Jerome dormì quasi sempre durante il volo verso l’Antartide, ma, sebbene non temesse più per la sua vita, il suo sonno fu turbato da sogni stranamente pessimistici.
Gli avevano raccontato che un gruppo di una ventina di dorriniani, violando il loro codice di non violenza, si fossero armati e avessero dato la caccia al Principe Belzor. L’avevano trovato in un bivacco ben equipaggiato in prossimità del lato sud del Condominio Amity. Sebbene fossero già passati tre giorni dalla morte di Marmorc, il Principe si trovava ancora in uno stato semi-catalettico, talmente svuotato di energie vitali da non essere in grado di opporre una difesa telepatica. Un dorriniano gli aveva iniettato aria nel sangue, causando in meno di trenta secondi la cessazione della già ridotta attività cardiaca. Il corpo, apparentemente morto per cause naturali, era stato messo su un mucchio di neve accumulata dal vento a più di un chilometro dalla tenda. Sebbene fosse l’inizio della primavera nell’Antartico, in quella parte della Terra di Graham era in atto una violenta bufera e il termometro segnava –18. Ben presto la neve aveva coperto il corpo, e i dorriniani erano tornati alla CryoCare dove si erano poi divisi.
«Noi siamo stati molto fortunati» aveva detto Paul Nordenskyöld a Jerome. «Non abbiamo subito perdite, ma le cose sarebbero andate diversamente se il Principe fosse stato in possesso delle sue facoltà.»
Nordenskiöld, portavoce della dozzina fra uomini e donne a bordo dell’aereo, si era tenuto discretamente in disparte per la maggior parte del tempo, per permettere a Jerome di riposare e adattarsi alle nuove circostanze. La notizia della morte di Belzor gli aveva procurato un enorme sollievo, ma nonostante questo era ancora preoccupato e inquieto. Adesso che il più tormentoso dei suoi assilli, la paura di Belzor, era svanito, avevano preso il sopravvento i timori per il futuro immediato e per quello più lontano.
L’opale che portava al dito era un bel gioiello, la storia dei Dorriniani e del loro sogno era un’epopea di grandiosità e coraggio, la parola “reincarnazione” era circonfusa da un alone etereo e spirituale, ma al di sotto di queste nobili astrazioni esistevano ben diverse realtà. Realtà come quattromila corpi ibernati di persone malate di mali incurabili. Jerome stava recandosi a uno strano appuntamento con quei corpi — cadaveri? — per portar loro il dono della vita. Ma quale vita? I Dorriniani erano convinti che tutte le nazioni della Terra avrebbero accettato la loro presenza, ma a Jerome pareva di vedere il bagliore delle aurore australi ravvivato dalle esplosioni nucleari. In un mondo dove sterminio e morte erano all’ordine del giorno come punizione per chi aveva la pelle di un colore diverso, quali erano le prospettive per un gruppo di alieni le cui origini erano marchiate da tutti i tabù mortali noti all’umanità?
E poi, quali erano le sue prospettive personali? Quale poteva essere il futuro di un emaciato gigante, schiacciato da un peso due volte e mezzo superiore a quello naturale?
Come avrebbero trattato quel traditore dell’umanità?
Ma com’è possibile che questo sia successo proprio a me? Jerome si pose questa domanda durante il volo. Una catastrofe dovrebbe essere la conseguenza di un errore irreparabile, mentre tutto quel che io ho fatto è stato fermarmi a una villetta in periferia a Whiteford mentre andavo al lavoro. Se solo avessi proseguito…
«Atterreremo fra dieci minuti circa» disse Nordenskjöld, svegliando Jerome dal suo inquieto dormiveglia. Nordenskjöld aveva la carnagione scura, e i capelli neri ricci che lo facevano sembrare più un italiano che un nordico. Come gli altri, portava anche lui il distintivo “CC”, simbolo della CryoCare.
«Grazie.» Jerome si alzò a fatica e guardò l’orologio inserito in un pannello. Erano le 14.08.
Nordenskjöld gli porse una tuta imbottita e Jerome rabbrividì al pensiero che stava per avventurarsi nel freddo polare. «Prima di infilarmela potrei avere un altro brandy?»
«Naturalmente.» Nordenskjöld andò al mobile bar e tornò con un bicchiere di brandy. Jerome, che aveva bevuto raramente alcolici anche nella prima parte della sua vita, aveva chiesto di bere qualcosa di forte, senza pensarci, appena erano partiti, nella speranza di trovare un po’ di conforto nel calore del brandy, ma i suoi sensi dorriniani si erano ribellati al sapore. Questa volta la reazione fu meno forte e riuscì a ingollare tre lunghe sorsate prima che lo stomaco tentasse di ribellarsi.
Restituì il bicchiere, grato per il calore che sentiva diffondersi in lui, e s’infilò non senza fatica la tuta.
«Sentite, devo partecipare a una spedizione?» chiese, mentre un altro gli porgeva un paio di stivali termici con la suola spessa.
«Dovrete percorrere solo un breve tratto da un veicolo che vi trasporterà fin là, all’ingresso della Criocupola, ma la temperatura è di meno trenta» disse Nordenskjöld. «E all’interno della cupola è pressappoco uguale.»
«Capisco» rispose Jerome che non vedeva l’ora di farla finita con tutto ciò che era freddo e disumano, alieno e innaturale. «E cosa succederà quando entrerò la dentro? Dovrò vedere migliaia di cadaveri?»
«Non posso parlare di questo.»
«Ma io sono il Portatore del Thrabben.»
«Non un Guardiano.»
«Be’, qualunque cosa succederà, spero che avvenga presto. Non vedo l’ora di farla finita.» Come se ubbidisse al suo desiderio, si accese il segnale di atterraggio. Un fruscio attutito accompagnato da una serie di leggeri sobbalzi rivelò che l’aereo aveva spiegato tutto il suo piumaggio di metallo apprestandosi a toccar terra.
Jerome guardò fuori dal finestrino ed ebbe un’impressione di deja vu poiché la scena era identica a quella del Nord Dakota: il mondo pareva fatto di immacolate distese di neve, raggelate in un eterno crepuscolo. Un minuto dopo l’aereo atterrò su una pista metallica riscaldata e si fermò con un rombo delle turbine.
Nordenskjöld e gli altri rimasero immobili ai loro posti finché tornò il silenzio e le luci di avvertimento non si spensero.
Perché affrettarsi all’ultimo momento dopo un’attesa di tremilacinquecento anni? pensò Jerome.
Cercò di immaginare cosa stesse passando per la mente dei dorriniani, che si erano alzati e si davano da fare in silenzio infilando i guanti, raccogliendo gli oggetti personali, comportandosi insomma come pendolari alla fine di un viaggio di routine. Per quanto tentasse non vi riuscì; solo un cristiano convinto dell’approssimarsi del Secondo Avvento avrebbe forse potuto intuire cosa significavano quei minuti per quegli uomini e quelle donne che avevano compiuto il terrificante balzo mentale fra due mondi, spinti da un sogno.
Jerome capì che doveva condividere quel reverente silenzio e si avviò insieme agli altri verso il portello.
Si soffermò sulla soglia vacillando.
Il riposo durante le lunghe ore del volo non era servito a migliorare le sue condizioni fisiche. Faticava a tenere ritta la testa e gli si piegavano le ginocchia come se portasse sulle spalle un grosso peso.
Respirava pesantemente, ma quando Nordenskjöld fece per aiutarlo, imitato da qualcun altro, rifiutò dicendo: «No, no, lasciate, ce la faccio da solo.»
«Capisco» dichiarò Nordenskjöld annuendo gravemente. «È anche meglio per noi che il Portatore del Thrabben faccia un arrivo dignitoso.»
Trattenendo il respiro per attenuare il dolore che l’aria gelida gli infliggeva alle narici, Jerome scese lentamente la scaletta e si fermò a guardare la più vicina motoslitta in attesa poco lontano; quando gli parve di essersi un po’ riposato vi si diresse. Cercò di salire a bordo senza aiuto ma le gambe si rifiutarono di sollevare all’altezza del gradino il peso del corpo appesantito dall’implacabile attrazione di gravità della Terra. Gli altri, che a lui sembrarono dotati di forza erculea, lo sollevarono e lo deposero sul sedile. Soltanto Nordenskjöld salì a bordo con lui.
Aspettarono finché gli altri non ebbero preso posto nei restanti veicoli e poi il piccolo convoglio si mise in moto.
Il tetro paesaggio circostante non contribuiva certo a sollevare lo spirito di Jerome che, isolato nel suo bozzolo di cupi pensieri, non si accorse quando il veicolo oltrepassò i cancelli di una recinzione di filo spinato, e solo quando si fermò strisciando sulla neve davanti a una cupola bassa larga un centinaio di metri, fu di nuovo consapevole della realtà circostante.
Il cuore cominciò a battergli all’impazzata quando capì che stava per scoccare il momento fatale, il momento in cui le storie di due mondi si sarebbero fuse… con risultati incalcolabili.
I Quattromila stavano per essere risvegliati dal loro sonno millenario.
«Non possiamo avvicinarci di più all’ingresso» disse Nordenskjöld strappandolo alle sue elucubrazioni. «Credete di riuscire a camminare fin là?»
Jerome guardò la scalinata a ventaglio che saliva fino all’entrata della cupola. I gradini bassi e molto larghi, si curvavano a seguire il perimetro dell’edificio e salivano tra frangivento di granito e mucchi di neve spazzata. Quello era il posto dove il dorriniano che lui aveva visto morire su Mercurio avrebbe dovuto camminare maestoso e trionfante come Portatore del Thrabben, ma il fato aveva deciso che Rayner Jerome ne prendesse il posto.
«Ce la farò» disse Jerome. «Solo, mettetemi in piedi.»
Aspettò senza muoversi, non osando scendere da solo finché Nordenskjöld non fu sceso a sua volta. Il dorriniano lo aiutò e poi si fece in disparte, pallido e teso mentre Jerome, dopo aver barcollato un poco, cominciava la faticosa salita verso l’entrata buia della cupola. Raggiunto il primo gradino, riuscì a sollevare senza gran difficoltà il piede destro, e dopo essersi chinato in avanti e aver chiamato a raccolta tutte le sue forze, riuscì ad issare anche il resto del corpo.
Il piede sinistro strisciò a raggiungere l’altro, e lui pensò: Non è stato molto difficile. Ne mancano solo sette.
Ma proprio allora si verificarono due eventi inattesi.
Alle sue spalle, Nordenskjöld emise un grido d’angoscia; e davanti a lui, a destra della scala, un mucchio di neve si aprì rivelando la figura di un uomo armato di fucile.
Jerome trattenne il fiato paralizzato da quell’apparizione. L’uomo sollevò la mano libera e abbassò lentamente il cappuccio della giacca a vento mettendo a nudo la faccia, che parve stranamente nota a Jerome. Quando poi la riconobbe, non riuscì a trattenere un gemito.
Seguì un silenzio carico di tensione, poi l’uomo disse: «Proprio così, Rayner… contro tutte le probabilità, torniamo a incontrarci.»
Se ci fosse riuscito, Jerome sarebbe scappato di corsa obbedendo all’istinto, ma era paralizzato dall’orrore, e non riusciva a distogliere gli occhi da quella faccia che un tempo era stata la sua.
Mi hanno mentito, pensò, confuso. Mi hanno mentito perché sapevano che non avrei potuto affrontare una cosa simile.
«No, non hanno mentito» disse Belzor. «Quei pazzi erano riusciti a farmela… credevano di esserci riusciti, e la prova della loro incompetenza è che sono ancora vivo.»
Jerome tentò di arretrare, ma le gambe si rifiutarono di muoversi e tutto quello che ottenne fu un lungo brivido.
«Non puoi muoverti, Rayner» disse Belzor. «Non ti muoverai finché non avrai saputo quello che devi sapere, tutto quello che i tuoi amici non ti hanno detto.»
«Ma., ma credevo che foste morto…» balbettò Jerome.
«Sì, ho commesso un grosso sbaglio eliminando Marmorc in quel modo. In circostanze normali, venti dorriniani non sarebbero stati un problema per me, ma ero troppo debole per combatterli. L’unico modo di cavarmela era di far credere loro che avessi perso la battaglia… ed è stato così facile! La logica avrebbe voluto che mi sparassero alla testa, ma quei pazzi non si erano nemmeno accorti che io li influenzavo quando ho fatto cessare i battiti del mio cuore e mi sono lasciato congelare.» Belzor sorrise. «Il corpo che ho ereditato da te era in condizioni pessime, Rayner. Saresti morto di arteriosclerosi nel giro di pochi mesi, ma adesso è in condizioni perfette e tale resterà per molti anni ancora.»
Jerome, sconvolto e debole, cominciò ad accorgersi che una voce telepatica s’insinuava nel tumulto dei suoi pensieri. Il Principe non ti può far del male, Rayner. Ha commesso un errore venendo qui. Non ha ancora riacquistato tutti i suoi poteri, e noi riusciamo a contrastarlo. Non può puntarti contro il fucile. Porta il Thrabben nella cupola.
«I pazzi hanno ragione solo in parte» disse Belzor. «La mia energia kald si è in gran parte consumata, e per questo riescono a contrastarmi. Adesso combattiamo ad armi pari, decine di Guardiani contro me solo, ma sbagliano nel credere che abbia commesso un errore venendo qua a incontrarti.»
L’odio diede a Jerome la forza di parlare con fermezza. «È stato uno sbaglio, Belzor. Avete cercato di uccidermi.»
Belzor continuava a sorridere imperturbabile. «Ho sparato e ti ho mancato. Quando tu hai sparato mi hai colpito. Siamo pari.»
«Non era una gara. Voi avete ucciso Pitman.»
«Non te la prenderai troppo per questo, eh? Un ladro di cadaveri dorriniano! Un invasore alieno che stava per sottoporti a un transfer! Sii logico, Rayner!»
«Sto cercando di esserlo» rispose Jerome incoraggiato dalla convinzione che Belzor non stava per ucciderlo. «E insisto nel dire che avete sbagliato a venire qui.»
«Ma pensa un po’ all’alternativa che avevo. Avrei potuto nascondermi da qualche parte e lasciare che tu portassi il Thrabben per reincarnare quattromila potenti dorriniani che avrebbero degli ottimi motivi per volermi morto? Questo sarebbe stato il vero errore.»
Il Principe non può impedirti di consegnare il Thrabben disse la voce telepatica. Portalo subito nella cupola!
Jerome mosse un passo verso il gradino successivo. «Avete cercato di uccidermi, Belzor!»
«Quel giorno al lago ti ho sottovalutato, Rayner. Il fatto che tu sia ritornato su questo pianeta dimostra quanto. Ma ormai è acqua passata. Adesso so che sei abbastanza intelligente da fare quello che è meglio per te e la tua gente. Questo è il motivo per cui sono qui ora: gioco la mia vita contro la tua intelligenza.»
«Ma…» Jerome irrigidì le gambe per meglio reggere il peso del corpo. «Non capisco.»
«Voglio che tu mi dia il Thrabben. Tu devi consegnarmi spontaneamente il Thrabben e permettermi di dissipare le energie kald che contiene… gettando così per sempre nell’oblio i Quattromila.»
Porta il Thrabben nella cupola. SUBITO!
Jerome sollevò con uno sforzo le braccia e premette le mani sulle tempie. «Perché?» chiese a Belzor. «Perché lo dovrei fare?»
«Perché, Rayner, io adesso ti racconterò la verità sui Quattromila… quella verità che i tuoi etici amici ti hanno nascosto con tanta cura… e quando saprai…»
Una fitta dolorosa e un urlo si propagarono nella mente di Jerome, echi telepatici di una battaglia telepatica che si spandevano e riverberavano lungo i circuiti nervosi.
Vide Belzor impallidire e barcollare.
«E quando saprai» ripeté Belzor scandendo ogni parola con lo schiocco di un osso che si frantuma, «deciderai liberamente che i Quattromila non hanno posto nel tuo mondo… né il alcun altro…»
PORTA IMMEDIATAMENTE IL THRABBEN NELLA CUPOLA!
«L’ira e la paura dei Guardiani va aumentando, ma non possono impormi la loro volontà finché sono vivo.» Belzor tacque. Pareva che facesse fatica a reggersi, e quando riprese a parlare la sua voce era più debole. «I Quattromila di cui hai portato il kald sulla Terra, erano i padroni assoluti di Dorrin prima dei Giorni della Cometa. Erano dei supertelepati che si erano uniti formando una mente composita dotata di un potere senza limiti. Hai visto di che cosa è capace un supertelepate. Cerca di immaginare il suo potere moltiplicato per quattromila. Se la mente composita dorriniana tornerà a vivere avrà il completo controllo di tutti gli esseri di questo pianeta. Deciderà tutto. Controllerà tutto. Tu sei un essere umano, e come tale ritieni un dono prezioso il tuo libero arbitrio, Rayner Jerome… e io ti dico che adesso potresti approfittare dell’ultima occasione per servirtene. Non prendere la decisione sbagliata!»
Jerome si accorse che stava vacillando, il corpo si era fatto di piombo e non riusciva a tenerlo eretto, ansimava e l’aria gelida gli lacerava i polmoni, ma in quel momento il dolore era una cosa remota, non aveva importanza. Il disco di rame del Sole, smorzato dal grigiore sull’orizzonte, illuminava il campo di battaglia di una luce debole e fosca.
I Dorriniani che gli stavano alle spalle erano immobili e silenziosi, e anche Belzor taceva — attento, in attesa — ma tutto intorno divampava un conflitto psichico, di cui Jerome percepiva l’eco degli scontri. Intrappolato in mezzo ai contendenti, doveva prendere una decisione impossibile senza neppure essere certo che le fantastiche asserzioni di Belzor fossero vere.
«Ho detto la verità» dichiarò Belzor. «Guardami.»
Jerome guardò la faccia che era stata sua, vide gli occhi lampeggiare, sentì che cominciava quel particolare dolore…
E si ritrovò sulla Terra, ventimila anni prima quando i colonizzatori dello spazio installavano gli accampamenti e diffondevano la loro civiltà, senza che le tribù indigene li contrastassero. I colonizzatori non si stupivano nel trovare degli esseri umani — parecchi mondi abitabili in quella parte dello spazio erano stati inseminati nel corso di remote e dimenticate migrazioni — ed erano così progrediti tecnicamente da avere una completa fiducia nella loro capacità di superare gli ostacoli.
Ma la prima, e più grande minaccia veniva dall’interno.
Si verificò una mutazione grazie alla quale nacquero individui dotati di poteri psichici, fra cui la telepatia. Il gene dominante della mutazione avrebbe permeato tutto l’insieme dei geni con l’andare del tempo, ma la maggioranza che non era dotata di quelle facoltà cominciò presto ad allarmarsi e prese dei provvedimenti per isolare i mutanti. Decisero di sistemarli sul pianeta più vicino al Sole perché le condizioni naturali avrebbero costretto i mutanti a vivere sottoterra, incapaci di sviluppare le risorse fisiche necessarie per viaggiare nello spazio. Ma non avevano previsto che dai telepati sarebbero nati dei supertelepati, arrivando all’estrema forma dei Quattromila… l’enorme mente aggregata che assunse il controllo di tutte le forme vitali del pianeta…
Il dolore scomparve e Jerome vide che Belzor si era accasciato sulle ginocchia. L’urlo subliminale nella mente di Jerome aumentò di forza e intensità, fino a diventare insopportabile, segno che la battaglia psichica stava per raggiungere il culmine.
«È venuto il momento di decidere, Rayner» disse Paul Nordenskjöld alle spalle di Jerome. «Stiamo prendendo lentamente il sopravvento sul Principe, e fra un’ora saremo in grado di decidere per te. Ma adesso sei ancora libero di scegliere. Deciderai saggiamente? Starai dalla parte del male, cioè di Belzor, gli consentirai di distruggere il Thrabben e accetterai la ricompensa che deciderà di darti?»
«Io ti renderò immortale» sussurrò Belzor. «Ti darò un corpo dopo l’altro. Vivrai per sempre.»
Nordenskjöld lo interruppe. «Pensaci bene, Rayner. Conosci Belzor. Non appena si sarà impadronito del Thrabben ucciderà tutti i dorriniani qui presenti, e probabilmente anche te. Ma anche se mantenesse la promessa non vivresti in eterno, perché il tuo mondo sta precipitando verso la distruzione. La guerra nucleare, nel prossimo inverno, segnerà la fine di tutta l’umanità su questo pianeta. E questo porta all’altra scelta che puoi fare per il bene di ogni uomo, donna e bambino sulla Terra. Tutto quello che devi fare è portare il Thrabben nella cupola, e allora finirà la guerra. E la fame. E le malattie. E i delitti contro gli uomini e contro il pianeta. Tutto questo finirà per sempre. La tua libertà di scelta non sarà mai così preziosa come i questo momento. Non offriamo la vita eterna a te come individuo, ma la tua specie potrà invecchiare quanto il Sole.»
Jerome rimase immobile per tre battiti del suo cuore sobbalzante, poi cominciò ad avviarsi verso l’entrata buia della cupola. Gli si piegavano le ginocchia a ogni passo e sapeva che se fosse caduto gli sarebbe stato impossibile rialzarsi, ma riuscì a procedere senza barcollare e con la testa eretta. Era importante che il Portatore del Thrabben facesse un ingresso dignitoso.
La voce di Belzor, carica d’angoscia e così debole da sembrare una comunicazione telepatica disse: «Non far lo stupido, Jerome! Non lasciarti ingannare da loro. Credi davvero di agire liberamente, in questo momento? Credi di aver mai…?»
Jerome continuò a salire verso la cupola.
La stanza circolare era piena di una gelida nebbia biancastra che tuttavia non offuscava le file di bare allineate. Dalle lampade del soffitto pioveva una luce fievole simile a un chiaro di luna verde. Al centro del pavimento c’era un piedestallo sormontato da un grosso emisfero di cristallo. Senza che glielo avessero detto, Jerome sapeva che doveva arrivare al piedestallo. Camminava come in sogno e come in sogno si avvicinò al piedestallo e vide che sulla piatta superficie superiore era inserito un disco di platino. Come in sogno si sfilò il guanto sinistro.
L’anello d’opale del Thrabben scivolò senza difficoltà dal suo dito e lui lo depose sul disco.
Non percepì rumori, non vi fu alcuna visibile conseguenza della sua azione, ma l’agitazione, il tumulto, il quasi udibile fragore del conflitto finirono di colpo.
Belzor è morto, pensò senza provare emozione. Si voltò per raggiungere il gruppo in attesa all’ingresso, ma il peso del corpo gli divenne d’un tratto insopportabile, e l’attrazione gravitazionale della Terra ebbe finalmente la meglio.
Jerome incespicò e cadde in ginocchio, e attese impotente che Nordenskjöld e un altro si precipitassero ad aiutarlo. Lo rimisero in piedi e lo trasportarono nell’atrio.
Jerome cercò di sorridere mentre Nordenskjöld lo aiutava a sedersi su una sedia. «Non credevo… di essere così debole. Non so se potrò resistere ancora per molto.»
«Non sarà necessario» gli disse Nordenskjöld. «Vi ricompenseremo.»
«Ma non vedo come…»
Provò per un attimo quel particolare dolore, e poi si ritrovò in ginocchio nella neve accanto alla scalinata che portava alla cupola. Si alzò, e anche nel tumulto dello shock e della confusione, ebbe modo di accorgersi che non aveva fatto nessuna fatica. Stringeva qualcosa di pesante nella destra. Guardò: era il fucile e, cercando di esprimere l’inesprimibile, lo scagliò lontano nella neve.
Corpo ed anima si erano riuniti, e lui si sentiva a posto. Non esisteva niente nell’universo capace di compensare la perdita di quella sensazione. Si voltò per avviarsi verso la cupola, e si accorse che anche senza occhiali aveva una vista perfetta. Era arrivato all’ultimo gradino quando Nordenskjöld emerse dal buio rettangolo dell’ingresso.
«Non dovete fermarvi ancora qui, Rayner» disse Nordenskjöld prendendolo per un braccio e avviandosi verso la gradinata. «L’aereo è a vostra disposizione e potete partire appena avrà fatto rifornimento.»
«Un momento!» Jerome rifiutò di muoversi. «Non potete sbarazzarvi così di me.»
«Abbiamo usato, e anche abusato, di voi» disse l’altro in tono solenne, «ma siete anche stato ricompensato. Belzor non mentiva circa le condizioni in cui si trovava una volta il vostro corpo, ma adesso è perfetto, naturalmente, quanto può esserlo un corpo umano…»
«Non alludevo a questo» lo interruppe Jerome. «Cosa ne sarà di… tutto? I Quattromila si sono reincarnati? Si metteranno in contatto con le Nazioni Unite? E cosa…?»
«Calma!» lo esortò sorridendo Nordenskjöld. «Noi non vogliamo precipitare le cose… non dopo aver pazientato per migliaia di anni. La presenza dei Quattromila sulla Terra rimarrà segreta finché i tempi non saranno maturi. Potranno lavorare meglio così, senza cambiare radicalmente il vostro mondo. Sono sicuro che converrete anche voi che questo è il sistema migliore.»
Jerome non era soddisfatto. «E tutti quelli che vivono su Mercurio? Mi avevano detto che si stava preparando un imponente programma spaziale per trasportarli qui.»
«Anche questo sarà attuato a tempo debito. Verrà divulgata la notizia che l’astronauta salvato su Mercurio è morto per arresto cardiaco, ma che prima di morire aveva dichiarato di esser nato in una colonia sotterranea di quel pianeta. La tuta e la radio dorriniane verranno fatte esaminare da chi di dovere. Tutto questo susciterà abbastanza interesse da allestire altre missioni per Mercurio, dopo di che tutto si evolverà naturalmente.»
«Non può funzionare» obiettò Jerome. «Anche se i dorriniani non diranno niente dei Quattromila, e di come sono arrivati qui, i terrestri che riporterete indietro lo grideranno ai quattro venti.»
Nordenskjöld scosse la testa: «No, Rayner. Diranno solo quello che i Quattromila vorranno che dicano. Ricorderanno solo quello che i Quattromila vorranno che ricordino.»
«I Quattromila sono in grado di esercitare un tale controllo su tante persone contemporaneamente?»
«Certamente. È una cosa semplicissima.»
«Mi pare che tutto questo porti alla conclusione che mi succederà qualcosa» disse Jerome, non ancora persuaso.
«Non allarmatevi, Rayner» lo rassicurò con grande gentilezza Nordenskjöld. «Noi siamo un popolo molto etico.»