuose che portavano il nome delle contee inglesi, invece di essere contrassegnate da numeri. Gli ci vollero alcuni minuti per arrivarci e trovare l’indirizzo in un viale alberato, dove folte siepi nascondevano la vista delle case dalla strada. Imboccò un vialetto semicircolare e si fermò davanti a una casa di mattoni quasi interamente coperta da edera rampicante. Le porte del garage adiacente erano aperte, segno che il dottore non era in casa.

Jerome suonò il campanello — un bottone di ceramica bianca inserito in un disco di ottone sbalzato — e sentì un melodioso tintinnio all’interno, ma nessuno venne ad aprire. Tornò a suonare più volte, rifiutandosi di darsi per vinto, e stava già per rinunciare quando una voce maschile alle sue spalle lo fece sussultare.

«Il dottor Bob non c’è» disse la voce.

Jerome si voltò di scatto e vide un giovane in abiti da lavoro con una cesoia da giardiniere in mano. Era quasi calvo, con qualche ciocca di capelli biondastri che gli attraversava il cranio, e aveva quel caratteristico colorito grigiastro delle persone molto pallide che sono abbronzate. Jerome ebbe l’impressione che fosse malato.

«Non potete dirmi dov’è il dottore? All’ospedale?» gli chiese.

«Oh, no!» rise il giovane come se Jerome avesse detto una spiritosaggine. «È andato da Mason a ritirare le camicie nuove. Sarà qui fra un quarto d’ora o poco più.»

«Allora lo aspetto in macchina.»

«Perché? Vi sciogliereste in sudore, con questo caldo. Seguitemi e vi mostrerò dove potete aspettarlo.» Il giovane gli fece un cenno e senza aspettarlo si avviò scomparendo dietro l’angolo della casa. Jerome lo seguì sul retro dove si stendeva un ampio giardino ben curato con siepi squadrate e aiuole di rose bianche.

«Entrate e mettetevi a sedere.» Il giovane indicò una porta finestra spalancata che dava in una stanza ombrosa arredata come uno studio o un ufficio. «Accomodatevi.»

«Non so se …» Jerome esitava non sapendo come spiegare che non sapeva se poteva entrare col solo permesso del giardiniere.

«Entrate, entrate» insiste l’altro. «Direte al dottore che è stato Sammy Birkett a darvi il permesso. È stato il dottor Bob a dirmi di far così. Lo giuro.»

«Grazie, Sammy.» Jerome entrò nella stanza e sedette in una poltrona di cuoio davanti alla scrivania. Il rumore delle cesoie rivelava che Birkett si era rimesso al lavoro. Le pareti erano quasi interamente occupate da librerie che andavano dal pavimento al soffitto, piene di testi di medicina e di letteratura varia. Fra le librerie erano appesi numerosi certificati, foto di famiglia e pallide mezzetinte di soggetto sportivo. Era una stanza che volutamente era sfuggita all’era elettronica, o per vanità o per distinguersi dalla moda del tempo, e intuendo che Pitman passava lì la maggior parte del suo tempo, Jerome sentì che il dottore doveva essere una persona simpatica.

Aspettò dieci minuti e poi, cominciando a spazientirsi, si alzò ad andare a guardare da vicino le fotografie nella speranza di identificare Pitman. Intanto l’attesa si prolungava e via via che passavano i minuti andava facendosi sempre più incombente l’immagine di Anne Kruger, sempre più infuriata. Tutte le volte che gli veniva fatto di pensare che a causa della sua assenza rischiava di perdere il lavoro si sentiva attanagliare dall’angoscia, aggravata dall’idea che non era per niente sicuro di riuscire a dimostrare l’esattezza della sua teoria. Ma per mettersi l’animo in pace bisognava dimostrare che era sbagliata.

La crescente agitazione lo spinse a continuare a andare su e giù intorno alla stanza, e fu al terzo giro che notò una busta con un francobollo semicircolare nel cestino dei rifiuti. A quanto ne sapeva i francobolli di quella forma erano in dotazione solo all’Amity, l’installazione angloamericana dell’Antartico. Non avendone mai visto prima uno, Jerome si chinò a prendere la busta e rimase sorpreso nel constatare che proveniva dalla sede della Società CryoCare di Amity.

Da una decina d’anni si era riacceso l’interesse per la conservazione a bassissima temperatura delle vittime di talune malattie, nella speranza che la medicina sarebbe stata un giorno in grado di farle tornare in vita e guarirle. La CryoCare aveva nell’Antartide un deposito di corpi e un laboratorio scientifico, in quanto laggiù esistevano le condizioni naturali per la conservazione degli organismi, ma nonostante gli innegabili progressi della scienza in quel particolare campo, Jerome dubitava che si potesse raggiungere lo scopo desiderato. Provava una sfiducia istintiva verso qualsiasi progetto che coinvolgesse gente timorosa di morire ma divisa dalle condizioni economiche. Il fatto che Pitman avesse rapporti con la CryoCare non si accordava con l’idea che lui si era fatta di un benevolo medico di famiglia della vecchia scuola. Ma probabilmente quella busta aveva contenuto solo un volantino pubblicitario. Perplesso, Jerome tornò a gettarla nel cestino e andò alla finestra.

Il giardiniere era lì vicino. Aveva sospeso il lavoro e teneva gli occhi fissi nel vuoto, con la testa piegata di lato come se stesse ascoltando qualcuno che parlava sottovoce. Guardandolo, Jerome si persuase sempre più che Birkett doveva essere malato o convalescente da un’operazione. Il giovane, ignaro di essere osservato, infilò le cesoie sotto l’ascella e trasse dalla tasca dei jeans una scatoletta di cui tolse una pastiglia che si mise in bocca.

Jerome, la cui vista era ottima grazie agli occhiali, riconobbe subito dal colore la scatoletta da cui Birkett aveva preso la pastiglia. Era viola e a forma di cuore, e gli parve che l’immagine si avvicinasse, ingrandendo, come se i suoi occhi fossero provvisti di zoom.

«Sammy» disse col cuore in gola, «cos’è quella pillola che avete preso?»

«Pillola?» Birkett rimase un attimo interdetto, poi sorrise. «Non è una pillola» e socchiudendo le labbra mostrò un confettino rosa che stringeva fra i denti. Il suo alito sapeva di cannella.

Jerome, deluso e imbarazzato, mormorò: «Oh … scusate.»

«E di che?» ribatté Birkett e gli porse la scatoletta: «Sono buone. Prendetene una.»

«Grazie.» Jerome esaminò la scatola e vide che nonostante la forma insolita si trattava di un prodotto a larga diffusione. Sul coperchio c’era scritto: Regency Cacciù, e, a lettere più piccole: T. J. Grant Co. — Chipping Norton, Oxford. L’aprì e prese uno dei confettini. Il sapore di spezie gli pizzicò la lingua, ma era sommamente improbabile, pensò con amara autocritica, che succhiandolo sarebbe morto per autocombustione. Aveva costruito con la fantasia un ridicolo castello sull’antiquata abitudine di un medico di provincia di offrire dolciumi ai pazienti.

«Il dottor Bob li fa venire dall’Inghilterra» disse Birkett rimettendo in tasca la scatoletta. «A casse. Dice che fanno bene allo stomaco.»

«Son certo che ha ragione» asserì Jerome, rabbrividendo quando un’occhiata all’orologio gli rivelò che erano le undici meno cinque. Si era comportato da idiota, e meno male che aveva scoperto la verità senza aver parlato con Pitman e senza aver detto chi era al giardiniere. Se si affrettava a tornare in ufficio forse avrebbe trovato una buona scusa per il ritardo e con questo avrebbe sepolto quel ridicolo episodio, e con un briciolo di fortuna sarebbero passati anni prima che cadesse un’altra volta vittima di una simile aberrazione mentale.

«Sammy, si fa tardi. Ho deciso di non aspettare il dottore.»

«Tornerà fra un minuto» ribatté Birkett deluso. «Non gli ci vuol molto per andare a ritirare le camicie.»

«Non importa… Non era niente di urgente.»

«Se lo dite voi.» Inaspettatamente, Birkett si fece avanti e lo prese per un braccio. «Abbiate sempre cura della vostra salute» gli raccomandò.

«State tranquillo» rispose Jerome turbato dal contatto fisico con quell’estraneo che si comportava in modo strano.

«Il dottor Bob vi rimetterà in sesto» continuò il giovane rafforzando la presa. E aggiunse con ingenuo orgoglio: «Io ho il cancro.»

«Mi dispiace» disse sempre più a disagio Jerome, intuendo che gli sarebbe stato difficile adesso congedarsi senza sembrare maleducato.

«Oh, ma guarirò! Il dottor Bob mi sta curando molto bene, anche se non ho soldi. In cambio bado al giardino.»

«Con ottimi risultati, a quanto vedo» commentò Jerome liberando il braccio, anche se aveva deciso di trattenersi ancora un po’. Era evidente che Birkett aveva voglia di chiacchierare, e forse, nonostante quello che aveva detto, aveva paura di morire. Se Pitman fosse arrivato nel frattempo, avrebbe imbastito lì per lì una scusa per giustificare la sua presenza. Tanto per dir qualcosa chiese al giovane consigli sulla coltivazione delle rose e si addentrò con lui fra le aiole per osservarle più da vicino. Poi, pensando che era venuto il momento di accomiatarsi, guardò con ostentazione l’ora.

«Mi ha fatto piacere parlare con voi, Sammy» disse, «ma adesso devo proprio andare.»

Birkett non rispose. Stava ritto nella stessa posizione in cui Jerome l’aveva visto poco prima dalla finestra, con la testa semicalva inclinata di lato come se ascoltasse una voce lontana. Teneva lo sguardo fisso ed era chiaro che non aveva sentito le parole di Jerome. Questi cominciava a sentirsi in trappola. Pensò per un attimo di voltarsi e tagliare la corda, ma chissà perché si sentiva responsabile del benessere del giardiniere e aveva la sgradevole sensazione che fosse in preda a una crisi. Si guardò intorno in cerca di ispirazione e vide poco distante un piccolo capanno estivo aperto sul davanti.

«Sammy, credo che dovreste mettervi a sedere» disse. «Intanto vado a prendervi un bicchier d’acqua.»

Prese Birkett per un braccio e lo spinse verso il capanno. Il giovane non oppose resistenza e si lasciò cadere su una panca di legno appoggiando la schiena alla parete di fondo. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto e stava accasciato sulla panca come un fagotto di stracci. «Tornerò fra un attimo.» Jerome si avviò verso la villa, ma si voltò subito perché Birkett aveva emesso un rumore come se fosse in preda a un conato di vomito. «Vi sentite male?» chiese.

Tenendo gli occhi sbarrati fissi nei suoi, Birkett aprì la bocca ed eruttò una ruggente lingua di fiamma azzurra.

Jerome cadde in ginocchio stringendosi le mani al petto, incapace di distogliere lo sguardo, emettendo un gemito animalesco a quella vista che era un affronto alla ragione e al creato. Un essere umano che ardeva come una torcia imbevuta di petrolio! Per fortuna lo spazio angusto del capanno tratteneva il denso fumo azzurro impedendogli di scorgere i particolari. Tuttavia quel che Jerome ebbe il tempo di vedere fu sufficiente a suscitare migliaia di incubi.

Vide una vivida fiamma saettare intorno alla bocca incenerendo la faccia. Vide il tronco gonfiarsi, afflosciarsi e tornare a gonfiarsi mentre veniva consumato da un tremendo calore che tuttavia, per chissà quale miracolo, risparmiava gli indumenti. Vide gli arti torcersi spasmodicamente mentre il fuoco li divorava, trasformando il corpo in una oscena marionetta danzante…

Jerome era entrato in una dimensione di orrore senza tempo, ma un frammento della sua mente ancora lucido si accorse che la trasformazione di Birkett in un mucchietto di cenere si svolgeva con incredibile rapidità. Dopo un paio di minuti al massimo tutto era finito. Il fuoco, terminato il suo lavoro, si era spento.

Jerome, sempre in ginocchio aspettò che si attenuassero i dolorosi battiti del cuore e quando ebbe la certezza che non sarebbe morto, si alzò. Una pesante cappa di silenzio era calata sul giardino, trattenuta dal perimetro delle siepi. Fece qualche passo avanti, con cautela. Il fumo azzurro si andava disperdendo rapidamente in volute spinte dalla leggera brezza che gli portava alle narici un sentore di dolciastro. Jerome tentò con uno sforzo di trasformarsi in un osservatore spassionato.

Aveva assistito a un esemplare caso di combustione spontanea, come se una delle foto che aveva visto si fosse trasformata in orripilante realtà. Della testa e del tronco di Birkett restavano solo ceneri ammucchiate in una cavità scavata dal fuoco nel legno della panca. Per raggiungere una tale distruzione doveva essersi sviluppato un calore eccezionale, tuttavia anche in quel caso erano presenti le tipiche anomalie della CUS. Il legno del capanno era secco ma non aveva preso fuoco, e fra le ceneri erano mischiati parecchi brandelli di camicia. Erano rimaste intatte anche le gambe dei calzoni, simili a due tubi flosci ammucchiati per terra, sebbene la carne e le ossa che avevano contenuto fossero ridotte in polvere. Jerome avrebbe scommesso che Birkett era un manichino di paglia o di qualche altra sostanza infiammabile, se non avesse assistito alla scena. Le mani, fin troppo umane giacevano intatte ai lati delle ceneri sulla panca. Il fuoco le aveva troncate ai polsi cauterizzando il sangue, ma dalla crepa in un moncherino filtrava un liquido rosso. All’improvviso Jerome ne ebbe abbastanza. Il suo sistema nervoso era rimasto paralizzato dallo shock, dalle immagini macabre e dall’odore nauseabondo, ma adesso cominciava a reagire. Si voltò, scosso da violenti conati, che continuarono a lungo anche quando il suo stomaco fu vuoto, tanto che dovette reggersi a un albero. La mente, invece, come se fosse staccata dal corpo sconvolto, cominciò a pensare in modo freddo e limpido:

La combustione umana spontanea è un fenomeno rarissimo. Ogni anno se ne verifica solo qualche caso isolato, in tutto il mondo, senza plausibili collegamenti. Di conseguenza è davvero straordinario che due abitanti della stessa cittadina abbiano fatto la stessa fine nel giro di una sola settimana. E ancor più notevole è il fatto che ambedue fossero in cura presso lo stesso medico…

Jerome si staccò dall’albero e, sempre in preda ai conati, ma spinto da una necessità impellente, corse verso la sua automobile. Aveva cercato un legame fra i casi di morte per CUS, un fattore comune, ma non aveva pensato a un agente umano.

E non era ancora disposto a fare la conoscenza del dottor Pitman.

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